di Michelangelo Cocco
Shanghai non può più essere colpita con missili Tomahawk dalla base dei marine di Iwakuni. I lanciatori Usa Typhon – rimasti nella prefettura giapponese di Yamaguchi ben oltre la durata del war game Usa-Giappone “Resolute Dragon 2025”, per il quale vi erano stati installati a settembre – sono stati infine rimossi, ha annunciato l’altro ieri il ministero della difesa di Tokyo nel bel mezzo della crisi diplomatica scoppiata tra Cina e Giappone.
I missili Usa di medio raggio, testati per la prima volta in Giappone (e già provati nelle Filippine), così come la risposta di Pechino all’esternazione su Taiwan della neopremier nipponica Sanae Takaichi, sono un sintomo delle cause profonde di questa crisi: nel Pacifico occidentale l’egemonia Usa sta subendo forti scossoni, sia per l’ascesa economico-militare della Cina, sia per la scelta di Washington di delegare in parte agli alleati la difesa dei suoi interessi e i relativi oneri.
La dichiarazione che ha dato il via alla controversia, pronunciata dall’ultra-nazionalista Takaichi il 7 novembre scorso in parlamento, secondo cui, nell’eventualità di uno scontro tra la Repubblica popolare cinese e Taiwan, «se ciò comporta l’impiego di navi da guerra e azioni militari, potrebbe a tutti gli effetti trasformarsi in una situazione minacciosa per la sua sopravvivenza, in cui il Giappone potrebbe ricorrere all’uso della forza per difendersi», non è che l’epifenomeno di un malessere più diffuso, da Pechino a Tokyo, Manila, Taipei e Seul: quello della diffidenza reciproca e il conseguente riarmo a tappe forzate, che evidenziano quanto sia concretamente percepito il rischio di una prossima guerra nel Pacifico.
Mentre l’Europa è concentrata sulla guerra di logoramento della Russia all’Ucraina e (decisamente molto meno) sull’annosa questione palestinese, è nell’Asia-Pacifico, l’area economicamente più dinamica del Pianeta, nella quale sta crescendo l’influenza cinese, che si registrano i cambiamenti in grado di produrre una drammatica rottura tra la potenza in ascesa e quella egemone.
Queste trasformazioni sono innanzitutto economiche, con le compagnie cinesi che, per la prima volta nella storia, rosicchiano alle concorrenti delle economie avanzate fette di mercati di beni di consumo ad alto valore aggiunto, contribuendo così a un ulteriore avanzamento della Cina.
Alla diffusione della narrazione sulla Cina che vuole “conquistare il mondo” si accompagna un riarmo a tappe forzate. Da anni il tasso d’incremento delle spese militari di Pechino supera quello del prodotto interno lordo, e con la gigantesca parata del 3 settembre in piazza Tiananmen, nonché la più recente entrata in servizio della terza portaerei made in China, sono apparse chiare la qualità e la rapidità dell’ammodernamento dell’Esercito popolare di liberazione.
E gli alleati Usa nella regione non stanno a guardare. Le Filippine hanno dato maggiore accesso all’arcipelago ai militari Usa, provato il sistema Typhon, e stretto una cooperazione militare con il Giappone; quest’ultimo ha portato le spese militari al 2 per cento del Pil con un paio d’anni d’anticipo sulle previsioni, rafforzato l’alleanza con gli Usa e avviato lo smantellamento della Costituzione pacifista; la Corea del Sud ha ottenuto l’ok da Washington per dotarsi di sommergibili a propulsione nucleare.
Di questioni irrisolte ed esplosive, potenziali casus belli, nella regione ce ne sono almeno tre. Taiwan, con la Cina di Xi che insiste sulla necessità della “riunificazione”, senza escludere l’uso della forza per portarla a compimento; il Mar cinese meridionale, nel quale Pechino ha contenziosi territoriali con diversi vicini, a cominciare dalle Filippine; il Mar cinese orientale, con l’arcipelago delle Diaoyu-Senkaku conteso tra Cina e Giappone.
Ovviamente non c’è alcun automatismo tra queste dispute e lo scoppio di una guerra. Pechino, ad esempio, sostiene di voler risolvere le controversie nel Mar cinese meridionale col dialogo bilaterale o attraverso l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), mentre ritiene quella di Taiwan una questione “interna”, rispetto alla quale respinge ogni ingerenza.
Tuttavia a spingere nella direzione dello scontro è il cambiamento del quadro regionale. Con il riarmo della Cina, soprattutto navale, a sostegno delle rivendicazioni di Pechino su Taiwan e nei “suoi” mari. E, in egual misura, con il nuovo containment Usa, una riedizione di quello della Guerra fredda che, come contro l’URSS, vede ogni iniziativa cinese – politica, economica, militare – come una minaccia, alla quale opporre contromisure per frenarne l’espansione.
E poi c’è il vento del nazionalismo, che soffia forte a Pechino come a Tokyo. In Cina il 90 per cento della popolazione non si fida dei giapponesi e viceversa, secondo un recente sondaggio incrociato, mentre negli ultimi mesi ci sono stati attacchi a cittadini giapponesi in Cina e cinesi in Giappone.
Ipotizzando un intervento militare del Giappone a difesa di quella che Pechino considera una sua provincia (occupata dal Giappone dal 1895 al 1945), la leader del partito liberaldemocratico ha scavalcato il principio al quale si attengono ufficialmente sia il suo paese sia gli Usa, la cosiddetta “ambiguità strategica”.
Takaichi ha fatto un clamoroso pasticcio all’esordio del suo governo? No, la sessantaquattrenne erede di Shinzo Abe ha sostenuto da premier ciò che il suo mentore aveva detto mentre non ricopriva l’incarico: il Giappone si riarma anche per fronteggiare la Cina. È un cambiamento strategico, non una gaffe, per questo Takaichi si rifiuta di ritrattare la sua dichiarazione, come chiede Pechino.
L’altro elemento che riflette la magnitudo dei cambiamenti in corso è l’ampiezza e la fermezza della reazione che Pechino ha scatenato dopo l’uscita di Takaichi, che lascia immaginare due cose, dalle conseguenze molto profonde: che la Cina percepisca le politiche degli Usa e dei loro alleati regionali proprio come un containment da spezzare; che la Cina si senta ormai una grande potenza, pronta a tutelare i suoi interessi con ogni mezzo.
La prima risposta alle dichiarazioni di Takaichi è stata quella classica, la convocazione dell’ambasciatore giapponese a Pechino, per porgergli proteste presentate come provenienti direttamente dalla leadership, come ad accrescerne la solennità. Immediatamente è stata attivata l’oliata e sempre più pervasiva macchina della propaganda, soprattutto attraverso i social, che ha presentato Takaichi come un mostro che vuole far rivivere gli orrori del militarismo imperiale nipponico.
Per inciso, la storia dell’occupazione e dei massacri giapponesi in Cina in questa vicenda conta. Dal massacro di Nanchino alle nefandezze dell’Unità 731 comandata da Shiro Ishii, quella memoria viene tramandata da decenni sia a tutela della legittimità del partito che (assieme al Kuomintang) ha liberato il paese dagli occupanti, sia per contrastare ogni nuova tentazione militarista di Tokyo.
Poi è arrivato l’invito del governo a studenti e tour operator a non andare in Giappone (a poco più di un mese dal Capodanno cinese, per l’economia nipponica si profilano perdite pesanti), perché il paese sarebbe “pericoloso”. Su questo fronte – quello economico-commerciale – nei prossimi giorni la Cina potrebbe esercitare ulteriori pressioni sul Giappone, per ottenere il dietrofront di Takaichi. Navi della guardia costiera di Pechino si sono dirette verso le isole contese Diaoyu-Senkaku.
Infine, il Quotidiano del popolo, ha esortato le nazioni asiatiche a restare “in massima allerta” di fronte al potenziale “pericoloso” orientamento strategico del Giappone, tracciando un paragone tra Takaichi e il militarismo imperiale nipponico.
Insomma una risposta molto dura, mentre il ministero degli esteri ha fatto sapere che il premier, Li Qiang, non ha intenzione di incontrare Takaichi al summit del G20 in Sudafrica del 22-23 novembre.
In Occidente la reazione di Pechino può apparire esagerata. In fondo la premier nipponica ha “semplicemente” ipotizzato un intervento militare del Giappone nel caso che un’azione di Pechino nei confronti di Taiwan rappresentasse una minaccia esistenziale.
Per chi governa la Cina ininterrottamente dal 1949 invece si è trattato di una risposta necessaria, in linea con la costante, quotidiana riaffermazione della sovranità di Pechino su Taiwan. Che piaccia o no, siamo di fronte a una grande potenza che rivendica sovranità sull’isola, che giudica storicamente sua e geopoliticamente strategica, che ha come obiettivo la “riunificazione” di quel territorio, e che non può tollerare che la premier di un paese vicino, membro del G7 e alleato degli Stati Uniti, metta in dubbio tale sovranità.
Dal ritorno alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2025, di Donald Trump, i diplomatici e funzionari cinesi hanno letteralmente martellato l’amministrazione repubblicana, avvertendola di non superare le cosiddette “linee rosse” su Taiwan (sostegno all’indipendentista Partito progressista democratico e massicci armamenti a Taipei), confidando, con Trump, in un relativo “disinteresse” di Washington per quella che resta comunque una postazione strategica da difendere, ma che Trump è meno propenso ad armare e alla quale ha tolto il cosiddetto “scudo di silicio” ottenendo massicce localizzazioni negli Stati Uniti di TSMC, la compagnia taiwanese leader globale nella produzione di microchip.
Se Pechino da decenni condiziona le relazioni diplomatiche al riconoscimento (e alla continua riaffermazione) da parte dei propri partner del principio “una sola Cina” e dedica un’attenzione ossessiva alle mosse di Washington su Taiwan, per scrutarne ogni possibile, minimo mutamento che potrebbe esser letto come a favore di Taiwan, nei confronti di un paese del G7, alleato e satellite degli Usa, non ci si poteva aspettare che una simile reazione.
E Pechino non si fermerà fin quando non avrà ottenuto la retromarcia ufficiale di Takaichi, o qualcosa che le somigli molto.
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