Sui media nostrani, a seconda di quanto si vuole criticare il governo, è stata rilanciata la notizia che la Corte dei Conti Europea ha evidenziato i pesanti ritardi nell’erogazione dei fondi e nell’attuazione dei programmi del PNRR. L’organismo lussemburghese ha fatto un po’ di chiarezza sui dati.
Infatti, al consiglio dei ministri del 30 agosto, il governo si era vantato del fatto che l’Italia, principale beneficiaria del NextGen EU, avesse pure il primato di fondi ricevuti (113,5 miliardi, il 58% del totale). La realtà è che, di questi soldi, per ora sono stati spesi solo 51,4 miliardi di euro sui 194,4 totali previsti.
Ma a preoccupare non è tanto il fatto che appena un quarto o poco più dei fondi sono stati effettivamente utilizzati, quanto piuttosto le difficoltà che i governi hanno mostrato nel definire e far approvare i progetti. E la situazione attuale significa che il 62% degli investimenti dovrà essere finalizzato nei primi otto mesi del 2026.
Per quel periodo gli altri paesi si sono lasciati, in media, il 39% degli investimenti e il 14% delle riforme. Quegli otto mesi saranno dunque una fase decisamente impegnativa, a cui si deve aggiungere che Roma dovrà raggiungere anche il 28% degli obiettivi promessi, per ricevere un ulteriore 19% dei fondi.
Questo dicono le modifiche al PNRR ottenute nel 2023, anche se si è acceso il dibattito sulla possibile richiesta di ulteriori aggiustamenti. Il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, che appena un paio di settimane fa ha detto che i vincoli del PNRR ricordano la “pianificazione sovietica”, potrebbe richiedere un’altra proroga all’Eurogruppo del 13 settembre.
Raffaele Fitto, uomo di punta di Fratelli d’Italia e ormai quasi certamente Commissario europeo, invece, difende la scadenza del 31 agosto. Rispettarla è però “uno sforzo improbo, per usare un eufemismo”, ha affermato Antonio Misiani, responsabile Economia del PD. “Fitto lo sa, ma fa il pesce in barile”, il che sembra una dote indispensabile per un commissario europeo...
Ovviamente, il centrosinistra dibatte sulla “realizzazione degli obiettivi” non sul fatto che i fondi finiranno tutti sull’altare della competitività, dimenticando le spese sociali e i lavoratori. E soprattutto, fa propaganda su particolari criticità solo italiane, ma dimentica di dire che tutto il “modello europeo” vive queste difficoltà, e anche il perché.
La Corte dei Conti Europea ha registrato come, a fine 2023, i paesi dell’Unione abbiamo attinto a meno di un terzo delle risorse del piano definito in seguito alla pandemia Covid (213 miliardi). Solo il 70% delle richieste previste è stato presentato, per una somma inferiore del 16% rispetto a quanto ci si aspettava.
Inoltre, solo la metà di questi fondi sono arrivati alle società e alle istituzioni a cui erano destinati. I motivi, stando al rapporto della Corte, vanno dall’inflazione, che ha scombussolato le previsioni, alle incertezze normative, fino alla scarsa capacità amministrativa.
Non solo in Italia, quindi, un quindicennio di riforme lacrime e sangue ha distrutto la capacità delle amministrazioni pubbliche di svolgere un ruolo direzionale del paese, lasciando campo libero alle inefficienze e alla caoticità del mercato. Oggi che la UE si rende conto che serve “più stato per il mercato”, fa i conti con le politiche miopi degli ultimi anni.
Quasi tutti i paesi coinvolti nel NextGen EU hanno presentato in ritardo le richieste di pagamento alla Commissione Europea. In questo scenario, la Corte dei Conti ha fatto sapere che non è contraria in via di principio a una proroga delle scadenze, l’importante è che “i soldi non siano sprecati e siano usati per quello per cui sono stati assegnati”.
La concentrazione degli investimenti negli ultimi mesi è probabile che “aggravi ulteriormente i ritardi e rallenti l’assorbimento” dei finanziamenti. La Commissione e i governi nazionali hanno messo in campo iniziative per agevolare quest’ultimo, in particolare nel 2023, ma quanto queste saranno funzionali è difficile da sapere, per ora.
Il rischio è poi che i fondi vadano proprio persi, poiché la normativa non prevede il loro recupero nel caso in cui, pur raggiungendo traguardi e obiettivi, le misure previste non vengano realizzate. Insomma, non solo a Bruxelles spendono solo per la competizione globale, ma non lo sanno nemmeno fare.
Intanto, la crisi economica colpisce tutta la UE, e i segnali della sua locomotiva tedesca sono sempre più preoccupanti. Il primo tentativo di una ‘politica industriale’ comunitaria è messo in difficoltà dai risultati delle scelte economiche precedenti, che oggi sono sempre più orientate a un’economia di guerra.
Non è (solo) un problema di fascisti al governo, è un problema che liberali (o socialdemocratici che siano) e fascisti sono ugualmente partecipi di un progetto imperialista – quello UE – che ha strozzato le popolazioni del Vecchio Continente e si mostra ogni giorno più fallimentare. Questa gabbia europea va rotta per realizzare un’alternativa.
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