Nel pieno degli anni Ottanta, quando l’Italia guardava verso il Regno Unito nel tentativo di inseguire le mode della new wave, Piero Pelù, Ghigo Renzulli, Gianni Maroccolo, Antonio Aiazzi e Ringo De Palma, costruiscono invece un mondo tutto loro. Oscuro, mediterraneo e mistico. “17 Re” è il culmine di questa visione: un doppio album ambizioso in cui convivono mitologia, politica, esoterismo e poesia urbana. Un’opera che rese i Litfiba un rito collettivo, innalzandoli a simbolo generazionale.
A quasi quarant’anni di distanza, la band tornerà insieme nel 2026 per celebrare questo disco con un tour dedicato, un ritorno che suona come rievocazione rituale più che semplice reunion.
Genesi di un cult
Per capire questo album bisogna tornare alla Firenze di quegli anni, capitale febbrile e magnetica della controcultura, nella quale fermentavano artisti, poeti e ribelli. I Litfiba venivano dal successo underground del formidabile esordio “Desaparecido”, ma decisero di spingersi più in profondità: non più la denuncia diretta al potere esterno dei regimi, ma quello invisibile che si annida nell’animo umano.
Le registrazioni avvennero tra Firenze e Milano in un clima di trance collettiva, tra i muri della sala di incisione si cercavano suoni mai uditi prima. “Volevamo un disco che non avesse tempo – raccontò anni dopo Ghigo Renzulli – qualcosa che suonasse come antico e futuro insieme’.’ E in effetti, “17 Re” rappresenta proprio questo: un disco sospeso, dove l’elettronica primitiva e il rock si fondono con l’eco del Mare Nostrum e le pulsazioni tribali.
Partendo dal titolo, “17” come numero tradizionalmente legato alla sfortuna e alla morte, e “Re” come simbolo di potere e dominio, i Liftiba vollero rappresentare la contraddizione del potere: la sua grandezza e la sua inevitabile decadenza.
Capolavoro in 16 capitoli
L’apertura con “Resta” è già un biglietto da visita sonoro: pochi accordi di chitarra, una linea ipnotica di basso e la voce di Pelù capace di invocare e supplicare. La batteria avvolgente costruisce una tensione costante che non esplode mai del tutto, mentre i suoni di Aiazzi aggiungono sfumature essenziali e ricercate. Una canzone che non chiede soltanto a un amante di non andarsene, ma all’ascoltatore stesso di restare immerso in quel viaggio.
Subito dopo, “Re del Silenzio” scava nel cuore oscuro del disco, assumendo le sembianze di un brano magnetico dominato dai suoni di Maroccolo, che trasforma il silenzio in regno e il vuoto in materia. Nasce così il simbolismo della band: potere e introspezione si confondono in un’unica preghiera laica.
In “Cafè Mexcal e Rosita” i toni si colorano improvvisamente, tra ironia e surrealismo, come una visione ubriaca in un deserto caldo. “Vendette” invece, riporta tutto nel buio, con il suo ritmo rituale che esprime il sapore della rivalsa.
Con “Pierrot e la Luna”, i Litfiba cominciano ad aprire le finestre sull’emotività: dolente e poetica, è quasi una carezza notturna, sospesa su un arpeggio di chitarra e un basso profondo che accompagna la voce teatrale di Pelù. Il testo, visionario e crepuscolare, colpisce perché dialoga perfettamente con la malinconia della melodia, in una delle scritture più delicate della band toscana.
“Tango” è decisamente più viscerale, danza continuamente sul filo dell’eros e della morte, con un ritmo sincopato e le chitarre di Renzulli che alternano fendenti secchi a passaggi più dolci, mentre le tastiere amplificano il senso di teatralità sensuale.
Poi arriva “Come un Dio” e il disco tocca il suo vertice più alto, un crescendo solenne che parla di tentazione e perdita. Il brano si costruisce su una progressione lenta e ascendente, con tastiere in grado di creare spazi quasi liturgici e la voce che cresce fino a diventare climax emotivo. È il momento in cui i Litfiba assurgo a fenomeno unico nel rock italiano, sposando l’oscurità del tipico sound new wave alla ritualità occulta del Sud del mondo.
La seconda metà del doppio album scorre come una visione febbrile che pulsa di energia animale, “Febbre” per l’appunto. Poi arriva “Apapaia” che con la sua frase leggendaria – “E si può estrarre il cuore anche al più nero assassino/ Ma è più difficile cambiare un'idea” – diventa il manifesto morale della band. Il basso circolare e le percussioni calde richiamano sonorità lontane, i sintetizzatori viaggiano sulla stessa direzione aggiungendo al suono una dimensione quasi afro-mediterranea che anticipa di anni le contaminazioni future del gruppo. La voce diventa sciamanica, come un canto che pare giungere da una processione pagana: è la perfetta sintesi del flusso ipnotico tipicamente marchiato Litfiba.
“Univers” apre allo spazio cosmico del viaggio all’infinito, con chitarre riverberate e suoni creati apposta per disegnare un paesaggio musicale sospeso, quasi ambient. La voce di Piero Pelù emerge cantando in spazi immensi, portando questa parte del disco in una dimensione mistica e visionaria. È il brano che guarda oltre l’orizzonte, anticipando atmosfere che torneranno solo molti anni dopo nel panorama rock italiano. La successiva “Sulla terra” richiama repentinamente alla realtà concreta e umana, pur mantenendo un tocco quasi spirituale.
Il finale è un turbine. Dopo la tregua malinconica e sospesa di “Ballata”, ci pensa il brano “Gira nel mio cerchio” a rompere il silenzio con la furia di un attacco al conformismo e all’eterno ritorno dell’abitudine. “Cane” ringhia e morde in due minuti e pochi secondi di istinto puro, “Oro nero” affonda nella simbologia maledetta della ricchezza e del potere, mentre “Ferito” chiude questo viaggio come un rito vero e proprio di purificazione musicale ed esperienziale: tutto è stato bruciato, solo la ferita resta come segno di vita.
Il tempo dei Re
All’epoca “17 Re” spiazzò quasi tutti. Era troppo lungo, troppo oscuro e troppo colto per il mercato di allora. Ma fu proprio quell’eccesso a celare la sua grandezza, perché i Litfiba avevano reinventato il linguaggio del rock italiano creando un suono esoterico profondamente teatrale, che sarebbe diventato la loro inconfondibile impronta musicale.
Col tempo “17 Re” è diventato un classico assoluto, pietra miliare in grado di insegnare a una generazione intera che si poteva cantare d’anima e di politica senza rinunciare al corpo. Ma ciò che ancora colpisce, riascoltandolo oggi, è la visione sonora: un disco che anticipava le contaminazioni musicali prima che diventassero di moda. I suoni elettronici di Aiazzi si mescolavano alle percussioni tribali e alle chitarre liquide, costruendo un ponte di geografia emotiva in grado di collegare Firenze con Marrakech, Atene e Gerusalemme.
E poi c’è la dimensione simbolica, la forza del linguaggio di Pelù sempre a metà tra predicazione e ipnosi. I suoi testi, infatti, oscillano tra apocalisse e rinascita, mettono insieme la carne e la luce, dando vita a un circo di personaggi mitici. Santi, regine, serpenti, dei, uomini, in grado di raccontare il potere in tutte le sue maschere. È proprio qui che “17 Re” tocca il sacro, non nella religione ma nella cerimonia condivisa.
Forse per tutto questo, quando la band tornerà sul palco nel 2026, non sarà un semplice concerto ma piuttosto una resurrezione. Il ritorno dal vivo di questo album sarà nostalgia, ma soprattutto un richiamo alle origini del nostro rock, orgogliosamente italiano, e alla sua capacità di parlare oggi più di ieri, a questo presente.
“17 Re” è come un portale che si riapre, perché in fondo lo sapevamo già: i Re sono quelli che non muoiono mai. Scompaiono, aspettano e poi ritornano. Un po' come i Litfiba.

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