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11/02/2023

Aiuti (di Stato) ma per pochi: la coscienza sporca della UE

“Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”, recita un vecchio adagio, ed effettivamente è quanto sembra stia accadendo in questi mesi, a cerchi concentrici, fra diversi alleati storici, prima di tutto fra le due sponde dell’Atlantico (USA ed Unione Europea) e poi dentro la stessa Unione.

È una storia che inizia ad agosto dello scorso anno, quando gli USA approvano il cosiddetto “Inflation Reduction Act” (IRA). Il nome trae parzialmente in inganno: si tratta infatti di una legge che sembrerebbe finalizzata principalmente a contrastare l’inflazione, ed in effetti toglie risorse dall’economia, con una riduzione prevista del deficit – nell’arco di 10 anni – di circa 240 miliardi di dollari. La legge in realtà prevede anche numerosi interventi sia sul lato delle entrate (la misura più rilevante è una nuova imposta minima effettiva del 15% sui profitti delle corporation più grandi) sia, soprattutto, dal lato delle uscite. Qui l’aspetto più rilevante per la nostra storia è la previsione di un maxi piano di sovvenzioni governative, per un importo pari a oltre 390 miliardi di dollari sempre nell’arco di 10 anni, a sostegno degli investimenti nella transizione energetica, clima, etc. Un ritorno in grande stile dell’intervento pubblico in economia, di dimensioni davvero fuori dal comune rispetto a quanto sperimentato dalle economie occidentali negli ultimi decenni, ma di cui beneficeranno solo alcuni; l’IRA, infatti, fissa alcuni paletti per le imprese che potranno accedere a questi finanziamenti, il più importante dei quali consiste nel fatto che questi aiuti sono riservati alle imprese residenti negli USA.

E qui veniamo ai primi amici che si sono sentiti traditi: i vertici europei (Commissione in primis, ma soprattutto Germania e Francia) hanno lamentato il carattere protezionistico della misura, temendo che questa possa creare un formidabile incentivo a localizzare negli Stati Uniti, a discapito del nostro continente, nuovi investimenti industriali.

Dopo aver tentato invano di convincere gli USA a desistere dal carattere selettivo della misura (con inclusa una minaccia di ricorrere al WTO per violazione degli accordi internazionali sul commercio), si è aperta la discussione sul tipo di risposta economica da assicurare, valutando in particolare se (e in che misura) affidarsi a un’iniziativa comune europea, oppure lasciare gli Stati membri intervenire in ordine sparso.

Il nodo è stato sciolto in questi giorni dalla Presidente della Commissione von der Leyen, che ha presentato con grande enfasi il Green Deal Industrial Plan – appunto la risposta europea alla mossa statunitense – che, da un punto di vista operativo, consiste essenzialmente in una rimodulazione della disciplina europea sugli aiuti di Stato, cioè la normativa che regola modalità e limiti con cui uno Stato dell’Unione Europea può erogare incentivi a determinati settori economici. Tradizionalmente tali limiti sono molto stringenti, in ossequio al principio ultraliberista alla base del mercato unico. Uno Stato deve effettuare una notifica alla Commissione ogni volta che decide di fare un intervento a sostegno di determinati settori (fanno eccezione solamente gli aiuti de minimis, che per definizione sono di piccolissimi importi). La Commissione valuta la misura dello Stato, in particolare per i suoi presunti caratteri discriminatori e di distorsione alla concorrenza (cioè un maggior favore alle imprese nazionali), e se giudica la misura contraria alla normativa sugli aiuti di Stato non solo questa deve essere rimossa, ma gli aiuti già erogati devono essere restituiti. Abbiamo insomma la realizzazione concreta di quell’impianto neoliberista in base al quale il mercato sarebbe certo capace di assicurare il migliore dei mondi possibili, se solo fosse lasciato libero di funzionare e non intervenisse lo Stato a perturbarlo.

Si tratta, lo ripetiamo, non di una norma qualunque, ma di uno dei principi cardine dell’architettura economica dell’Unione Europea, al pari dei vincoli alle politiche fiscali espansive e alla politica monetaria finalizzata unicamente a garantire la stabilità dei prezzi, con un ruolo chiave nel controllo assegnato alla Commissione chiamata a fare da guardiano dei Trattati.

Ebbene, per tornare al Green Deal Industrial Plan, in cosa consisterà la risposta europea? Sostanzialmente in un alleggerimento dei vincoli alla normativa sugli aiuti di Stato, in particolare (pare) con un significativo innalzamento della soglia per gli aiuti sottoposti al meccanismo di notifica e successivo controllo da parte della Commissione, che sostanzialmente dice agli Stati membri “beh, visto che gli USA stanno mettendo in campo importanti incentivi economici, riservati alle loro industrie nazionali, se volete (e ve lo potete permettere) voi fate lo stesso”.

Il tranello sta proprio in quel “se ve lo potete permettere”, perché al rilassamento sul fronte degli aiuti di Stato non corrisponde alcun cambiamento sul fronte della possibilità lasciata agli Stati di intervenire a sostegno dell’economia, che, anzi, fra riforma delle regole di bilancio e politica monetaria restrittiva da parte della BCE, viene sempre più ostacolata.

Sostanzialmente, quindi, la scelta della Commissione di procedere in ordine sparso e attraverso il meccanismo degli aiuti di Stato apre spazi di manovra solamente ai Paesi con “i conti in regola”, che si traducono in “spazio fiscale” per poter fare spesa pubblica senza incorrere nella mannaia dei parametri di disciplina fiscale che la costruzione europea impone. Non a caso questa opzione è sostenuta principalmente da Germania e Francia (ovviamente anche il peso politico, oltre alla disciplina di bilancio, conta). Il corollario è, però, ovvio. I Paesi come l’Italia, che non hanno i conti in regola, avranno la possibilità di spendere solamente briciole, nella migliore delle ipotesi, a difesa della produzione nazionale e dell’occupazione. Veniamo quindi al secondo “tradimento degli amici”, fra cui ci siamo soprattutto noi, che a quanto pare dovremo accontentarci di non vedere gli investimenti in Italia traslocare verso gli States, ma “solo” verso altri paesi europei... bella soddisfazione!

Si tratta, come si può immaginare, di temi e ragionamenti apparentemente assai lontani dalla nostra vita concreta, ma che invece ci devono interessare (e preoccupare) per almeno tre ordini di motivi:

1. Dinamiche come quelle sopra descritte sono uno dei “motivi profondi” che stanno dietro i processi di delocalizzazione e impoverimento industriale che ben conosciamo; se fino ad ora questo avveniva soprattutto a causa di una corsa al ribasso in termini di tutele del lavoro e ambientali, nei prossimi anni torneremo probabilmente a vedere un ruolo più centrale da parte degli Stati, che sceglieranno in maniera più efficace di promuovere e difendere alcuni settori. Se staremo a guardare, privandoci degli strumenti per poter intervenire, difficilmente potremo contrastare il deserto industriale che si prepara.

2. La vicenda ci conferma l’ipocrisia del sistema di governo dell’Unione Europea, che da un giorno all’altro piccona “dall’interno” uno dei suoi capisaldi apparentemente intoccabili, e cioè la normativa sugli aiuti di Stato, ma allo stesso tempo riafferma – anzi rafforza – altri suoi dogmi (austerità, ritiro degli Stati dalle funzioni fondamentali, etc.), che in questo modo si rivelano per quello che sono: non leggi tecniche necessarie, ma scelte politiche contro cui si può e si deve lottare.

3. Ancora, la vicenda mette a nudo la pochezza del governo Meloni: proprio colei che doveva dimostrare all’Europa che la pacchia era finita, ora piagnucola che l’Europa faccia l’Europa, denunciando la scorrettezza dei Paesi che pensano di fare da soli “rischiando di indebolire il mercato unico” e invocando nientedimeno che il “level playing field”, cioè proprio il peggio della retorica liberista su cui l’Unione Europea è costruita.

Ancora una volta, questa vicenda ci mostra come l’intervento dello Stato nell’economia sia necessario per evitare deindustrializzazione e impoverimento di un Paese. È una verità talmente ovvia che anche l’Unione Europea lo ammette nei fatti, di fronte alla tempesta causata dagli sconvolgimenti degli ultimi anni e all’interventismo economico degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, però, emergono due aspetti odiosi: in primo luogo, il contrasto a deindustrializzazione e impoverimento è, per le istituzioni europee, un interesse al più secondario, da subordinare all’adesione cieca al dogma dell’austerità; in secondo luogo, la promozione di un certo interventismo statale ha la chiara funzione di favorire gli interessi economici dei paesi più forti a danno della periferia europea.

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