Sono stati resi noti i risultati delle elezioni politiche svoltesi in Iraq l’11 novembre, le seste dopo la caduta del regime baathista per mano dell’imperialismo statunitense che, si ricorda, da allora, mantiene una significativa presenza militare nel paese.
Rispetto al contesto e alle occasioni precedenti, gli elementi di tensione che hanno accompagnato la tornata elettorale sono stati minori, anche se non irrilevanti.
Gli USA hanno intensificato la loro pressione sulle autorità centrali affinché le Forze di Mobilitazione Popolari (PMF), emerse durante la lotta all’Isis, vengano definanziate e disarmate – similmente a come stanno facendo con il Libano per Hezbollah – in quanto ritenute strumento di influenza dell’Iran, nonché responsabili di attacchi contro i militari statunitensi; nei mesi precedenti, tali pressioni hanno fruttato il ritiro di una legge che avrebbe ulteriormente elevato lo status delle PMF, già ora regolarizzato, all’interno delle forze armate irachene. Tuttavia di disarmo non se ne parla.
Inoltre, il movimento sciita capeggiato da Moqtada al-Sadr, dopo aver fatto dimettere in massa nel 2022 i propri parlamentari, che costituivano la maggioranza relativa della camera uscente, ha effettuato un boicottaggio attivo di queste elezioni. Da notare che i sadristi hanno combattuto per anni, con la loro milizia, “l’esercito del Mahdi”, l’occupazione USA, ma si sono mostrati molto ostili anche nei confronti dell’Iran.
L’affluenza è stata quasi del 56%, corrispondente a circa 11,8 milioni di elettori, ancora non ai livelli dei picchi registrati alle prime tornate post-baathiste, ma in forte aumento rispetto al 41% registrato nel 2021, segnalando, così, una decisa stabilizzazione del sistema, dopo gli anni bui dell’emersione dell’Isis. Significativo che i picchi positivi di affluenza si siano verificati nell’area curda, mentre il boicottaggio sadrista si sia fatto sentire principalmente a Baghdad e nell’area di Sadr City.
I risultati, come atteso, hanno visto la netta prevalenza delle liste sciite, confessione maggioritaria nel paese. Secondo i principali analisti, il maggior peso lo avrà la “Coalizione per la Ricostruzione e lo Sviluppo”, guidata dal Primo Ministro Al Sudani, che ha ottenuto 46 seggi, presentandosi con un profilo autonomo, meno legato all’Iran, rispetto agli ex-alleati del “Quadro di Coordinamento”, i quali, nell’insieme, ottengono 126 seggi.
Le liste singole facenti parte di tale alleanza, tuttavia, sono ben al di sotto di Al Sudani: ad esempio, la “Lista legge e ordine” dell’ex-Primo Ministro Nouri al-Maliki è a quota 35–37 seggi, mentre “Alleanza Fatah” e “Movimento Sadiqoun”, più organici alle PMF, ne totalizzano una quarantina in due.
La minoranza sunnita ottiene 55 seggi, divisi fra Taqadum, 28, Al-Siyada 17 ed altri minori.
Sul fronte curdo, grande risultato per il Partito Democratico del Kurdistan (PDK) dei Barzani, egemone nelle province di Erbil e Duhok, che conquista 26 seggi, mentre sottotono, dopo gli scontri interni dei mesi precedenti, l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), egemone nella provincia di Sulaymaniyah, che si ferma a 15 seggi.
I punti di tensione fra PDK e PUK non mancano, in quanto il primo è più legato a Turchia e USA, mentre il secondo è più legato all’Iran ed ospita, nelle aree montuose sotto la sua amministrazione, il PKK. Questi due partiti, tuttavia, riescono a superare le divisioni quando si tratta di proteggere interessi comuni, quali mantenere il controllo a livello di governo regionale sulle risorse petrolifere dell’area curda, contrattare posti nel governo centrale e difendere la collocazione amministrativa nella Regione Autonoma Curda di alcune zone contese con altre province.
A proposito del PKK, nel 2024 sono stati resi illegali ben tre partiti ritenuti ad esso legati, impedendo ogni rappresentanza parlamentare alla sua area politica.
Nulla da fare anche per il Partito Comunista Iracheno ed altri partiti che si caratterizzano per essere al di sopra delle confessioni, penalizzati anche dal boicottaggio dei sadristi, i quali in passato li avevano accolti nella propria coalizione, permettendone l’elezione di qualche esponente.
Il sistema politico iracheno, infatti, come si è visto, si presenta come diviso su base confessionale de facto, anche se non de jure, come quello libanese, Ciò provocò, nel 2019, le dure proteste di massa del cosiddetto movimento tishreen, il quale, pur duramente represso, causò comunque la caduta di un governo dal profilo decisamente filoiraniano e la conseguente emersione, nel campo sciita, di figure “moderate” come Al-Sudani.
Ora si prospetta il solito esecutivo di coalizione ampissimo, guidato dallo stesso Al-Sudani, il quale potrà sicuramente contare su un consolidamento degli assetti di potere che lo sostengono, dato dalla maggiore affluenza elettorale ed anche dall’allontanamento dei tempi burrascosi delle guerre civili settarie.
Il primo esame serio da affrontare sarà, oltre alla gestione delle consuete schermagli fra PMF e truppe USA, la questione del ritiro di queste ultime dal paese, previsto per il momento per fine 2026, ma sempre soggetto a rinvii causati dall’emersione della “minaccia dell’Isis” di turno...
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