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07/09/2024

Luca Carboni (1992) Carboni

1992. Un anno che evoca immediatamente il ricordo di uno dei periodi più bui della storia italiana. Non si contano gli eventi negativi che cambieranno per sempre il nostro paese. Dalle stragi mafiose a Tangentopoli, dal deficit di bilancio all'11% alla Borsa che affonda in quello che sarà chiamato il Mercoledì nero.

In questo clima costantemente surreale, tetro, negativo i juke-box si apprestano, peraltro, a vivere l’ultima stagione della loro gloriosa esistenza. Gli anni '80 dello storico sorpasso alla Francia, della Milano da bere, delle estati al mare "con la voglia pazza di remare, fare un po’ di bagni al largo per vedere da lontano gli ombrelloni" mutano improvvisamente in qualcos’altro. E diventano, per cantarla con Raf, “anni afferrati e già scivolati via”, “vuoti come lattine abbandonate”.

Per Luca Carboni il 1992 è però l’anno della maturità piena. L'anno in cui disfarsi di ogni insicurezza e provare finalmente a scalare le classifiche. Gli italiani lo premiano fin da subito. Sempre più stanche delle menzogne e del malaffare, le persone hanno ormai solo tanta voglia di cantare la vita, magari dopo aver alzato gli occhi al cielo per chiedere “se almeno lui la sa la verità” (“Alzando gli occhi al cielo”). E Carboni asseconda in ogni strofa questa particolare esigenza, e regala alle persone la semplicità di un sogno ad occhi aperti, come quello di comprare “la moto usata ma tenuta bene”, fare “il pieno in autostrada”, prendere “l’aria sulla faccia” e raggiungere finalmente la spiaggia, il mare, la risacca.

“Carboni” arriva quindi insieme al 1992. A gennaio. È il quinto album in studio del cantautore bolognese. Il primo con Mauro Malavasi in cabina di regia, il musicista e produttore di Mirandola artefice della rivoluzione disco tra i '70 e gli '80 tutta in salsa italiana, con etichette come My Record e Goody Music e meteore come My Mine e Antennas, gli italoamericani Change, l’indimenticabile Petrus e il duo Macho formato dallo stesso Malavasi con il vocalist Marzio Vincenzi. E si potrebbe continuare citando una lista infinita di singoli e produzioni killer.

A risentirne fin da subito è infatti il sound miracoloso che traccia un solco con il passato di Carboni, dominato perlopiù da sonorità asciutte a sostegno di una scrittura maledetta, melanconica, disperata. Il ragazzo che vaga sotto i portici con “la maglia del Bologna sette giorni su sette”, figlioccio dei mentori Dalla e Curreri, nel 1992 ha ormai le spalle larghe grazie soprattutto al triennio magico che va dal 1983 al 1986, nel quale tira fuori i dischi che lo porteranno fuori dal cerchio, ossia “...intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film” (Rca, 1984) e “Forever” (Rca, 1985), entrambi contenenti canzoni memorabili per frotte di adolescenti dispersi, su tutte “Ci stiamo sbagliando” e “Sarà un uomo”, open track rispettivamente del primo e del secondo album.

Certo, porta ancora i segni narrativi di ballate tristi come “Silvia lo sai”, “Farfallina”, “Persone silenziose”, le prime due contenute nel primo disco omonimo, “Luca Carboni” (Rca, 1987), la terza nell’album successivo (Rca, 1989), stampato giusto tre anni prima del fatidico 1992. Opere senz’altro fondamentali per il cantautore emiliano che lo condurranno più o meno a vele spiegate verso il disco da primato della sua carriera, che vanta ben 49 settimane nella classifica di "Tv Sorrisi e Canzoni", otto delle quali passate in vetta, e il titolo di album più venduto in Italia del 1992, con circa 800mila copie, l’unico in grado di contrastare l’ascesa anglofona di Queen, U2, Elton John ed Annie Lennox.

Le canzoni del primo passato sono quindi importanti per la genesi, soprattutto testuale, di “Carboni”. A cominciare da “Primavera”, di fatto il brano che più di ogni altro riunisce e anticipa umori e pulsazioni di un disco che è un vero e proprio gioiello, incastonato così com’è tra la leggerezza di un ritornello – su tutti quello del tormentone dei tormentoni estivi, “Mare mare”, che non a caso vincerà a mani basse la ventinovesima edizione del Festivalbar – e la liberazione di un uomo con il “cuore malato” al cospetto di un angelo sceso improvvisamente giù dal Paradiso per portarlo a ballare, in una sinapsi incredibile di suoni funk-disco e tastiere lunari (“Baila Sad Jack”).

“Carboni” è innanzitutto un album perfetto fin dall’attacco. “Ci vuole un fisico bestiale”, primo singolo di lancio del disco, si conficca in testa all’istante con gli assolo di chitarra fulminei, volutamente strozzati di Mauro Gardella, il passo irresistibile inferto dal basso di Luca Malaguti, le geniali programmazioni ai synth di un Malavasi in futuro mai più così ispirato e le parole brucianti, che mostrano per la prima volta in assoluto un’irrefrenabile voglia di salute e benessere. Il testo, come ben chiaro, non è dei più sbarazzini. Tutt’altro. Eppure Carboni fa breccia praticamente nei cuori di tutti. Che siano fumatori o alcolisti, ignoranti cronici o maestrine non fa differenza. Tutti pazzi per l’esame di coscienza collettivo del Luca nazionale.

