di Guido Salerno Aletta
La Storia è tutta un fare e disfare.
Nel 2012, appena passata la bufera sull'Eurozona, sono state adottate due strategie di politica economica completamente opposte: mentre quella di bilancio era particolarmente severa, con il Fiscal Compact che imponeva il pareggio strutturale; quella monetaria era particolarmente accomodante con i tassi a zero ed immissioni continue di liquidità.
La ragione era questa: la politica monetaria doveva correggere gli effetti negativi della politica di bilancio, che influiva anche sui prezzi portandoli a diminuire. Se i prezzi calano, tutto si blocca: chi produce si trova infatti a vendere a prezzi più bassi di quelli a cui ha comprato le materie prime.
La crisi che aveva colpito l'Eurozona era stata determinata da una serie di fallimenti sistemici: Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna avevano i conti esteri in dissesto, per l'esposizione eccessiva in debiti bancari e pubblici.
L'Italia, a sua volta, aveva un debito pubblico elevato, una bilancia commerciale passiva ed una posizione finanziaria netta verso l'estero fortemente debitoria.
Il risanamento dei bilanci pubblici, accompagnato dalla politica monetaria accomodante si è interrotto a causa della pandemia, nel biennio '20-'21, quando gli Stati si sono accollati spese elevatissime per contrastare gli effetti recessivi del blocco delle attività economiche.
Un altro fattore di enorme disturbo è stato determinato dalla fiammata inflazionistica iniziata nella primavera del '21: la ripresa dell'economia, in vista della fine delle restrizioni imposte dai governi per limitare i contagi, era accompagnata da un aumento sbalorditivo dei prezzi.
I produttori di materie prime e gli speculatori sui mercati internazionali aspettavano l'occasione giusta per rifarsi.
C'è un altro fattore più importante ancora: la sfida della transizione energetica, che viene imposta come unica condizione che consente la sopravvivenza della vita sul Pianeta, impone investimenti colossali alle imprese e spese altrettanto enormi e non recuperabili per i cittadini e le famiglie.
È per affrontare questa sfida che è tornato centrale il ruolo degli Stati: tutto è cominciato con le "carbon tax", con l'istituzione di specifiche imposte sulle produzioni e sui consumi considerati negativi dal punto di vista ambientale finalizzate a disincentivarli ed a finanziare gli investimenti e gli acquisti di beni compatibili con gli obiettivi ambientali.
C'è dunque una diretta correlazione tra le politiche ambientali ed i bilanci pubblici: in ogni caso, quando sarebbe troppo complesso ed impopolare imporre tasse ambientali, ad esempio aumentando il prezzo della benzina o del gasolio, si creano divieti a termine: dal 2035, ad esempio, l'Unione Europea ha già previsto che non si potranno più mettere in commercio autovetture con motore a combustione interna. Si forza così la transizione verso l'auto elettrica, prevedendo da subito incentivi fiscali per il loro acquisto.
Tutta la transizione si fonda da una parte su politiche pubbliche vincolanti e dall'altra su bilanci pubblici che facciano da pompa: ai mercati, ma solo a questi fini, i deficit ed i debiti pubblici non fanno più paura.
Non si tratta più di finanziare in disavanzo il Welfare State, le spese sociali per la sanità, l'istruzione, il diritto alla casa, l'assistenza sociale: era tutto denaro sottratto al mercato. Era tutto fatturato in meno per i privati, tutto profitto che veniva avocato dallo Stato.
Ora, al contrario, si tratta di finanziare una cosiddetta "Quarta Rivoluzione industriale": il rischio è grande, ed è bene che gli Stati ci mettano anche i soldi, indebitandosi. Tanto, se le cose vanno male, possono sempre aumentare le tasse o mettere una bella patrimoniale.
Ecco perché tanto silenzio nonostante i debiti pubblici che crescono: fanno comodo a chi vuole approfittare della transizione energetica ed ambientale per entrare sul mercato e fare soldi.
Ma i rischi finanziari, quelli veri, se li devono accollare gli Stati: si deve salvare l'Umanità o no?
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento