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27/06/2025

Aumentano le offerte di lavoro nel settore militare: così si costruisce il consenso alla guerra

“Abbiamo gettato le basi per una NATO più forte, più equa e più letale. Un piano che rafforzerà la nostra difesa e creerà nuovi posti di lavoro”. Queste sono solo alcune delle parole pronunciate da Mark Rutte, segretario generale dell’alleanza atlantica, a margine del vertice dell’Aja in cui è stato deciso l’aumento delle spese militari fino al 5% (3,5% in difesa propriamente detta, 1,5% in cybersicurezza, infrastrutture critiche, mobilità militare, tecnologie dual use).

Lasciamo da parte quel “più letale”, che a quanto pare è un altro dei ‘valori occidentali’ tanto sbandierati… apriti cielo se una cosa simile l’avesse detta Putin o Khamenei. È interessante che il politico olandese ci abbia tenuto a sottolineare che questa corsa agli armamenti creerà tanti posti di lavoro. Qualcosa che fa molto gola in un’Europa in profonda crisi industriale.

Proprio il 25 giugno è uscito un articolo su Il Sole 24 Ore che analizzava la netta crescita di offerte di lavoro nel settore della difesa. Stando ai dati forniti da Indeed, una piattaforma online per la ricerca di un impiego, gli annunci nei comparti collegati crescono più della media in Europa.

L’analisi è stata effettuata sulle offerte di 25 grandi aziende della difesa europea, tra cui vanno sicuramente ricordate Airbus, BAE Systems, Dassault Aviation, KNDS, Kongsberg, MBDA, Qinetiq, Rheinmetall, Rolls-Royce, Saab, Thales, ThyssenKrupp, e infine le italiane Leonardo e Fincantieri.

Ebbene, nell’aprile 2025, seppur in rallentamento, l’aumento degli annunci per la ricerca di personale sono aumentati del 45% rispetto al 2021. Dopo la pandemia, se in generale il mercato dell’offerta di lavoro ha raggiunto il proprio culmine nel luglio 2022, per poi tornare a calare (è recentemente sceso del 2% al di sotto del valore di riferimento), non è stato così per l’industria della difesa.

La quota maggiore di annunci di lavoro proviene dalla Francia, circa il 46% e comunque in diminuzione rispetto al 57% di inizio 2020. Seguono poi Germania e Regno Unito, entrambe intorno al 17%. Togliendo momentaneamente l’Italia dal calcolo, le offerte di altri paesi UE o europei della NATO è aumentata dal 6% al 21%, con particolare attenzione ai profili informatici e ingegneristici.

Ad aprile 2025, il 9% del totale degli annunci proveniva da società italiane. Può non sembrare tanto, ma la ricerca di posizioni nel settore della difesa, tra gennaio 2022 e maggio 2025, si sono moltiplicate di 3,6 volte. I più richiesti, di nuovo, sono professionisti informatici e ingegneri, in particolare sviluppatori di software (16,5%) ed esperti di ingegneria industriale (14,1%).

Alla fine dell’articolo da cui sono stati tratti questi dati viene ribadito, come più volte nelle righe precedenti, che tuttavia la difesa esprime un’area di nicchia del mercato del lavoro. Al 2023, i dati dell’organizzazione Aerospace, Security and Defence (ASD), che rappresenta più di 4 mila compagnie in 21 paesi europei, segnalavano un netto aumento degli impieghi rispetto al 2022 (+8,9%) nell’industria della difesa, che tuttavia contava ancora 581 mila lavoratori.

Se volessimo fare un paragone con quella che è stata la spina dorsale dell’industria dei paesi avanzati negli ultimi decenni, ovvero l’automotive, si tratta all’incirca di un decimo di quanti sono occupati nella sola produzione diretta di auto, senza considerare l’intera filiera. È evidente perciò che la propaganda sul lavoro creato dal riarmo evita di citare delle evidenze facili a trarsi.

La prima, e probabilmente la più preoccupante, è che anche con un maggiore investimento nel settore, l’unico modo in cui l’industria bellica potrebbe in qualche modo coprire la desertificazione industriale che sperimentiamo da anni è, di fatto, con una guerra mondiale, cioè con la totale conversione – e militarizzazione – delle attività civili per uno sforzo bellico totale e totalizzante, tipico di un impegno ben al di sopra di quello sperimentato nelle invasioni militari di Afghanistan o Iraq, per citare alcuni ultimi esempi.

La seconda cosa è che comunque esiste una filiera legata alle produzioni militari piuttosto ampia, e che può sorprendere per la varietà di attività che comprende. In un’intervista fatta nel marzo di quest’anno a Carlo Tombola di The Weapon Watch, centro di ricerca sul traffico di armi in Europa e nel Mediterraneo, viene riportato che ci sono 150 aziende con contratti da oltre 25 mila euro col Dipartimento della Difesa USA.

L’ammodernamento delle basi fatto da aziende di costruzioni, ma anche le attività legate alla mobilità militare, non a caso inserita in quell’1,5% del nuovo target NATO e argomento molto attenzionato dalle politiche europee, allargano l’alveo dell’indotto prodotto dal riarmo. Anche se, pure in questo caso, viene ricordato che è pur sempre molto più ristretto che in altri settori.

Infine, bisogna sottolineare che una parte importante della guerra del futuro sarà fatta per mezzo di sofisticati strumenti ingegneristici e programmi informatici. Come già osservato, sono queste alcune delle figure più richieste nelle offerte di lavoro analizzate. Allora qui sorge un altro problema: l’evidente collegamento tra gli armamenti e un universo dual use che espande nettamente la platea delle persone da cui richiedere consenso alla deriva bellicista.

Migliaia di giovani laureati in discipline STEM – Science, Technology, Engineering e Mathematics – e dunque anche i loro dipartimenti di provenienza, affamati di fondi in seguito ai continui tagli alla spesa pubblica, e tutta una serie di imprese fino a oggi toccate marginalmente dal giro d’affari dell’industria bellica potrebbero essere coinvolte nella creazione di un blocco sociale, diciamo così, ‘guerrafondaio per necessità materiale’.

Tante persone, se vorrano lavorare, potrebbero ritrovarsi a essere impiegate, in maniera più o meno diretta, per i settori militari, magari anche protette, sotto il punto di vista etico, dalla distanza che un’interfaccia digitale crea rispetto al campo di battaglia. Forse non si tratta di un alveo sociale largo come quello dell’automotive, ad esempio, ma è sicuramente abbastanza sostanzioso da poter sviluppare su di esso una politica salariale alla ‘divide et impera’.

Ovvero, creare attraverso il riarmo un’aristocrazia di lavoratori con ampie garanzie di retribuzione e di diritti, abbastanza forte da sostenere nel campo delle classi subalterne le ragioni dell’imperialismo che si arma per la terza guerra mondiale. Questa dimensione non va dimenticata da parte di chi vuole continuare a costruire un’alternativa.

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15/06/2025

Repubblica Ceca - Comunisti quasi messi al bando, grazie alla UE

Lo scorso 30 maggio, durante la votazione della riforma della legislazione penale promossa in Repubblica Ceca, la Camera dei Deputati ha dato via libera a un emendamento che rende illegali qualsiasi sostegno e promozione del movimento comunista. Una stretta autoritaria e repressiva che mostra la farsa della democrazia e dei valori propagandati dalla UE.

La riforma prevede fino a 10 anni di carcere, una pena gravissima che è resa ancora più grave dal fatto che il suo dettato rimane piuttosto vago, permettendo di usarla come una clava contro qualsiasi espressione di dissenso caratterizzata dal rimando ai riferimenti comunisti e indirizzata anche verso l’emancipazione delle fasce popolari. Ora dovrà passare al Senato ed essere firmata dal presidente ceco, prima di entrare in vigore.

Sembra però un’ipotesi abbastanza plausibile, considerato che il governo mantiene la maggioranza anche nell’altra camera del Parlamento, e che il presidente è Petr Pavel, un ex militare di tendenze conservatrici. L’obiettivo non dichiarato, ma molto evidente, della riforma penale ceca è il Partito Comunista di Boemia e Moravia (KSCM).

Si tratta di una formazione politica che ha vissuto alti e bassi, ma che sul finire del 2023 è riuscita a raccogliere intorno a sé altri partiti e personalità indipendenti nella coalizione “Stačilo!”, che significa “Basta!”. La coalizione si è poi presentata alle europee, ottenendo quasi il 10% dei voti, seppur su un’affluenza di appena il 35%. Ciò ha comunque portato all’elezione di due parlamentari, uno direttamente del KSCM.

“Basta!” si è ripresentata anche alle successive elezioni regionali, totalizzando oltre il 6% e raccogliendo una quarantina di seggi sui quasi 700 disponibili. Non un risultato straordinario, ma di certo una tenuta che sarebbe stata usata per rilanciare la coalizione verso le elezioni parlamentari del 3-4 ottobre prossimi. I vertici politici hanno preferito dunque risolvere la questione in punta di diritto.

Durante la formazione della coalizione, la leader del KSCM aveva affermato che l’obiettivo era quello di “unire partiti e movimenti di sinistra e patriottici che non sono indifferenti alla posizione della Repubblica Ceca nell’Unione Europea, alla pratica della censura, allo spreco di denaro in armi o alle politiche sociali inefficaci che portano a differenze spaventose nel salario minimo all’interno dell’UE”.

La particolarità degli interessi che si sono incontrati in questa alleanza l’hanno portata a prendere posizione contro il divieto di vendita di auto a combustione in UE. Ma sul lato dei temi sociali si è mostrata molto avanzata, e su quello della politica estera si è impegnata a bloccare qualsiasi aiuto militare all’Ucraina, nonché la revoca di tutte le sanzioni alla Russia e alla Bielorussia, e la riapertura dei rubinetti al gas russo.

Indirizzi che l’establishment unioneuropeista non può accettare, soprattutto se si pensa anche alla denuncia dello spreco di risorse nel riarmo, al posto dell’impegno in maggiori e più efficienti spese sociali. Per questo chi governa a Praga ha deciso di estirpare alla radice il problema, relegandolo l’opposizione alla guerra e allo sfruttamento in un atto criminale.

Una scelta del genere arriva nel pieno di una crisi di sistema che sta venendo dirottata dall’Occidente sempre più verso la spirale bellica. Con miliardi e miliardi investiti dalla UE per diventare una potenza geostrategica armata, e per far transitare il proprio sistema industriale verso un’economia di guerra, la stretta contro ogni fronte interno non farà che intensificarsi, insieme alla battaglia ideologica di un modello la cui egemonia è ormai scaduta.

Un tale provvedimento si pone sulla scia delle risoluzioni che il Parlamento Europeo ha approvato nel 2019 e nel 2025, con le quali ha deciso di equiparare nazismo e comunismo, e ha usato la guerra che muove alla Russia per interposta Ucraina e l’accusa di iniziative di disonformazione da parte di Mosca, per riscrivere la storia e affibbiare all’Unione Sovietica la corresponsabilità della carneficina della Seconda guerra mondiale.

Come allora francesi e soprattutto britannici guardavano di buon occhio al fascismo e al nazismo, come armi da dirigere verso est contro i bolscevichi, oggi la UE è erede di quel progetto e promuove una guerra ideologica contro il ruolo centrale svolto dai movimenti comunisti nell’emancipazione dei popoli e nella sconfitta dei regimi nazifascisti. Cosa ancora più inaccettabile dato che quest’anno ricorrono anche gli 80 anni da quella vittoria.

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18/05/2025

La UE manda in soffitta il green per aiutare l’industria delle armi

La UE da tempo nasconde dietro la narrazione della “conversione ecologica” una serie di misure che servono unicamente a rilanciare settori capitalistici in crisi e provare a farli entrare in una competizione in cui, ad ogni modo, la Cina è molto più avanti. Ma ora che con il piano Readiness 2030 l’economia di guerra si è sostituita al green, le preoccupazioni ambientali diventano addirittura un ostacolo.

Lunedì 12 maggio Thomas Regnier, portavoce della Commissione Europea, ha rilasciato una dichiarazione con la quale ha fatto presente che Bruxelles sta considerando la possibilità di allentare le norme ESG, ovvero i criteri ‘Environmental, Social, and Governance’, usati per valutare la sostenibilità verde degli investimenti. Una tendenza che era già stata sancita lo scorso febbraio.

A inizio anno, infatti, erano stati elaborati e poi varati due pacchetti Omnibus, finalizzati a semplificare le normative sulla reportistica di sostenibilità per aziende e istituti finanziari: il CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), il CSDDD (Corporate Sustainability Due Diligence Directive) e la Tassonomia UE. La proposta della Commissione aveva già smantellato qualsiasi loro utilità.

In pratica, il CSRD verrà applicato soltanto alle aziende con più di mille dipendenti e almeno 50 milioni di fatturato – vengono escluse così circa l’80% delle imprese europee, fino a ieri soggette a obblighi di rendicontazione. Inoltre, la due diligence, ovvero l’indagine preliminare sull’impatto ambientale, sarà limitata solo ai fornitori diretti, escludendo gli operatori a monte e a valle della catena del valore.

Insomma, una tale riforma significa la garanzia di grandi margini per promuovere facili operazioni di greenwashing, mentre davvero poco verrebbe fatto per muoversi verso un'“economia verde”. Eppure, pare che il complesso militare-industriale europeo abbia trovato lo stesso di che lamentarsi, e che dunque la Commissione sia disposta a proporre ulteriori alleggerimenti sulle misure Omnibus.

Sembra che siano state in particolare le aziende produttrici di munizioni a evidenziare come le norme europee abbiano disincentivato gli investimenti privati e abbiano limitato la concessione di prestiti da parte delle banche. Questo perché, per quanto di facciata, le armi sono davvero in tutti i modi incompatibili con i criteri di sostenibilità ambientale, oltre che quelli etici.

Proprio per questo Regnier ha fatto presente che la Commissione Europea sta valutando “se l’accesso ai finanziamenti possa essere ulteriormente rafforzato, anche attraverso un adeguamento del quadro finanziario sostenibile”. Che tradotto, significa proprio lasciare maggiore spazio per le imprese della difesa per “una rapida crescita industriale in tutta Europa”.

In sintesi, per favorire l’economia di guerra, è bastato qualche mese perché la propaganda di una UE tutta lanciata sul green crollasse di fronte alle esigenze della competizione globale. Anzi, ora anche le armi diventano ‘verdi’, come già lo sono diventati il gas naturale e il nucleare: un segnale che a Bruxelles le stanno provando tutte per facilitare la deriva bellicista.

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02/05/2025

La UE annuncia quasi un miliardo di investimenti per la difesa (e la ricerca) comune

La Commissione Europea ha diffuso una nota con la quale ha annunciato i risultati dei bandi 2024 dello Europea Defence Fund (EDF), creato nel 2017 e annoverato tra i vari strumenti pensati dalla UE per promuovere l’interoperabilità e la mobilità militare, nonché lo sviluppo di un complesso militare-industriale comunitario.

In funzione di esso, tra gli obiettivi del fondo c’è anche il sostegno all’innovazione e alle tecnologie critiche che rispondono alla formula del dual use, ovvero di usi civili e militari. Sul sito della Commissione Europea si legge che l’intelligenza artificiale e la computazione quantistica sono tra i settori interessati dai programmi EDF.

Difatti, tutti i progetti hanno ottenuto il marchio STEP (Strategic Technologies for Europe Platform), una piattaforma di recente creazione da parte delle istituzioni europee che serve proprio a convogliare gli investimenti – pubblici e privati – verso le tecnologie critiche per l’autonomia strategica UE. Pochi giorni fa Bruxelles aveva annunciato l’ampliamento della sua applicazione all’ambito militare.

Il fondo raccoglie 7,3 miliardi, spalmati tra il 2021 e il 2027. I progetti approvati per il 2024, si legge sempre sul sito, sono “allineati agli obiettivi strategici delineati nel Libro bianco sulla prontezza della difesa europea entro il 2030”, cioè il piano di riarmo, difesa comune ed economia di guerra delineato da Bruxelles.

Il bando dello scorso anno ha portato all’approvazione di circa 910 milioni di investimenti, divisi tra 62 progetti. 39 di questi riguardano la attività di ricerca, e riceveranno 369 milioni di euro, mentre altre 23 proposte vincenti del bando otterranno 539 milioni per lo sviluppo di capacità operative. Gli accordi di sovvenzione dovrebbero essere finalizzati entro fine anno.

I consorzi dei progetti selezionati raccolgono i colossi del Vecchio Continente (Leonardo, Airbus, Thales, e così via), ma la Commissione Europea ci ha tenuto a sottolineare come il 38% di tutte le entità partecipanti sono piccole e medie imprese, che riceveranno oltre il 27% dei finanziamenti. Un appunto che appare pensato proprio per legittimare in maniera più diffusa l’economia di guerra.

Il commissario europeo alla Difesa, Andrius Kubilius, ha evidenziato che “le proposte selezionate sostengono lo sviluppo di capacità critiche come i sistemi di difesa aerea e missilistica e i velivoli senza pilota”, ovvero i droni. Sono proprio quei sistemi che sui vari scenari di conflitto attuali si mostrano come centrali dei nuovi modi di far guerra.

Non a caso, Kubilius ha aggiunto che queste tecnologie “consentiranno alle forze armate europee di rispondere alle minacce emergenti e proteggere i nostri cittadini, sia rafforzando la nostra difesa collettiva sia supportando i nostri partner, come l’Ucraina, nei loro sforzi per difendersi dalle aggressioni straniere”. Kiev, annuncia la nota della Commissione, potrà associarsi per la prima volta ai progetti EDF.

È evidente come la creazione di un ecosistema industriale bellico tutto europeo presenti ancora profonde lacune e contrasti, ma iniziative come questa servono proprio ad accumulare sinergie e integrazioni delle filiere per raggiungere infine un salto di qualità nel settore. Che tuttavia mantiene connessioni in una dimensione atlantica con Regno Unito, Ucraina e Norvegia (coinvolta nei bandi EDF 2024).

Intanto, 12 membri UE (Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Lettonia, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia) hanno chiesto l’attivazione della clausola di salvaguardia per le spese militari. La corsa verso un’economia di guerra europea non fa che accelerare.

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26/03/2025

Francia - Quando la guerra attacca le pensioni

Mercoledì 5 marzo, mentre Macron si preparava a pronunciare il suo discorso sull’innalzamento delle spese militari prima del Consiglio straordinario che ha discusso il piano ReArm Europe, Gilbert Cette, economista macronista e presidente del Conseil d’orientation retraites (COR), scriveva sul sito del giornale Telos:
«Infine, le attuali discussioni sulle pensioni non possono ignorare del tutto l’attuale contesto internazionale. La necessità di aumentare considerevolmente la nostra spesa militare nei prossimi anni, se non trimestri, sta diventando sempre più chiara e pressante. Il graduale ingresso, più o meno esplicito, in un’economia di guerra renderà secondari, se non addirittura irrisori, gli attuali dibattiti sull’età pensionabile. La questione diventerà invece, in questo ambito e tra le molte altre decisioni da prendere, come aumentare rapidamente questa età pensionabile oltre i 64 anni decisi nella legge del 2023...»
In breve, l’entrata in (un economia di) guerra “rende irrisori i dibattiti attuali sulle pensioni” mettendo con le spalle al muro ogni negoziazione in corso sulla riforma della legge sulle pensioni del 2023, proprio nel momento in cui con il nuovo governo di Bayrou (un po’ più a sinistra solo se comparato a Barnier, e scelto da Macron per neutralizzare la spinta del Front Populaire dopo la caduta del governo) si erano riaperte le trattative che vedono coinvolte le organizzazioni sindacali e padronali per discutere la possibilità di abbassamento dell’età pensionistica, ad oggi fissata a 64 anni dalla riforma di 2 anni fa.

A confermare questo passo indietro sul piano delle trattative, è intervenuto direttamente il primo ministro, la scorsa domenica sulla trasmissione “Questions politiques”, escludendo la possibilità di un ri-abbassamento dell’età pensionabile a 62 anni.

Niente di cui sorprendersi: che la formula preferita da industrie belliche e capi di stato liberal-guerrafondai sia tagliare al pubblico per finanziare la guerra, è storia tristemente nota. In questo caso, è l’incalzante cronoprogramma a essere spudorato, dal momento che le parole del fedelissimo di Macron e di Bayrou arrivano a margine del tavolo settimanale della “conclave retraite” apertosi solo all’inizio del 2025, irritando, a buon diritto, i sindacati.

Anche il Rassemblement National ha avuto da ridire; attraverso la figura di di Laurent Jacobelli, membro dell’Assemblea Nazionale, ha criticato la tattica macronista di utilizzare “alibi” esterni per non occuparsi della politica interna.

È così che la “conclave retraites” si è sfasciata nel giro di due settimane, con l’abbandono del tavolo da parte di vari sindacati, tra cui anche la CGT, di fronte alla chiusura della possibilità di un abbassamento dell’età pensionabile.

Eppure, anche nel fronte antigovernativo e tra gli strenui difensori delle pensioni francesi, non mancano i guerrafondai.

In una dinamica che ricorda quella italiana, i sindacati riformisti e complici, come la CFDT (Confédération française des travailleurs chrétiens), la CFE-CGC (Confédération française de l’encadrement – Confédération générale des cadres), la CFTC (Confédération française démocratique du travail) e FO (Confédération générale du travail – Force ouvrière), sono tutti favorevoli a un rafforzamento della difesa, basta che non avvenga a spese della sola causa che dovrebbero, in teoria, difendere, la sécurité sociale francese.

Cyril Chabanie, presidente della CFTC, è intervenuto nel dibattito lunedì 10 marzo, su FranceInfo, rispondendo a caldo alle affermazioni del presidente del COR:
“Non appena si parla di sforzo bellico, la prima idea che viene in mente è quella di aumentare l’età pensionabile prevista dalla legge, quando ci sono molti altri modi per finanziare questo sforzo bellico.”
Un messaggio che rispecchia l’atteggiamento di tutto un mondo della “sinistra”, erede di quella socialdemocrazia che all’alba della Prima guerra mondiale votava per l’entrata in guerra pur continuando a riempirsi la bocca con diritti sociali e rivoluzione e che, da allora, non ha mai smesso di scendere a compromessi di fronte a ogni tornante storico, agendo da stabilizzatori del sistema, costruendo quella “paix industrielle” che annichilisce le ambizioni della classe lavoratrice, e rimanendo subalterni agli interessi imperialisti di chi promuove la guerra spacciandola per legittima difesa.

Eppure, l’equazione è facile: non ci può essere giustizia sociale con la guerra.

In questo scenario politico caratterizzato dal riarmo europeo, che rimescola le carte anche sul tavolo nei negoziati tra parti sociali in materia di pensioni, a due anni dalle mobilitazioni contro la riforma pensionistica, e a pochi giorni dalla piazza (il 20 marzo) chiamata dalla URC-CGT che si appellava alla mobilitazione dei pensionati “pour reconquérir la sécurité sociale”, ricordiamo la storia della Sécurité Sociale francese, che getta le sue radici in un profondo e attivo rifiuto della guerra e in una proposta di società differente.

Una breve storia della Sécurité Sociale

Nata in seno alla Resistenza, dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, grazie alla spinta del Partito Comunista Francese, in testa Ambroise Croizat, il sistema di previdenza sociale francese venne approvato nel 1945, e da allora continua a difendersi dai ripetuti attacchi di padroni e signori della guerra.

Questa legge capovolgeva i principi su cui si erano basate le leggi precedenti, rispettivamente la loi des retarites ouvrières et paysannes del 5 aprile 1910, definita dalla CGT di allora (nata nel 1895) come una “pensione per i morti”, considerando che la speranza di vita per un operaio francese all’inizio del XX secolo era di 49 anni per gli uomini e 52 per le donne; e la legge sulle Assurances sociales del 1928, completata nel 1930, che aveva allargato il dispositivo pensionistico, assemblando le casse destinate a malattia, maternità, invalidità e vecchiaia, ma mantenendo il principio di capitalizzazione e affidandone la gestione alle società mutuali.

Rapporto politico del Comitato centrale: Congresso nazionale del Partito comunista francese dal 31 marzo al 6 aprile 1929 a Parigi. Nell’ambito di una valutazione generale da parte del Comitato Centrale della situazione politica francese e della tattica da adottare, il PCF attaccò le assicurazioni sociali (la legge era stata approvata l’anno precedente), considerandole uno strumento di “pace sociale” (“pace industriale”), di corruzione dei datori di lavoro e di rafforzamento della collaborazione con le organizzazioni riformiste, e quindi una minaccia per il movimento operaio e la CGTU.

Con la fine della guerra, il 15 marzo 1944, venne adottato un programma da parte del Consiglio nazionale di Resistenza (CNR) che, accanto a un programma di nazionalizzazioni economiche, annunciava «un sistema di sicurezza sociale completo, volto a fornire a tutti i cittadini un mezzo di sussistenza in tutti i casi in cui non siano in grado di ottenerlo attraverso il lavoro, con una gestione che appartiene ai rappresentanti delle parti interessate e allo Stato».

È su questo programma che, nell’ottobre 1945, venne istituito il sistema d Sécurité sociale, che riuniva “in una sola cassa tutte le forme anteriori di assicurazione sociale e la finanzia attraverso un contributo intersettoriale a tasso unico”.

Senza entrare nei dettagli tecnici, la rilevanza di questo passaggio è legata ad alcuni principi fondamentali su cui la legge del 1945 si basa, e che restano l’ossatura dello stato sociale francese, nonostante i costanti attacchi degli ultimi decenni.

Basandosi sull’assunto “a ognuno secondo i suoi bisogni e ciascuno secondo le proprie possibilità”, le ordinanze del 4 e del 19 ottobre si basano su 4 principi: una cassa unica (che gestisce l’insieme dei rischi sociali: malattia, infortuni sul lavoro, vecchiaia e maternità), l’universalità delle prestazioni, il finanziamento per contributi e una gestione democratica da parte degli assurés, ovvero i diretti interessati. Dal punto di vista delle pensioni, una legge del 1941 aveva già introdotto un sistema di ripartizione, riconfermato dal sistema pensionistico.

I pionieri assoluti della riforma furono il Partito Comunista Francese e la CGT, con Ambroise Croizat come ministro del lavoro, in collaborazione con l’alto funzionario Pierre Laroque, che all’alba della liberazione aveva affermato «questa è una rivoluzione che deve essere fatta ed è una rivoluzione che faremo!».

50 anni di lotta di classe dall’alto contro il sistema di previdenza francese

La riforma delle pensioni del 2023, contro cui le forze dell’opposizione francese continuano a mobilitarsi, è solo l’ultimo tassello di un processo di smantellamento che è iniziato appena dopo l’introduzione del sistema di Sécurité Sociale, che fin dagli inizi dovette confrontarsi con l’ostilità di mutue, interessi padronali e interessi corporativi di quelle categorie che pretendevano uno statuto speciale abdicando il regime generale.

Il primo grande colpo sferrato al sistema di Sécu avvenne nel 1967, con le ordinanze Jeanneney del 21 agosto che aumentano i contributi, riducono le prestazioni, aboliscono le elezioni dei fondi primari, smantellando il sistema democratico su cui si fondava la Sécu, e separano i regimi di famiglia, malattia e vecchiaia in tre fondi nazionali autonomi.

Nel 1983 l’abbassamento dell’età pensionabile a tasso pieno a 60 anni è l’ultima grande misura di progresso messa in opera, prima del “tournant de la rigueur”, che da quel momento in avanti avrebbe continuato fino ad oggi a smantellare il sistema di previdenza francese.

Con la riforma Balladur nel 1993 – che alza ulteriormente i contributi – le pensioni vengono adeguate all’inflazione e non più ai salari, e il piano Juppé del 1995 punta ad applicare questa misura anche al settore pubblico. Diventa compito dei parlamentari votare ogni anno la legge di finanziamento della Sécurité sociale, che prima era in capo ai partenaires sociaux.

In breve, il finanziamento della Sécu si piega a una logica di adattamento delle prestazioni in base ai finanziamenti e non tanto ai bisogni reali, legandone le sorti anche ai rigidi criteri budgetari europei. Inoltre, questa riforma porta alla soppressione definitiva delle elezioni degli amministratori delle casse della «Sécu», che erano state per breve tempo reintrodotte da François Mitterrand nel 1983 dopo la riforma del 1967. Ne fa seguito una grande mobilitazione sindacale e sociale, che per 3 settimane blocca il paese, ottenendo solo in parte la limitazione della riforma.

Da allora altre tre riforme hanno aggravato la situazione. Nel 2010, con Sarkozy, l’età di pensionamento legale viene alzata a 62 anni; nel 2014 Hollande approva la riforma Touraine che porta a 43 anni la durata dei contributi conferente diritto a una pensione a tasso pieno; infine, nel 2023, Macron alza l’età pensionabile a 64 anni, scatenando la furia dei lavoratori francesi, che per mesi hanno riempito le piazze, riaprendo l’acceso dibattito che ancora oggi infuoca l’Assemblea Nazionale, di fronte ai nuovi “sacrifici” che si prevedono per finanziare la guerra.

Difendere le pensioni vuol dire dichiarare guerra alla guerra

Nata dalla “guerra alla guerra” dei partigiani contro il nazifascismo, e dalla spinta soggettiva di un sindacato confederale e di un partito forti guidati da dirigenti rivoluzionari, la Sécurité Sociale francese è il prodotto di una fase storica caratterizzata da un bouleverement dei rapporti di forza tra classi, dimostrando ancora oggi che nessuno dei diritti di cui godiamo è frutto di una concessione dall’alto.

Neppure i subdoli sistemi di menagement aziendale sviluppati con la ristrutturazione neoliberista, che introducono modelli di democrazia aziendale e governance più sostenibili, hanno niente a che fare con i diritti dei lavoratori, che attraverso questi dispositivi vengono resi più ricattabili e mansueti di fronte a nuove strategie di pacificazione sociale, frutto di una lotta di classe condotta dall’alto verso il basso.

Non esiste nessun meccanismo interno al sistema che porti alla generalizzazione dell’interesse dei lavoratori, ma solo la capacità della classe, organizzata, in un determinato momento storico, di far valere i propri rapporti di forza e imporre il proprio interesse specifico, che, come nel caso della Sécurité Sociale, da specifico si fa generale.

Oggi, in un momento in cui, ancora una volta, vediamo attaccati gli scarni resti di uno stato sociale conquistato dalle lotte che ci hanno preceduto in nome del riarmo, è quanto mai necessario articolare politicamente la difesa sindacale ed economica dei diritti, smascherando il torbido pulviscolo di interessi che si nasconde dietro questi attacchi, e condannando, senza se e senza ma, una guerra che mai è stata e mai sarà portata avanti nell’interesse dei lavoratori e delle lavoratrici.

Fonte

09/03/2025

Alla larga dai No Pax!

di Giorgio Cremaschi

La manifestazione del 15 marzo a Roma, convocata dal quotidiano della Famiglia Elkann Agnelli, la Repubblica, mi provoca un rifiuto che precipita nel disgusto.

Il rifiuto totale è per la guerra, l’economia di guerra e per coloro che oggi ne proclamano la “necessità” per combattere la Russia. E la cosa insopportabile è che fanno tutto questo nel nome del superamento dei nazionalismi.

Costoro non si accorgono neppure che hanno semplicemente sostituito lo spirito patriottardo nazionalista con lo spirito patriottardo europeista. Mettete “Europa” al posto di “Italia” e tutto il resto del loro linguaggio attuale può essere preso pari pari dai comizi di D’Annunzio e dei mascalzoni che nel 1915 inneggiavano alla guerra.

“Dobbiamo reagire al disonore”, “dobbiamo proclamare la superiorità della nostra civiltà”, “dobbiamo armarci contro il barbaro aggressore”. E le fazioni devono sparire tutte davanti al comune destino. Spariscano dunque le bandiere di parte tranne quella della Patria. Così ieri si imponeva solo la bandiera bianco rossa e verde, oggi la Repubblica chiede di andare in piazza il 15 marzo solo con quella blu. Cambiano le bandiere, non la cialtroneria di chi le sventola.

La realtà è che un gruppo di governanti europei, che non sono tutta l’Europa e neppure tutta la UE, uniti nella NATO con Canada e Turchia, si sono trovati a Londra per protestare contro Trump.

Perché il presidente USA ha un programma di governo reazionario ultraliberista e razzista?

Certo che no... Questi governanti sono offesi perché Trump vorrebbe mettersi d’accordo con la Russia alle loro spalle.

Oggi Trump è considerato dai liberaldemocratici europei un nemico che ha rotto il fronte della libertà, ma se decidesse di cambiare idea e facesse più guerra alla Russia – cosa tuttora possibile – allora tornerebbe ad essere il campione dell’Occidente.

Vogliono una pace giusta e il rispetto del popolo ucraino? Ma non facciano ridere. Quello che vogliono è un posto al tavolo buono, da cui si sentono improvvisamente esclusi, ingiusta ricompensa dopo decenni di servile fedeltà a tutte le più sporche imprese degli USA e del loro primo protetto, Israele.

Che proprio in questi giorni decide di colpire la popolazione di Gaza con l’arma genocida del blocco del cibo, dell’acqua, dell’energia, delle medicine; senza che i manifestanti “per la libertà dei popoli” con la bandiera blu dicano un bif.

Ursula von der Leyen chiede 800 miliardi, la stessa cifra rivendicata qualche mese fa da Draghi, per nuove spese militari e vuole pure una banca europea dedicata al riarmo.

Saranno tutti soldi sottratti a sanità, scuola, servizi sociali, tutti soldi in meno per la civiltà europea nel nome della “guerra di civiltà”.

Il riarmo è la sola priorità di questo “europeismo” e questa non è solo una scelta regressiva, è anche una velleità furbastra e opportunista, perché in realtà non è neanche vero che questi governanti europei siano disposti a far guerra da soli alla Russia o alla Cina. Essi intendono, o almeno così credono e fanno credere, far pressione in questo modo sugli USA perché guerra e affari continuino come è sempre stato. E come invece non è più.

Sotto la bandiera blu scendono in piazza assieme le ipocrisie e le menzogne liberal-democratiche.

Quelle di chi proclama la guerra, ma vuole che la facciano gli altri; quelle di chi esalta la democrazia, ma è disposto a tutto se la democrazia non va come vorrebbe; quelle di chi vuole il riarmo, ma ne dà la colpa al nemico; e infine quelle di chi a parole respinge armi e guerra, ma scende in piazza a fianco dei guerrafondai liberali. Finti pacifisti e azionisti di Leonardo sotto la stessa bandiera.

Ecco, qui mi sale il disgusto, perché a questa manifestazione guerrafondaia dell’estremismo di centro parteciperanno anche politici e sindacalisti che si proclamano “di sinistra” e che magari il giorno dopo riprenderanno a rivendicare pace e lavoro.

Saranno lì per per puro opportunismo, perché non possono dire no al giornale della famiglia Elkann Agnelli, soprattutto quando sventola la bandiera blu. E saranno lì perché i loro princìpi sono flessibili come il lavoro precario che dichiarano di voler combattere.

Questa manifestazione lascerà il mondo inalterato, ma sicuramente procurerà danni alla fragile democrazia italiana, aumentando la confusione e il trasformismo che la stanno distruggendo. Sarà una manifestazione che rafforzerà la destra in tutte le sue versioni, da quella esplicitamente guerrafondaia a quella che finge di opporsi al riarmo.

Alla larga dalla piazza dei NO PAX, mobilitiamoci e facciamo altro.

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04/03/2025

L’economia di guerra batte il ritmo ai mercati

È un ricco ma decisamente inquietante bottino quello delle industrie militari nelle quotazioni alla Borsa di Milano.

Ieri la Leonardo, è salita del +11,26% a 42,9 euro ad azione. Ma hanno incassato anche Fincantieri +7,14% a 10,12 euro, Iveco +5,46% a 15,9 euro, Avio +7,22% a 18,12 euro.

Lo stesso trend è stato registrato nelle altre borse europee con Bae Systems che ha segnato un +13,2%, la Rheinmetall un +11,35%, la Thales un +13,33%, la Rolls Royce un +5,65%, Airbus un +2,72%, Safran un +2,04%,

Il balzo di oltre il 17% del titolo della Leonardo alla Borsa di Milano è il risultato delle tensioni belliche sulla questione ucraina. In particolare dopo che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, a conclusione del vertice di Londra, ha annunciato che l’Unione Europea deve “urgentemente riarmarsi e aiutare l’Ucraina a trasformarsi in un porcospino d’acciaio che risulti indigesto per futuri invasori come la Russia”.

Ad arricchire in Borsa i titoli delle industrie militari sono anche le notizie diffuse dalla stampa tedesca secondo cui la Cdu e l’Spd, che stanno negoziando la formazione del prossimo Governo di coalizione a Berlino, starebbero valutando due fondi speciali da centinaia di miliardi di euro, uno per la Difesa e uno per le infrastrutture. I fondi sarebbero da circa 400 miliardi di euro l’uno.

Milano Finanza cita a tale proposito gli analisti di Intesa Sanpaolo secondo i quali “Se la Germania lanciasse con successo un fondo straordinario per la Difesa da 400 miliardi euro su 10 anni (questa è la nostra ipotesi), la spesa per il settore del Paese raggiungerebbe tra i 90 e i 110 miliardi euro, pari al 2,25-2,75% del Pil o anche oltre”.

“Il movimento dei prezzi è dovuto principalmente a due fattori che lo influenzano. Le cose stavano già migliorando in mattinata, innescate dalla prospettiva di un fondo speciale per la Bundeswher e dall’aumento della spesa per la difesa da parte dei paesi europei della NATO” scrive il quotidiano economico tedesco Handesblatt, il quale sottolinea come le azioni della Rheinmetall siano salite del 14% e quelle di Airbus il 6,6%, con le azioni Rheinmetall nella top ten per capitalizzazione di mercato.

C’è poi grande attesa per il vertice del Consiglio europeo dedicato alla difesa e all’Ucraina previsto per giovedì 6 marzo, dove i leader dell’Ue intendono discutere i modi per finanziare l’aumento delle spese militari. Secondo l’agenzia di informazione economica Bloomberg “Si percepisce un ampio consenso affinché l’Europa prenda in mano il proprio futuro e che ci saranno maggiori spese militari”.

L’economia di guerra sembra ormai delineare le priorità del capitalismo in Europa, come negli anni Trenta del '900. Sappiamo però come è andata a finire, ma siamo sicuri che Michele Serra e i suoi supporter faranno di tutto per non saperlo o per non farcelo sapere.

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11/01/2025

Come il Pentagono investe per programmare la competizione strategica

Con questo articolo si fornisce il quadro del pensiero strategico statunitense entro il quale bisogna intendere i fatti che osserviamo tutti i giorni, e che spesso nei media nostrani vengono stupidamente additati come “pazzia” di Trump.

In particolare, nel documento qui analizzato il Pentagono fa riferimento a batterie elettriche, intelligenza artificiale e altre tecnologie avanzate, aiutando a indagare meglio anche le dinamiche approfondite qui e qui, che uniscono in un complesso triangolo Musk, Trump ed Unione Europea.

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Quando parliamo di linee strategiche parliamo della capacità di sviluppare i propri obiettivi nel confronto con altri attori sull’arco di tempi storici. La capacità di modellare la propria azione sui nodi strutturali di fondo che devono essere affrontati, e che non cambieranno tra i rivolgimenti estemporanei, per quanto grandi possano sembrare nell’immediato.

Se per chi sta dalla parte dei lavoratori, nel nostro paese, questa capacità si riassume nella necessità di ricostruire delle forze e una visione di classe e indipendente, per il cuore dell’Impero (gli Stati Uniti, nella filiera imperialistica euroatlantica) si tratta di sapere come surclassare i propri avversari nei settori centrali dello sviluppo capitalistico.

Quei mercati e quelle innovazioni che saranno il fulcro del ciclo economico futuro. In una fase di scontro aperto come questa, è chiaro che il compito di assicurare questa capacità viene messa in capo innanzitutto agli organismi militari. Nella crisi del capitale, la vittoria nella competizione è una questione di vita o di morte, e allora tutta l’economia viene gestita secondo le esigenze di guerra.

È quello a cui assistiamo giorno dopo giorno, mentre veniamo bombardati in continuazione da un messaggio: dobbiamo prepararci allo scontro con i “nemici dell’Occidente”. Ogni momento della vita civile diventa una questione di sicurezza nazionale, e difatti in maniera sempre più pressante la prima è piegata alle logiche della seconda.

È dunque utile osservare quali settori vengano considerati come strategici nella competizione globale dal Pentagono, e come questo programmi lo scontro sul lungo periodo con i competitori degli Stati Uniti, in particolare con la Cina. Il suo Office of Strategic Capital (OSC) ha infatti da poco pubblicato la Strategia di Investimento per il 2025, e qui analizzeremo parti di questo documento.

Questo distaccamento è stato creato dal segretario alla Difesa di Biden, Lloyd Austin, alla fine del 2022, in modo tale da indirizzare le preferenze di investimento verso le “catene di fornitura di tecnologie critiche necessarie al Dipartimento della Difesa”. L’obiettivo è quello di “accelerare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie fondamentali per le capacità di combattimento attuali e future”.

Per il secondo anno, viene pubblicata una strategia di investimento che non prevede ancora veri e propri capitoli di spesa per i 984 milioni di dollari ad oggi stanziati, perché le sue funzioni (prestiti, garanzie sui prestiti e assistenza tecnica) stanno entrando a pieno regime ora. Ma individua 31 categorie di tecnologie e 15 segmenti industriali di interesse per il Pentagono.

È significativo sottolineare come nessuno di questi è immediatamente riconducibile all’ambito bellico, ma sono indispensabili per le sue forniture o per applicazioni dual use.

Riassumendo, si parla di nano e biotecnologie; automatizzazione; chip e terre rare; batterie elettriche, solare e idrogeno; spazio; cybersicurezza, gestione dati e computer quantistici.

Ancora più significativo, per comprendere come pensano e si muovono gli Stati Uniti, è l’identificazione di tre “arene” della competizione strategica, da affrontare con respiri temporali differenti l’una dall’altra, anche se in parte sovrapponibili. Esse sono le reti economiche, le industrie chiave e le tecnologie critiche.

Le prime rappresentano una questione da affrontare a breve termine (entro 3 anni), ed esprimono l’eredità della globalizzazione, ovvero l’allungamento delle filiere per un mercato mondiale, che oggi fa i conti con una crescente frammentazione. Il compito dell’OSC è quello di minimizzare e controllare i colli di bottiglia del mercato, evitando che avversari strategici possano disporne come vogliono.

Sul medio termine (2-7 anni), il Pentagono punta al dominio sulle industrie chiave, ovvero quelle “essenziali alla sicurezza nazionale – al di là del mero controllo di un collo di bottiglia di una rete economica”.

Infine, l’orizzonte a lungo termine si dispiega fra 5 e 15 anni, andando poi oltre, e riguarda la vittoria nella corsa alle tecnologie critiche del futuro.

Se soppesare quando e dove un candidato agli interventi dell’OSC rientri nell’ampio spettro degli interessi della sicurezza nazionale sarà di per sé una sfida, è indubbio che il Pentagono applichi questa categoria a un ecosistema che tiene insieme gli alleati di Washington. Gli USA pensano la propria sicurezza in una cornice euroatlantica, in cui ovviamente non sono disposti a condividere il primato con nessuno.

L’ultimo elemento che vogliamo qui porre in risalto è che, tornando alla premessa firmata da Austin, l’azione di questo braccio del Pentagono viene caricata di un valore ideologico. L’impegno a sostenere gli investimenti privati in direzioni strategiche viene considerato come parte di una sfida del modello liberal-liberista ad altri modelli sociali.

Scrive infatti Austin che l’OSC agirà “in modo coerente con il profondo impegno americano per la concorrenza di mercato, fonte di forza degli Stati Uniti. Il nostro approccio è in netto contrasto con quello degli autocrati stranieri che cercano di costringere e controllare gli investitori e le aziende”. Un chiaro riferimento a Pechino.

Non dimentichiamoci questo appunto, tutt’altro che secondario. Non solo perché per le forze di alternativa diventa un elemento da considerare nella battaglia ideologica, ma anche perché ciò che produrrà il Pentagono nei prossimi anni – che siano avanzate tecnologie o guerre logoranti – dovrà allora essere considerato a pieno titolo come frutto del capitalismo occidentale.

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14/09/2024

L’economia di guerra: concetto e sguardo retrospettivo nel contesto del caso di studio degli Stati Uniti

Negli Stati Uniti, non il “New Deal”, bensì l’economia di guerra del secondo conflitto mondiale portò il Paese fuori dalla decennale Grande Depressione.

Il concetto di economia di guerra

Gli esperti ricorrono a tale terminologia quando uno Stato riorganizza la struttura della propria economia nel corso di un conflitto per garantire che la capacità produttiva venga configurata in modo ottimale per sostenere lo sforzo bellico.

Con l’economia di guerra, i governi devono assicurare che le risorse siano allocate in modo efficiente per far fronte sia all’impegno militare, sia alla domanda proveniente dalla società civile. In sostanza, costituisce, da un lato, una necessità per garantire la difesa e la sicurezza del Paese e, dall’altro, una strategia finalizzata all’ottenimento di un vantaggio economico, tecnologico e produttivo sulla controparte.

In un contesto di economia di guerra i governi riservano priorità alle produzioni di sostegno all’attività militare e in base ai contesti storici e politici possono ricorre a specifici provvedimenti economici quali: l’emissione di appositi strumenti finanziari per reperire risorse aggiuntive, come le obbligazioni di guerra, ridistribuire le risorse fiscali a favore dello sforzo bellico e a detrimento di altre necessità non prioritarie in tempo di guerra, incentivare le imprese private ad ampliare e a spostare la produzione verso il comparto militare, non che, in caso di necessità, stabilire il razionamento dei prodotti alimentari per garantire l’approvvigionamento dell’intera popolazione, come avvenuto nel nostro Paese nel corso dell’ultima guerra mondiale.

L’economia di Guerra durante la Seconda Guerra Mondiale

Nel corso della storia, talvolta, si sono verificati casi di Paesi che a seguito dell’adozione di un’economia di guerra, non avendo riportato gravi distruzioni, al termine del conflitto hanno beneficiato di un ampliamento, un avanzamento tecnologico e un rafforzamento del loro struttura produttiva, come gli Stati Uniti al termine della Seconda Guerra Mondiale.

Sussistono anche situazioni di Stati che dopo aver subito la devastazione bellica dell’apparato produttivo, hanno sfruttato la ricostruzione per dotarsi di infrastrutture e impianti industriali più moderni e tecnologicamente efficienti, come accaduto in Giappone e in Germania dopo l’ultimo conflitto mondiale.

Mentre in Corea del Sud, i militari guidati dal generale Park Chung-hee, saliti al potere con un colpo di stato nel 1961, avviarono un processo di industrializzazione che, grazie al ruolo centrale dello Stato nell’economia, riuscì ad innescare in un Paese ancora sostanzialmente rurale e arretrato, oltre che devastato dall’occupazione militare Giapponese (1910-45) e dalla Guerra di Corea (1950-53), un significativo processo di sviluppo socio-culturale e una forte crescita economica, passata alla storia come “miracolo sul fiume Han”[1].

Gli Stati coinvolti direttamente nella Seconda Guerra Mondiale fecero necessariamente ricorsero ad una economia di guerra durante il conflitto, mentre la Germania nazista aveva già adottato parzialmente tale modello a seguito della politica di riarmo implementata dopo la salita di Adolf Hitler alla Cancelleria nel 1933, spostando risorse dalla produzione di beni di lusso verso armamenti, mezzi ed equipaggiamenti militari, i cui frutti risultarono imponenti sin dal 1935 (tab. 1).

Diverso il caso degli Stati Uniti, i quali inizialmente non coinvolti direttamente nel conflitto mondiale, a partire dal 1 settembre del 1939 hanno dapprima concentrato lo sforzo produttivo verso la produzione di armi, munizioni, merci e alimenti indirizzati agli alleati europei, beneficiando di una significativa ricaduta sul proprio ciclo economico, per poi ricorrere pienamente ad una economia di guerra dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour dell’8 dicembre 1941. Da quel momento, l’economia di guerra registrò un’inevitabile accelerazione con il governo federale che divenne committente e acquirente addirittura di oltre la metà della produzione industriale nazionale, come vedremo in seguito.

Il modello di economia di guerra statunitense, contrariamente agli altri Paesi belligeranti, non risultò caratterizzato da una significativa pianificazione statale centralizzata tant’è che, ispirandosi alle logiche del mercato, il governo preferì agire principalmente sul lato della domanda, cercando di indirizzare l’offerta privata attraverso gli ordinativi, oltre a dotarsi di un apparato produttivo pubblico, fino a quel momento molto limitato. Tale politica economica determinò un considerevole afflusso di capitali verso le imprese, i quali rimasero a disposizione delle produzioni anche al termine della guerra, agevolati dal fatto che il territorio continentale degli Stati Uniti, non avendo subito distruzioni, non necessitava di corposi investimenti nella ricostruzione industriale, infrastrutturale e del patrimonio edilizio.

Infine, il sensibile aumento della presenza delle donne nelle fabbriche per sopperire alla chiamata alle armi di milioni di giovani maschi, la priorità assegnata ad alcuni comparti produttivi a discapito di altri, la conversione di molte produzioni in senso militare e la massimizzazione dello sforzo produttivo, determinarono inevitabilmente una riorganizzazione ed un efficientamento del lavoro che portò significativi benefici all’economia della fase post-bellica.

La fallace narrazione del “New Deal” risolutore della Grande Depressione

Con l’inizio della “Grande Depressione” innescata dal crollo della Borsa di Wall Street del 24 ottobre del 1929, il “giovedì nero”, il nuovo presidente democratico, Franklin Delano Roosevelt (1933-45), adottò fra il 1933 e il 1934 una serie di provvedimenti economici tesi ad aumentare la presenza dello stato nell’economia, a disciplinare settori economici totalmente derelegolamentati (come il Banking Act del 1933) e ad introdurre una riforma fiscale progressiva, passati alla storia come “Primo New Deal” (Nuovo corso).

Una volta conseguiti i primi risultati già dal 1934 (tab. 1), il piano di Roosevelt iniziò ad incontrare crescenti resistenze sia da parte dei potenti trust economici e finanziari nazionali, che ricorsero anche ad una campagna stampa, che dal partito repubblicano e dai democratici conservatori, tutti contrari all’intervento statale nell’economia. Il doppio fuoco di sbarramento finì per imprimere un significativo depotenziamento al “New Deal” a causa di una serie di dichiarazioni di incostituzionalità, in merito ai provvedimenti economici adottati, emesse, fra il maggio del 1935 ed il corrispondente mese dell’anno successivo, dalla Corte Suprema Federale, in maggioranza composta da giudici nominati dai precedenti presidenti repubblicani.

Da quel momento in avanti, Il “New Deal” non sarà più in grado di determinare il profondo cambiamento nell’economia statunitense che era nei progetti di Roosevelt e dei suoi consulenti accademici. La sua portata si limiterà, come afferma il geografo marxista francese Pierre George “a manipolazioni monetarie, all’esecuzione di grandi lavori pubblici, segnatamente all’attrezzatura veramente notevole della valle del Tennessee col tramite delle Tennesse Valley Autorithy (Tva), al risveglio della coscienza sindacale e all’intervento finanziario dello Stato nella vita economica e sociale, con un disavanzo enorme delle pubbliche finanze, 5 miliardi di dollari all’incirca del 1935-36. Lo Stato rinuncia a dirigere l’assieme dell’economia, ma fa la sua parte di banchiere e di produttore, se non direttamente, almeno col tramite di uffici sovvenzionati (la Tva ne è un esempio), d’altronde, già prima dell’era rooseveltiana, il dipartimento dell’Interno è sempre stato il più importante fornitore d’energia degli Stati Uniti”[2].

Tale depotenziamento spingerà Roosevelt a correre ai ripari facendo approvare dal Congresso il “Secondo New Deal”, una nuova serie di riforme economiche e soprattutto sociali, in considerazione del fatto che il provvedimento più importante risultò il Social Security Act, finalizzato all’istituzione di un sistema di sicurezza e di protezione sociale. La misura introduceva, infatti, l’erogazione di contributi in caso di disoccupazione, vecchiaia e disabilità, tramite un fondo finanziato dai datori di lavoro, dai lavoratori e con risorse del bilancio federale.

La ripresa della produzione continuò anche nel corso del 1936 e nella prima parte del 1937 ma la mancata trasformazione del sistema produttivo e un settore statale troppo ristretto, non consentirono allo Stato di esercitare un’azione decisiva sull’intera economia federale. Ciò lasciò sostanzialmente invariato lo spazio di manovra della speculazione e delle grandi imprese nella ricerca dell’utile tramite la “razionalizzazione intensificata” dei fattori della produzione, determinando la ricomparsa degli squilibri fra il potere d’acquisto interno (la domanda) e l’offerta di beni, anche a seguito della riduzione della diminuzione della spesa pubblica federale che aveva portato quasi a sfiorare il pareggio di bilancio nel 1937.

Inoltre, non essendo in quegli anni migliorato il livello della domanda internazionale, il progetto di dare nuova linfa alla ripresa della produzione finì per creare le potenziali condizioni per una nuova crisi.

L’indice della produzione industriale elaborato dalla Federal Reserve, dopo aver toccato ad inizio del 1937 il valore di 99, nei mesi successivi intraprese una nuova ricaduta fino a 66,5 determinando una nuova espansione della massa dei disoccupati che oscillò fra i 13 e 14 milioni di unità. L’economia statunitense scivolò quindi nuovamente in recessione nel secondo semestre del 1937, rimanendoci per 13 mesi consecutivi fino alla seconda metà del 1938 (grafico 1).

La produzione industriale subì un grave contraccolpo contraendosi di quasi il 30% e la disoccupazione dal 14,3% del maggio 1937 salì nuovamente al 19,0% del giugno del 1938, ritornando allo stesso livello del 1934 (grafico 2).

Il governo statunitense in linea coi principi keynesiani, peraltro abbandonati in modo troppo repentino in quella fase secondo gli economisti di questa corrente, attuò quindi a partire dalla primavera del 1938 un grande piano di acquisti (pump-priming[3]) per sostenere la domanda interna ed evitare un ulteriore aggravamento della situazione socio-economica, determinando un nuovo aggravamento del deficit federale che infatti tornò a superare i 4 miliardi di dollari nel 1939.

I grandi trust statunitensi, ai quali Roosevelt aveva allentato la precedente politica di coercizione, si lanciarono quindi con massicci investimenti alla conquista dei mercati internazionali al fine di trovare nuovi sbocchi alle proprie produzioni.

L’economia statunitense non essendo ancora riuscita a trovare all’inizio del 1939 al proprio interno i rimedi alla crisi economica strutturale che l’attanagliava da un decennio, beneficerà di li a qualche mese di un evento drammatico per la storia dell’umanità che le consentirà di uscire dalla “Grande Depressione” imprimendo nuovo slancio tecnologico e produttivo al settore industriale e all’intera struttura economica: la Seconda Guerra Mondiale.

Le peculiarità dell’economia di guerra statunitense

Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il 1 settembre 1939, fornì una prima importante spinta all’economia statunitense grazie alle forniture militari, industriali e agricole destinate ai paesi europei alleati, e una successiva accelerazione dopo l’8 dicembre 1941 con l’ingresso diretto nel conflitto, lasciando secondo Pierre George “come fenomeni accompagnatori sconvolgimenti nella struttura economica e sociale. I tre nuovi dati di fatto dell’economia statunitense sono rappresentati dall’elevazione considerevole del limite tecnico massimo, cioè del potenziale produttivo, dalla partecipazione enorme assunta dallo Stato nell’assistenza finanziaria concessa alla produzione e dall’importanza della mobilitazione umana nell’industria e nelle forze armate”.[4]

L’economia statunitense iniziò quindi a risollevarsi e successivamente a svilupparsi celermente solo quando l’amministrazione fu costretta ad esorbitanti spese federali per sostenere lo sforzo bellico, sia in modo indiretto durante la prima fase del conflitto, ma soprattutto successivamente con il coinvolgimento diretto (grafico 3).

In base ai dati riportati da Pierre George, le produzioni industriali riguardanti la guerra registrarono, fra il 1939 e il 1944, una rapida impennata con tassi superiori al 100% (tab. 3), tant’è che il governo fu costretto ad intervenire in alcuni comparti per rallentarne l’eccessiva crescita temendo, memore della crisi da sovrapproduzione che aveva innescato il crack borsistico del 1929, di venire sopraffatto al termine del conflitto mondiale dall’impossibilità di trovare adeguato sbocco all’imponente produzione industriale raggiunta in quegli anni.

Gli incrementi maggiori riguardarono la cantieristica navale (+5.500%), l’industria aeronautica (+1.300%) e la produzione di macchine utensili (+650%), in quanto l’economia di guerra statunitense, principalmente a partire dal 1942, si concentrò sul ringiovanimento delle strumentazioni produttive, sull’ampliamento della base industriale e sulla realizzazione di una imponente flotta da trasporto (tab. 3). Soprattutto in quest’ultimo campo i risultati furono strabilianti visto che la produzione cantieristica statunitense di un solo anno riuscì a superare il tonnellaggio totale della flotta britannica all’inizio della guerra.

L’economia di guerra Usa conobbe in quegli anni un’eccezionale crescita tant’è che fra il 1939 e il 1944 la produzione nazionale quasi raddoppiò e conseguentemente la disoccupazione dal 14% del 1940 scese a meno del 2% nel 1943 (grafico 2), con la forza lavoro impiegata che crebbe di oltre quindici milioni di unità in soli 5 anni (tab. 4).

Come abbiamo visto in precedenza, il governo federale, che tramite il sistema del pump-priming e il finanziamento dei vari uffici d’integrazione già interveniva da alcuni anni in modo massiccio negli acquisti di materie prime e prodotti manifatturieri, con lo scoppio della guerra divenne il principale cliente dell’industria statunitense. In particolare tramite la trasformazione dell’organismo di soccorso delle aziende in difficoltà, il Reconstruction Finance Corporation (Rfc), in un ufficio di finanziamento dell’industria di guerra.

L’amministrazione Roosevelt, affinché il dirompente boom economico di quegli anni non presentasse risvolti catastrofici al termine della guerra, si adoperò nel tentativo di mettere lo Stato nelle condizioni di poter controllare la produzione e l’accumulazione degli enormi profitti che i grandi gruppi privati stavano conseguendo, sia direttamente tramite l’azione legislativa e di controllo del governo, sia attraverso i suoi enti come la Defense Plant Corporation. la Rubber Reserve Co., il Marittime Committee, oltre al già citato Rfc.

Per mezzo di questi enti pubblici lo stato prese sotto la sua diretta gestione vecchie fabbriche tecnologicamente superate e quelle realizzate appositamente per le necessità belliche, in particolare quelle localizzate nell’Ovest del Paese che producevano semilavorati o componentistica per l’industria militare, come il comparto aeronautico, la cantieristica navale, la petrolchimica dedita alla realizzazione della gomma sintetica e la metallurgia dei metalli leggeri, con l’alluminio che registrò un aumento addirittura del 750% (tab. 3).

In sostanza, in quegli anni l’amministrazione federale anticipò 18 miliardi di dollari a scopi produttivi, una cifra enorme considerato che il valore dell’apparato industriale statunitense nel 1939 era stimato nell’ordine di 22,5 miliardi di dollari diventando, dopo lo scoppio della guerra, proprietaria di circa 3.000 officine e cantieri.

Nel contesto dell’economia di guerra statunitense, il governo articolò le proprie attività a sostegno delle produzioni in tre modalità distinte: assunse infatti funzione di finanziatore, di industriale diretto e di consumatore tramite acquisti a beneficio di un apparato industriale che ben presto assunse dimensioni mastodontiche arrivando a raggiungere nel 1944 un livello di produzione industriale pari a 200 miliardi di dollari.

Di questi, ben 98 miliardi risultavano frutto dell’imponente domanda federale comprendente anche la parte di aiuti destinati ai Paesi alleati in base agli accordi della legge “Prestiti e Affitti”, la “Lend-Lease Act”, che era stata approvata dal Congresso su input di Roosevelt l’11 marzo 1941, prima dell’ingresso diretto nel conflitto[5].

La dinamica del ciclo economico risultò quindi strettamente interconnessa al livello degli acquisti statali, tant’è che il bilancio federale ne uscì fortemente dilatato e, al pari del deficit, il debito pubblico subì una rapida impennata proprio a partire dal 1941, addirittura più che triplicando, al termine del conflitto, in rapporto al Pil, peraltro anch’esso in fase di rapida espansione (grafico 4).

La mobilitazione e la riallocazione della forza lavoro

Il confitto mondiale e il conseguente straordinario sforzo economico e militare statunitense comportarono una gigantesca mobilitazione di risorse umane, addirittura sensibilmente superiore rispetto all’impiego di manodopera in tempo di pace, persino alle fasi di più spiccata accelerazione economica.

Prendendo in considerazione come indicatore analitico l’entità della manodopera impiegata, comprendente anche le persone arruolate nelle Forze Armate, rileviamo come dai 48 milioni, pari al 37% della popolazione totale, del 1929, la stessa sia salita a 60,4 milioni, corrispondenti al 45% degli abitanti, risultanti però dal censimento del 1940 che rilevò la presenza di 132 milioni di residenti (tab.4).

Passando, invece, all’analisi disaggregata per comparto economico della variazione della forza lavoro impiegata, emerge come l’incremento si sia concentrato quasi esclusivamente su due coppie di voci: industria e trasporti (+40% rispetto al 1939 e +12,5% in raffronto al 1929) e servizi pubblici e, ovviamente, Forze Armate, le quali registrarono un primo aumento nel corso del 1941 e successivamente un’impennata con l’entrata diretta in guerra. Le Forze Armate statunitensi dalle poche centinaia di migliaia del 1939[6] arrivarono a mobilitare un totale di 16 milioni di uomini nel corso dell’intero conflitto[7]. Tali effettivi vennero reperiti in prima istanza dalla massa dei disoccupati, l’esercito industriale di riserva, che nel 1939 si attestava ancora sopra al 15% (grafico 2), dai sottoccupati e dagli impiegati in agricoltura che nel 1944 risultavano diminuiti di 2 milioni addetti, mentre nel settore bancario e nel commercio rimasero sostanzialmente stabili.

Questo enorme dispiegamento di lavoratori e militari sotto la spinta dell’economia di guerra, poneva la problematica questione della loro riallocazione al termine del conflitto, la quale presentava complessità ancora maggiori a seguito del rapido sviluppo tecnologico degli impianti e dei macchinari industriali, con relativo sensibile aumento della produttività del lavoro. Ciò che Pierre George definisce la “razionalizzazione” delle forze produttive, indotta dall’innovazione tecnologica, determinò una generale diminuzione delle ore di lavoro per unità di prodotto, con inevitabili riflessi negativi sui livelli occupazionali. Ad esempio, se ad inizio conflitto erano necessarie 600.000 ore per costruire una nave della classe Liberty ship[8] e 35.400 per un aereo Boeing B-17 Flying Fortress, meglio noto come “fortezza volante”, nel 1944 si erano ridotte rispettivamente a meno di 400.000 e 18.700.

Conseguentemente, ciò creò maggiori problematiche al riassorbimento dei 18 milioni di lavoratori, lavoratrici e militari[9], nel contesto dell’economia di pace del Dopoguerra, la quale dovette anche affrontare una complessa e mastodontica riconversione partendo dall’iniziale e fondamentale questione della tipologia di struttura economica da perseguire.

L’economia di guerra era stata caratterizzata da una sensibile espansione del settore pubblico nell’economia e da un controllo del governo Roosevelt sulle produzioni, seppur principalmente dal lato della domanda. Il suo successore, Harry Truman (1945-53), subentrato alla sua morte nell’aprile del 1945, benché democratico anch’egli, optò per una decisa svolta liberista restituendo al settore privato l’intero apparato produttivo pubblico, comprese le fabbriche impiantate durante il conflitto dalle agenzie federali con fondi pubblici, per far fronte alle necessità di guerra.

Dopo la lunga parentesi della presidenza Roosevelt, caratterizzata dal tentativo di introdurre l’intervento dello stato nell’economia, prima, in parte fallendo con il “New Deal”, e successivamente, riuscendoci con l’economia di guerra, la riconversione di quest’ultima avverrà all’insegna del liberalismo economico totale, nel cui contesto trarranno grandi giovamenti i trust nazionali, tant’è che già nel 1947, le principali 250 grandi aziende statunitensi arrivarono a possedere i 2/3 dell’apparato produttivo nazionale.

Conclusioni

Alla luce delle evidenze fuoriuscite dal nostro caso di studio possiamo concludere che risultò, quindi, l’economia di guerra, non il “New Deal”, a mettere fine alla decennale depressione statunitense. Tantomeno quest’ultimo riuscì a modificare in modo sostanziale la distribuzione del potere all’interno della società e dell’economia statunitense, accertato che determinò solo un piccolo, seppur significativo, beneficio per i ceti sociali più colpiti dalla Grande depressione.

L’economia di guerra non risultò tanto un trionfo della libera impresa, quanto il risultato dell’attività di finanziamento del governo che infatti registrò un eccezionale aumento del debito pubblico, il quale, in rapporto al Pil, come visto passò dal 40% del 1938 ad oltre il 120% nel 1945 (grafico 4). Viceversa, per tutto il periodo del “New Deal” la disoccupazione risultò alta (grafico 2), mentre i consumi, gli investimenti e le esportazioni nette, i pilastri della crescita economica, rimasero su livelli bassi.

In definitiva, il forte sviluppo dell’industria militare necessario per sostenere il fronte di guerra europeo e quello pacifico, la riorganizzazione del lavoro e l’aumento delle produzioni trainato dalla mastodontica domanda federale e dalla crescita dell’export, anche di prodotti alimentari, verso i Paesi sostenuti da Washington, vale a dire l’economia di guerra del 1941-45, si rivelarono fattori fondamentali nell’ascesa degli Stati Uniti a ruolo di superpotenza mondiale, decretandone il definitivo sorpasso ai danni dell’Impero britannico, dopo aver compiuto quello in campo economico già al termine della Prima Guerra Mondiale.

Leadership consacrata proprio in quegli anni alla Conferenza di Bretton Woods del luglio 1944, durante la quale gli Usa capitalizzarono tutto il loro peso geopolitico, economico e militare riuscendo a far elevare il dollaro a moneta di riferimento degli scambi internazionali. Tali storici accordi portarono inoltre all’introduzione delle parità fisse fra le divise e della convertibilità del dollaro in oro, il cosiddetto Gold Exchange Standard (1944-71), che consenti alla valuta statunitense di assurgere alla funzione di moneta di riserva per le Banche centrali.

Inoltre, le sedi del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, istituzioni internazionali finanziarie fondate proprio in quel consesso a garanzia dell’ordine internazionale finanziario a guida statunitense, non casualmente furono stabilite a Washington.

Vennero in pratica gettate la basi per il conseguimento della leadership globale, prima condivisa con l’URSS durante il Bipolarismo e la Guerra Fredda, e successivamente esercitata in proprio dagli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, nella fase del dominio unilaterale. Unilateralismo che, peraltro, negli ultimi anni hanno iniziato a mettere in discussione le strategie delle nuove potenze emergenti che, raccolte nei Brics, anelano ad un ordine internazionale su base multipolare.

Nell’ottica di cercare di fornire una lettura della vicenda dell’economia di guerra statunitense della Seconda Guerra Mondiale attualizzata e contestualizzata ai paesi direttamente coinvolti nell’attuale conflitto in Ucraina, possiamo ricavare interessanti indicazioni in particolare rispetto alla situazione della Russia.

L’economia di guerra parziale adottata sino ad aggi dalla Russia mette in risalto, oltre ad importanti divergenze, anche alcuni significativi parallelismi con la situazione sopra analizzata, in relazione soprattutto alla tenuta stessa dell’economia russa durante il 2022 e addirittura alle performance economiche, secondo il Fmi (tab. 5), superiori, nonostante le sanzioni occidentali, a quelle dei paesi europei del 2023 e, in base alle previsioni di luglio scorso, anche del 2024. Ciò in quanto la dinamica economica russa, oltre alla capacità di aver reindirizzato l’export energetico, è legata come negli Usa del 1941-'45 alla cospicua domanda pubblica e alle produzioni del settore statale che fanno leva su un sensibile deficit di bilancio, finanziato però attraverso le riserve monetarie accantonate nei fondi sovrani di Mosca, negli anni precedenti al 2022, quindi, almeno sino ad oggi, senza gravare eccessivamente sul debito pubblico

La Russia inoltre, come gli Stati Uniti durante il conflitto mondiale, non ha al momento subito importanti distruzioni sul proprio territorio e l’apparato produttivo è stato sensibilmente ampliato, soprattutto in relazione alle produzioni belliche, e soffre di congiunturale carenza di manodopera che ha comportato, al pari degli Usa del 1941-'45, un significativo aumento dei salari e degli stipendi.

Ugualmente, è verosimile che al termine del conflitto al governo russo si presenti il problema della conversione della parziale economia di guerra sino ad oggi adottata, opera che tuttavia risulterà probabilmente meno complessa sia per la minor entità dello sforzo produttivo destinato alle attività belliche che per il più contenuto numero di militari e operai mobilitati.

È significativo, in conclusione, segnalare che le principali voci dell’export dell’economia di guerra integrale degli Usa del 1941-'45 erano rappresentate da prodotti manifatturieri di vario genere e armamenti, mentre quello attuale della Russia si basa sui prodotti energetici e minerari, grezzi e semilavorati, quindi a minor valore aggiunto[10].

Note

[1] “Insubordinazione e sviluppo. Appunti per la comprensione del successo e del fallimento delle nazioni” di Marcelo Gullo, Fuoco Edizioni, 2014. Cap. 9: Corea del Sud: il caso testimone. Pag. 185

[2] “L’economia degli Stati Uniti” pagg. 93-94. Autore: Pierre George. Editore: Garzanti 1960

[3] Procedimento definito dagli economisti come pump-priming, riassetto per assicurare la ripresa delle aziende in difficoltà mediante la concessione di crediti e medianti acquisti.

[4] “L’economia degli Stati Uniti” pag. 96. Autore: Pierre George. Editore: Garzanti 1960

[5] Il “Lend-Lease Act”: espediente legislativo adottato l’11 marzo del 1941 dal Congresso e dal Presidente degli Usa. Inizialmente, lo scopo era di soccorrere (con idonei mezzi finanziari, rifornimenti di materiali bellici e materie prime), durante la Seconda guerra mondiale, senza rompere formalmente la propria neutralità, quegli stati europei ed extraeuropei che seguivano una politica giudicata conforme agli interessi degli Usa. In seguito all’entrata un guerra degli Usa (8 dicembre 1941), la legge servì a mantenere quei soccorsi fino al raggiungimento dei comuni obiettivi militari e politici. La legge attribuiva al presidente Usa il potere di stabilire non solo i materiali in questione, ma anche le modalità di rimborso da parte dei Paesi beneficiari; bastava che queste fossero, a discrezione del presidente, dichiarate soddisfacenti. Fonte Enciclopedia Treccani on-line

[6] Nel 1939 l’esercito Usa, la forza armata più numerosa era formata da poco più di 170.000 uomini. Fonte

[7] Durante il periodo di guerra effettiva, più di 16 milioni di statunitensi servirono nelle United Statea Armed Forces, dei quali 290.000 morirono in combattimento e 670.000 rimasero feriti. Fonte

[8] Liberty ship: mastodontico programma di costruzione di grandi navi cargo che avevano la funzione di trasportare ai paesi alleati approvvigionamenti per far fronte allo sforzo bellico e alle necessità delle popolazioni

[9] Fonte: l’Economia degli Stati Uniti, pag. 100. Autore: Pierre George. Garzanti edizioni

[10] Misura l’import-export della Russia, settore per settore. Fonte

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03/09/2024

L’industria militare europea chiede mano libera. Lo dice Draghi

Domani, mercoledì 4 settembre, Mario Draghi a Bruxelles discuterà a porte chiuse con la Von der Leyen ed altri dirigenti europei il suo rapporto stilato a giugno sul complesso militare-industriale europeo e la sua urgenza di avere semaforo verde nell’accesso ai finanziamenti e alle concentrazioni industriali.

Il rapporto di Draghi segna indubbiamente un inquietante salto di qualità nella prevalenza in Europa dell’economia di guerra e del keynesismo militare in questa fase storica.

Di fronte alla recessione industriale, i grandi gruppi del complesso militare-industriale europeo sentono che, come negli anni ‘30 del secolo scorso, è arrivata di nuovo la loro grande occasione per chiedere e avere tutto quello che vogliono dai governi europei.

A rivelare il vertice di domani “riservato” tra Draghi e Von der Leyen, è stato il giornale statunitense Politico.

Nel rapporto di Draghi, scrive Politico, le aziende della difesa del continente dovrebbero avere pieno accesso al denaro dell’UE, mentre le fusioni non dovrebbero essere bloccate indipendentemente dai problemi di concorrenza, secondo una bozza di capitolo di un rapporto sulla competitività preparato dall’ex primo ministro italiano.

“La base industriale della difesa dell’UE sta affrontando sfide strutturali in termini di capacità, know-how e vantaggio tecnologico. Di conseguenza, l’UE non sta tenendo il passo con i suoi concorrenti globali”, ha avvertito Draghi nella bozza.

“Con il ritorno della guerra nelle immediate vicinanze dell’UE, l’emergere di nuovi tipi di minacce ibride e un possibile spostamento dell’attenzione geografica e delle esigenze di difesa degli Stati Uniti, l’UE dovrà assumersi una crescente responsabilità per la propria difesa e sicurezza”, si legge nella bozza del documento.

La bozza faceva riferimento a diverse sfide affrontate dal settore della difesa dell’UE, tra cui la spesa pubblica militare insufficiente: l’UE nel suo complesso spende circa un terzo di ciò che gli Stati Uniti spendono per la difesa, ha affermato Draghi nella sua relazione.

Le aziende europee di armi operano anche in piccoli mercati interni, mentre i paesi dell’UE non si coordinano sugli approvvigionamenti e dipendono per l’80% da fornitori internazionali, in gran parte dagli Stati Uniti.

Le raccomandazioni includono l’introduzione di un “principio di preferenza europea” per incentivare le soluzioni di difesa europee rispetto ai concorrenti; definire un modello di governance tra la Commissione, il Servizio europeo per l’azione esterna e l’Agenzia europea per la difesa; e infine la creazione di una “Autorità per l’industria della difesa” per gli appalti a livello centrale per conto dei paesi dell’UE.

“L’autorità sarebbe gestita dalla Commissione europea e co-presieduta dall’Alto Commissariato Generale/Capo dell’Agenzia Europea per la Difesa e dalla Commissione”, si legge nel documento. “Sarebbe consigliato da gruppi settoriali specifici composti da rappresentanti dell’industria e degli Stati membri dell’UE”.

Non è una novità che la nuova Commissione europea stia puntando a forzare le normative esistenti per muoversi più decisamente sul piano della politica militare e industriale dell’Unione. “Muovendosi all’interno di ciò che i Trattati consentono, l’istituzione di un Commissario per lo spazio e l’industria della difesa potrebbe garantire il corretto rafforzamento delle politiche industriali, normative e finanziarie a livello comunitario” scrive la newsletter Affari Internazionali.

Una sezione della relazione di Draghi che si occupa dell’industria della difesa, chiede poi a Bruxelles di rimuovere le barriere per le aziende della difesa ad accedere ai finanziamenti dell’UE. Ha proposto di modificare le politiche di prestito della Banca Europea per gli Investimenti sull’esclusione degli investimenti nella difesa e di modificare i quadri di finanza sostenibile e ambientali, sociali e di governance dell’UE a beneficio del settore.

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14/07/2024

Autonomia differenziata. Oltre i Lep

Nell’organizzare l’opposizione (anche tramite richiesta di referendum) verso la legge sull’autonomia differenziata si sta evidenziando con grande forza il tema dei LEP (Livelli Essenziali di Prestazioni) che dovranno essere stabiliti per costituire una base uniforme alle residue erogazioni di stato sociale: sanità, scuola.

Al riguardo della legge approvata in questi giorni si rileva però un tema che non appare al centro del dibattito ma che rappresenta probabilmente il “cuore” della vicenda: il riferimento è alle materie di cui le Regioni possono richiedere l’acquisizione di competenze nelle materie “No Lep”.

La regione Veneto ha così immediatamente avanzato richieste di maggiore autonomia nelle 9 materie “non Lep”, cioè quelle per le quali non è necessario che lo Stato stabilisca prima i Livelli essenziali di prestazione.

Fra queste oltre alla previdenza complementare, il coordinamento della finanza pubblica, le banche (Casse di Risparmio, Banche di credito rurale, ecc.) spicca la richiesta della piena competenza sul commercio estero e i rapporti con l’UE.

Il tema dei rapporti con l’estero è particolarmente delicato e specificatamente lo è ancora di più al riguardo del Veneto.

Il tessuto industriale veneto (come in parte quello lombardo) è composto da aziende di media/piccola dimensione nella generalità avanzate tecnologicamente e quasi completamente complementari e sussidiarie all’industria tedesca.

Per fare un esempio i 20,9 miliardi di merci che vengono esportate dal Veneto verso la Germania sono superiori ai 16 miliardi dell’export canadese.

Questo dato indica alcune questioni:

1) l’orientamento produttivo delle industrie venete è strettamente legato a quello delle industrie tedesche e in particolare alla Baviera e al Baden Wurttenberg. Se come pare la Germania deciderà di innalzare la propria quota di PIL riservata all’armamento è evidente che avremo aspetti di riconversione industriale che toccheranno l’insieme delle filiera di là e al di qua delle Alpi. Il Veneto (e la Lombardia) potrebbe così legarsi ad una economia di guerra indipendentemente dalle scelte generali del Paese;

2) il primo punto pone oggettivamente in discussione l’idea della programmazione economica a livello nazionale (e il rapporto con l’Europa) e di intervento pubblico in economia (mentre il governo procede a tentoni nel pieno della confusione come nel caso della cessione di ITA, delle acquisizioni in siderurgia e a cessioni improprie come nel caso della Rete Tim passata al fondo KKR in uno scenario inedito in Europa).

Questo tipo di analisi rafforza ulteriormente la necessità di combattere a fondo questo pericoloso stato di cose in atto cercando anche di far comprendere come si tratti di un tassello del cambiamento che la destra ha in programma sul tema del rapporto tra governo e democrazia.

Privatizzazione e autoritarismo nell’esercizio di un potere fondato sulla frammentazione dello Stato anche sul piano delle relazioni internazionali (negli aspetti che di più contano) così la destra intende saldare il quadro di modificazioni costituzionali: una direzione di marcia di variazione profonda del concetto di governabilità che dovrà essere fermato anche se a sinistra, nel passato più recente, ci si è mossi aprendo la strada con riforme portate avanti con il solo scopo di inseguire l’agenda dell’avversario (come fu nel caso della riforma del titolo V).

Il recupero dell’autonomia progettuale della sinistra in particolare rispetto al quadro europeo proprio sul punto governabilità/democrazia appare il primo passaggio decisivo per affrontare una situazione che si presenta molto difficile.

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04/07/2024

L’Italia vuole ordinare più di 550 carri armati dalla tedesca Rheinmetall

Come fanno le azioni delle industrie degli armamenti a guadagnare il 3-4% in un solo giorno. Semplice! I governi acquistano consistenti armamenti dai privati, la notizia viene messa in circolazione et voilà il gioco è fatto.

Il quotidiano economico tedesco Handesblatt, ha rivelato ieri che l’azienda di armamenti tedesca Rheinmetall sta per ricevere il più grande ordine della sua storia. Secondo le dichiarazioni di due addetti ai lavori dell’Handelsblatt, lo Stato italiano vuole ordinare il carro armato principale Panther e il veicolo da combattimento di fanteria Lynx sviluppati dall’azienda di armamenti di Düsseldorf. Il gruppo sta collaborando con il produttore italiano Leonardo.

Mercoledì pomeriggio, entrambe le società hanno confermato la costituzione della joint venture in un comunicato. “Le sinergie tecnologiche e industriali tra Leonardo e Rheinmetall sono un’opportunità unica per sviluppare carri armati e veicoli di fanteria all’avanguardia”, ha dichiarato l’amministratore delegato di Leonardo Roberto Cingolani nel comunicato stampa.

Secondo l’amministratore delegato di Rheinmetall, Armin Papperger, entrambe le aziende vogliono servire il mercato italiano e altri Stati partner che necessitano di modernizzazione nel campo dei sistemi di combattimento.

L’Handelsblatt aveva già riferito in esclusiva sulla joint venture e sull’ordine mercoledì mattina. Di conseguenza, le azioni di Rheinmetall sono cresciute di valore di oltre il quattro percento. Le azioni di Leonardo hanno guadagnato a volte più del tre per cento.

L’economia di guerra si sta rivelando un magnifico affare per le aziende private di armamenti. Gli stati spendono i soldi pubblici per comprare le armi e le aziende, oltre che con i soldi pubblici, si arricchiscono anche “sui mercati” con la sopravalutazione delle loro azioni in Borsa. Tutti contenti di spingere l’Europa – e forse l’intera umanità – di nuovo verso il baratro della guerra.

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07/06/2024

Brancaccio - Un'Europa ancor più guerrafondaia dopo le elezioni europee?

“Una figura come Draghi potrebbe far cadere gli ultimi steccati e indurre pezzi di socialdemocrazia ad aderire a una nuova maggioranza pro-guerra che includa non solo popolari e liberali ma anche la destra estrema di stampo atlantista. Una maggioranza propugnatrice di un’Europa ancor più protezionista, bellicista e imperialista. Stiamo correndo questo tipo di rischi”. Su Radio Popolare del 6 giugno 2024 un’intervista all’economista Emiliano Brancaccio, autore dei libri “Le condizioni economiche per la pace” (Mimesis 2024) e “La guerra capitalista” (Mimesis 2022).


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05/06/2024

L’economia di guerra dilaga in Germania. Anche Lufthansa si butta nel settore militare

In una Germania alle prese da tempo con la recessione, è l’economia di guerra a fare da volano. Sono ormai molte le aziende che si sono gettate a capofitto nel settore militare. Ultima in termine di tempo è la compagnia aerea Lufthansa che intende utilizzare la nuova area di business della Difesa per avanzare in aree sensibili.

Finora, la controllata Lufthansa Technik (LHT) ha servito solo aerei civili, compresi quelli delle forze aeree ma ora – secondo il quotidiano economico tedesco Handesblatt – l’azienda con sede ad Amburgo sta guardano alle attrezzature militari.

“Vogliamo lavorare su sistemi militari per il trasporto di armi”, ha detto a Handelsblatt Sören Stark, CEO di Lufthansa Technik. Naturalmente, questa è una novità per l’azienda. “Ma è stato parte del nostro DNA per decenni comprendere e supportare i nuovi velivoli e la loro tecnologia nel più breve tempo possibile”.

LHT guarda con interesse al programma di spesa di 100 miliardi stanziati dal governo Sholtz per la Bundeswher. Ad esempio, l’azienda sta facendo domanda per la manutenzione e la riparazione dei 30 bombardieri F-35 statunitensi ordinati e dei 60 elicotteri da trasporto modello CH-47 Chinook.

Anche il lavoro al di là della manutenzione e della riparazione è un problema, ad esempio con il successore dell’aereo radar Awacs. La Nato intende sostituire i precedent Boeing E-3 con i moderni E-7. “Potremmo anche modificare il Boeing 737 civile con l’aereo E-7 della NATO negli stabilimenti di Amburgo in un breve arco di tempo” afferma Stark.

Secondo quanto riporta il German County Foreign Relations, il ministero della Difesa tedesco, nel 2024 avrebbe a disposizione 51,8 miliardi di euro, 1,7 miliardi in più rispetto all’anno scorso. Insieme al Fondo speciale di 100 miliardi di euro, che fa parte della Zeitenwende annunciata dal Cancelliere Olaf Scholz per rivedere la politica estera e di sicurezza della Germania, e alle quote di altri ministeri, significa che il governo federale intende mantenere la promessa fatta alla NATO di spendere il 2% del PIL per la difesa nel 2024.

L’obiettivo del 2% della NATO richiederà tuttavia circa 85 miliardi di euro di spesa per la difesa nel 2024.

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19/05/2024

“Idee di pace” sull’Ucraina mentre preparano la guerra mondiale

Secondo le parole del Ministro della guerra di sua maestà britannica, Grant Shapps, riportate dal Daily Mail, i «dividendi della pace sono terminati» e la crisi ucraina spinge i paesi europei a «riavviare» (come se si fossero mai fermate) le proprie macchine militari.

E a che ritmi! Per la fine del 2024, almeno due terzi dei paesi NATO arriveranno al 2% del PIL per le spese di guerra, di cui non meno di 1/5 dovrà essere indirizzato alla elaborazione di nuove tecnologie e apparecchiature militari. La stessa Gran Bretagna, ha detto il premier Rishi Sunak, da qui al 2030 arriverà al 2,5% del PIL, nel quadro del passaggio a una «economia di di guerra».

Da parte sua, la Commissione europea ha destinato quasi 2 miliardi di euro all’incremento della produzione militare nei paesi UE; 500 milioni andranno alla produzione di proiettili d’artiglieria: quelli, tanto per intendersi, di cui c’è tanta fame a Kiev.

Tant’è che l’obiettivo dichiarato è quello di produrre, entro fine 2025, 2 milioni di proiettili l’anno da destinare all’Ucraina – oggi nei paesi NATO ci sono 16 diversi tipi di sistemi di artiglieria da 155 mm, i cui proiettili non sono intercambiabili – per evitare che Kiev si scontri con quello che il capo del Comitato militare NATO, Rob Bauer, definisce un vero e proprio «incubo».

Questo, tanto per specificare quali siano gli “intendimenti di pace” UE a proposito della crisi che ci sta portando verso una guerra planetaria.

Non è tutto. In aggiunta ai quattro contingenti multinazionali presenti ormai da almeno sette anni in Polonia e nei paesi baltici, ora anche Romania, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria si apprestano ad accogliere simili “missioni di pace”.

Sul “fronte interno”, in Germania si parla da un po’ di tempo di reintrodurre la leva obbligatoria, mentre sappiamo bene come stia procedendo, anche in Italia, la “militarizzazione ideologica” a ogni livello, e in particolare nei confronti dei giovani, a partire dalle scuole elementari. Svezia e Polonia dichiarano di voler il dislocamento di armi nucleari USA sui propri territori.

La Gran Bretagna ha in programma di sostituire quattro sommergibili atomici classe “Vanguard” (SSBN: Ship Submersible Ballistic Nuclear) con altrettanti battelli classe “Dreadnought”, tre dei quali già in fase di realizzazione. Londra allargherà anche la produzione di testate nucleari da 225 a 260 unità, più o meno al livello della Francia. Nel frattempo muore di inquinamento, ma se ne frega...

La Francia ha annunciato la realizzazione di SSBN di ultima generazione “SNLE 3G”, di cui tre esemplari dovranno essere varati entro il 2035, in sostituzione degli attuali in servizio, classe “Triomphant”.

D’altro canto, secondo quanto dichiarato ancora dal Chair of the NATO Military Committee, Rob Bauer, i paesi dell’Alleanza sono tenuti a fornire a Kiev armi anche a detrimento degli obblighi NATO di mantenere il livello delle proprie riserve belliche: «Mi rivolgo agli alleati: se dovrete scegliere tra raggiungere gli obiettivi di capacità NATO, o sostenere l’Ucraina, dovrete sostenere l’Ucraina».

«Fortunatamente», ha detto l’olandese (fortunatamente per chi?) «sono in arrivo ulteriori aiuti, estremamente tempestivi. Perché in Ucraina il tempo non si misura in giorni, settimane o mesi, ma nella vita delle persone», aggiungendo che la NATO sosterrà la junta nazigolpista «ogni giorno a venire», omeliando poi con i classici sermoni su «democrazia e autocrazia», con la prima che è sempre e solo quella liberal-occidentale e la seconda, per definizione, quella asiatica, che intende «distruggere l’ordine mondiale».

Sono gli stessi termini usati qualche giorno prima da Jens Stoltenberg nel proclamare che «bisogna fare di tutto perché l’Ucraina vinca». In caso contrario, «non ci sarà nulla da ricostruire in termini di un’Ucraina libera e indipendente».

“Libera” di mandare al macello tutti i suoi uomini in grado di tenere in mano un’arma, che siano anziani, disabili, feriti, o non dispongano di sufficiente denaro sonante per comprarsi l’esenzione; “indipendente” dalla volontà dei propri cittadini, che non ne vogliono più sapere della guerra, ma che si ritrovano a esser accalappiati anche nei paesi stranieri in cui avevano trovato scampo, sottomessi a una persona che dal 20 maggio si avvale di una posizione illegittima per le stesse “regole” liberal-borghesi.

Quindi, ha detto Stoltenberg, si deve far sì che il sostegno alla junta di Kiev abbia «un carattere il più possibile stabile e potente, e speriamo di prendere decisioni in merito anche al vertice NATO di luglio».

Ecco dunque come UE-NATO-USA pensano di organizzare “conferenze di pace sull’Ucraina” in giro per l’Europa. Lo stesso Ministro degli esteri di un paese NATO quale l’Ungheria, Peter Szijjarto, ha dichiarato a RIA Novosti che «la nuova proposta NATO si fonda sull’assunto che la guerra vada continuata fino alla vittoria dell’Ucraina. Sia la Gran Bretagna che la NATO legano la fine della guerra a tale risultato, assolutamente irreale».

In ogni caso, ha dichiarato a RT il politologo Konstantin Blokhin, anche se l’Occidente inizia a parlare più concretamente di “iniziative di pace”, tutto ciò «non è che un espediente», cui non seguirà «alcuna definitiva rinuncia» al sostegno a Kiev.

Una pausa nelle azioni belliche, a parere di Blokhin, «è necessaria alla NATO affinché il complesso militare-industriale occidentale sia in grado di ripristinare la situazione, pompando quante più armi verso l’Ucraina. I paesi europei si orienteranno sull’economia di guerra, dato che gli USA non si preoccupano nemmeno di nascondere di voler ridistribuire il proprio peso finanziario per il militare» dall’Ucraina verso la Cina.

Così che toccherà all’Europa «sostenere Kiev praticamente da sola. Una vera rinuncia occidentale a sostenere il regime di Kiev è possibile solo con la completa sconfitta e capitolazione» della junta golpista.

È così che, avendo in mente anche le programmate “iniziative di pace” ukro-occidentali – in Svizzera o altrove – che escludano la partecipazione russa, Vladimir Putin ha detto chiaro e tondo che Mosca non prenderà in considerazione idee sull’Ucraina basate su «desiderata», ucraini o occidentali.

A questo proposito, il ricercatore Anton Bredikhin, ha dichiarato a news-front.su che «già da tempo l’Occidente ci propina piani irreali sull’Ucraina, impossibili da realizzare. Di fatto, la Russia dovrebbe capitolare: cosa su cui non possiamo esser d’accordo».

Mentre sul terreno le forze militari russe continuano ad avanzare, l’Occidente cerca di “salvare la faccia” di fronte ai propri cittadini, per convincerli che i soldi destinati a Kiev non siano stati spesi invano. Ma, in ogni caso, quei soldi non raddrizzeranno la situazione e «continuerà a mantenersi la tensione internazionale», così che a Ovest si dovrà cercare «un nuovo approccio alla soluzione del confronto con la Russia».

L’Occidente non ha alcuna intenzione di retrocedere dai propri “principi”, ha detto Bredikhin: ne è conferma l’attentato al premier slovacco Robert Fitso, che deve servire da monito anche per altri esponenti europei che dovessero esprimere le sue stesse considerazioni sui rapporti con Mosca e le forniture di armi a Kiev.

Dalle parti di Bruxelles, Washington o Kiev, insomma, praticano la massima biblica del «Oggi comincerò a ispirare paura e terrore di te a tutti i popoli che sono sotto il cielo, i quali, all’udire la tua fama, tremeranno e saranno presi d’angoscia per causa tua» (Deuteronomio, 2-25). Veri cristiani, educati al credo della “democrazia” liberal-borghese, ridotti a predicare la guerra.

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