Segue l’agrodolce ballata sulla (non) fine di una relazione, “Le storie d’amore”, in cui i cuori diventano “scatole perfette in cui ritrovi sempre tutto”. Due sole tracce per fare spazio al capolavoro dell’album: gli ottoni tropicali cantabili in apertura immortalano in “Mare mare” l’emozione pigra di una tipica estate italiana, torrida e annoiata, dalla sottesa inquietudine della strofa dove alla giornata assolata in riva al mare segue con fatica l’ingresso nella notte (“Ma cosa son venuto a fare? Ho già un sonno da morire”), impennando con una modulazione che apre a un ritornello pieno di smania (“Mare mare, ma sai che ognuno c’ha i suoi sogni da inseguire sì, per stare a galla e non affondare”). Il brano si trasforma in un inno transgenerazionale che straborda dalle radio, dai juke-box, dai televisori e dai boombox sui bagnasciuga, imprimendo le due velocità di quell’estate effimera, tra spiaggia e locali, e travalicando generi e classi.

Durante l’ascolto ci troviamo in mano cartoline e polaroid di inizio decennio dal sapore tutto italiano, tra imprecazioni urbane di yuppie attempati, signore diffidenti e “chi si deve bucare in un angolo di dolore” (“La mia città”), tra “capi della mafia” che non si pentono e “potenti” che non si convertono (“Alzando gli occhi al cielo”). 

A tratti l’album buca il cuore con uno spillo, seguendo l’onda emozionale di “Vieni a vivere con me”, presente in “Luca Carboni”, qui portata a maturazione nei debordanti desideri tattili e caduchi de “L’amore che cos’è”, tradotti musicalmente in morbidi groove funk sincopati (“Ma l’amore cosa fa? Può farci tutto ma non del male”).

Nel finale la prospettiva si ribalta quando il cantautore, in una ninna nanna contrappuntata da tastiere e cori gospel, dà voce alle stelle, trasformando gli uomini in piccole formiche che interrogano gli astri con “i sogni chiusi dentro al cuore, stretti nelle mani”, da lasciare andare (“Siamo le stelle del cielo”).

“Carboni” definisce la stagione di un paese che cerca di trattenere per sempre il mito dell’“estate italiana” del boom economico negli anni '50-'60 e del risveglio edonistico degli anni '80, con l’esplosione del fenomeno delle discoteche che seguì la stagione del terrorismo. Anche stavolta sarebbe arrivata la scure, quella di Mani Pulite e dei maxiprocessi per mafia, con gli scenari di guerra degli assassinii dei giudici Falcone e Borsellino. Il paese sarebbe andato incontro a una stagnazione della crescita economica e a una crisi tutt’oggi irrisolta. Ancora una volta l’Italia non sarebbe stata più la stessa, e il cantautorato italiano, anche dai toni più spensierati, se ne sta rendendo conto. Alle prime due posizioni della classifica di Sanremo 1992 arrivano due brani delicatissimi, la nostalgia di “Portami a ballare” di Luca Barbarossa e l’amarezza de “Gli uomini non cambiano” di Mia Martini. Mentre esplode il successo dall’esordiente duo 883 con “Hanno ucciso l’uomo ragno” (Fri, 1992) prodotto dal Re Mida della discografia milanese Claudio Cecchetto, Francesco Baccini, dopo il successo stellare di “Sotto questo sole” nel 1990 con i Ladri di Biciclette, scrive “Nomi e cognomi” (Cgd, 1992), un album cupo dove racconta personaggi della storia italiana come Giulio Andreotti e Renato Curcio.

Intanto, Jovanotti definisce la sua prima svolta cantautorale, dal puro divertimento di “La mia moto” (Fri, 1989) e “Una tribù che balla” (Fri, 1991) fino a un lavoro autoriale come “Lorenzo 1992” (Fri, 1992) – contenente un’altra hit dell’estate, “Ragazzo fortunato” – in cui affronta temi di impegno politico e sociale. Proprio Jovanotti e Carboni, dopo i rispettivi successi dell’anno, condivideranno un tour autunnale, documentato nell’antologia “Diario Carboni” (Bmg-Rca, 1993), una data del quale verrà trasmessa in diretta dalla storica emittente televisiva italiana Videomusic.

Ma la forza di “Carboni” non è solo nelle hit trascinanti e nella poesia melanconica degli oggetti di natura crepuscolare. In nove canzoni pressoché impeccabili, il cantautore bolognese comprende di aver raggiunto l’apice di tutto – della vita e dell’opera – percependo l’irreversibilità di un tempo privato e comune, che i Perturbazione alcuni anni dopo definiranno “un cerchio su una discesa”, fatto di “un’attesa dopo un’altra attesa”. “Carboni” ci permetterà per sempre di lasciarci la città alle spalle, con gli occhiali da sole e il vento tra i capelli, e andare verso il mare, con la testa piena di parole dense che scorrono lievi, al modo speciale che in tanti oggi, in primis Tommaso Paradiso, provano a imitare. Evitando però di raccontarsi frottole.

Ma il tempo se ne frega e va
Lui pensa solo a cambiarci l'età
Tempo che non hai pietà
Per le nostre indecisioni
E per tutti i nostri errori
Passi e quel che piaceva non piace più
Quel che contava, ah... non conta più
Ma all'uomo dai appena il tempo di
Confondersi un po' di più
Tempo che non hai pietà
Forse in fondo chi lo sa
Lasci tutto come sta

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