Il 19 novembre, attraverso un comunicato stampa, la Commissione Europea ha reso noto un nuovo pacchetto di misure per procedere verso la costruzione di una “Schengen militare”, collegata alla trasformazione dell’industria europea della difesa. Quello della mobilità militare è stato un tema molto frequentato da Bruxelles, ma nasconde anche particolari complessità che è bene far emergere.
Innanzitutto, le novità. Il Commissario UE alla Difesa, Andrius Kubilius, ha riassunto le nuove misure così, usando le parole del generale statunitense John Pershing: “la fanteria vince le battaglie, la logistica vince le guerre”. E la logistica, a suo avviso, è messa in difficoltà dai limiti imposti da una UE che si vuole armata, ma che deve fare i conti con i confini di 27 paesi.
Questo è il primo obiettivo: ridurre i tempi dei permessi e semplificare le procedure per l’attraversamento dei confini da parte di soldati comunitari. L’Alto rappresentante per gli Affari Esteri della UE, Kaja Kallas, ha fatto notare che alcuni membri dell’area “richiedono ancora un preavviso di 45 giorni prima che le truppe di altri paesi possano attraversare il loro territorio per svolgere esercitazioni”, e “undici anni dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia, semplicemente non va bene”.
Già qui comincia a emergere la realtà che si cela dietro questo nuovo allarmismo bellicista, ma le fila le tireremo alla fine. Qui, riportiamo che l’idea della Commissione è quella di ridurre tali tempi a soli tre giorni. Ciò significherebbe introdurre le prime norme armonizzate a livello comunitario per i movimenti militari transfrontalieri. Significherebbe, dunque, anche fare un salto ulteriore, in un ambito sensibile come quello della difesa, alla costruzione della UE come un soggetto politico unitario.
Il Commissario di Bruxelles ai Trasporti, Apostolos Tzitzikostas, ha poi fatto alcuni concreti esempi, e tra di essi va di certo sottolineato quello della semplificazione delle “norme sul trasporto di merci pericolose”. Elemento assai critico, se si considera non solo il pericolo che deriverà da ciò per i lavoratori, ma anche che alcune delle lotte più radicali e di successo a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi sono partite proprio dal blocco dei traffici bellici lungo i principali snodi di trasporto.
Le forze armate avrebbero poi un accesso prioritario alle infrastrutture, in particolari condizioni. La Commissione, con l’approvazione degli stati membri interessati, avrà il potere di formalizzare situazioni di emergenza del genere. Un ulteriore accentramento di prerogative nell’esecutivo europeo attraverso una verticalizzazione delle decisioni.
Ovviamente, accanto alla semplificazione e alla “prioritarizzazione” delle attività militari, ci sarà anche un importante investimento infrastrutturale. “Se un ponte non è in grado di sostenere un carro armato da 60 tonnellate, se una pista è troppo corta per un aereo cargo, abbiamo un problema”, ha detto Kallas. Il problema è semmai che la politica estone si riferisce a ponti e piste civili.
Tzitzikostas ha infatti confermato che “nella maggior parte dei casi si tratterà di potenziare le infrastrutture esistenti”, perché “nel 99,9% dei casi” la rete servirà per cittadini e merci. Ma in una profonda trasformazione dual use della vita civile, sempre più militarizzata, quello 0,01% determinerà gli indirizzi strategici – e dunque anche infrastrutturali – dei prossimi anni.
La traccia da seguire già esiste. È quella della rete TEN-T, nella quale sono stati individuati quattro corridoi militari fondamentali e ben 500 nodi nevralgici da rinforzare. Questa rete è stata indicata da tempo come elemento di interesse per la NATO, e tra i cantieri che la riguardano ci sono anche la TAV Torino-Lione e il Ponte sullo Stretto di Messina.
Tzitzikostas ha chiarito che, per svolgere i lavori preventivati, serviranno circa 100 miliardi di euro. Nel quadro finanziario pluriennale 2028-2034 ne sono stati stanziati solo 17: gli altri dovranno essere reperiti attraverso altri strumenti, che sia riorientando altri fondi o per mezzo del SAFE.
Il dibattito sul piano per la mobilità militare è previsto già in settimana col Parlamento Europeo, ed entro dicembre con gli stati membri. Una fretta che risponde certo ai tempi del Readiness 2030, ma è anche espressione di una nuovo “modo” di far politica. È il modo del pericolo – inventato – di invasione russa per forzare dei passaggi altrimenti difficili da far digerire alle 27 opinioni pubbliche dei paesi UE.
L’accenno al mese e mezzo di preavviso necessario per il passaggio di truppe tra un paese e un altro è illuminante in questo senso: è ovvio che si tratta di una misura da tempo di pace, e che se ci fosse davvero un conflitto gli spostamenti delle forze armate non avverrebbero di certo secondo le norme attuali.
Questo progetto spiega anche l’accanimento in Italia contro il movimento No Tav che da anni si oppone a questa grande opera devastante ma che a questo punto è leggibile come parte di una logistica funzionale a logiche militari e della Nato.
Da una parte, perciò, lo spauracchio di Mosca viene usato per semplificare le procedure, rendere meno visibili i traffici di armi, e dunque meno “attaccabili” da chi vuole protestare contro la deriva bellicista di Bruxelles. Dall’altra, sempre con lo stesso spauracchio si opera una chiara verticalizzazione delle scelte, accompagnata da un’ulteriore spinta alla conversione verso un’economia di guerra, pensata come unica alternativa al deserto industriale creato in decenni di politiche industriali inesistenti o fallimentari.
Il tutto, mettendo in campo anche risorse che possono essere conteggiate per i target NATO, mentre la UE cerca ancora di costruirsi come attore unitario e dirimente della competizione globale attraverso il riarmo. Un crinale che non può che portare al disastro.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento