Che le istituzioni politiche occidentali – tutte, in ogni paese Nato – stiano correndo verso una centralizzazione dei poteri nei governi, cancellando i famosi “contrappesi” e ogni altro titolare di poteri, è certo.
Ovunque si posi lo sguardo il segnale è univoco. Possiamo prendere gli “ordini esecutivi” di Trump, i premier usa-e-getta di Macron, il rapporto di Crosetto, tutto va nella stessa direzione. Addio retorica sulla “democrazia”, si va alla guerra – poi magari non è la stessa, tra le due sponde dell’Atlantico – e quindi il pluralismo è un ostacolo per le “decisioni irrevocabili”.
Il problema è quale “cordata” si issa prima delle altre sull’incerto cucuzzolo del nuovo potere centralizzato. Tutta la “competizione politica” mainstream è ridotta ormai a questo.
Non perché esprimano “alternative” strategiche o almeno tattiche. Ma, come dice il proverbio, “comandare” – o avere l’impressione di farlo – “è meglio che...”. Poi, com’è noto, si piazzano meglio clientele, affari di famiglia, donne e uomini pronti a tutto.
In questo quadretto poco edificante è arrivato come una scossa immotivata il cosiddetto “attacco di Meloni al Quirinale”. I nostri lettori sanno bene che entrambe le parti non incontrano – diciamo così – il nostro favore. Il ruolo di “custode della Costituzione”, nello stile di Mattarella, assomigli più a quello di Hindenburg che non a una resistenza contro il “post-fascismo” nel Palazzo.
Il suo accompagnamento alle misure decise dal governo Meloni è sempre stato un assecondare correggendo qua e là, anche quando emergeva qualche aspetto chiaramente incostituzionale, lasciando caso mai il compito della reprimenda alla Consulta, se qualcuno vi avesse fatto ricorso.
Detto questo, “l’incidente” è un classico della politichetta di Palazzo. Un consigliere del Presidente, anzi, il più importante – tanto da essere l’unico a presenziare al “gabinetto di difesa” che ha deciso una svolta guerrafondaia drastica per toni ed impegni finanziari – durante una cena con alcuni amici si è lasciato sfuggire qualche frase sulle prospettive politiche future, apparentemente bloccate sul piano elettorale da una certa stabilità dei consensi nei confronti della Meloni.
Ma, per cambiare l’inerzia della “stabilità”, non avrebbe saputo far altro che auspicare “uno scossone salutare”, di origine più esterna che interna, tale da creare una condizione nuova e un rimescolamento delle carte.
Come accade spesso nel micromondo politico romano, la conversazione – avvenuta verosimilmente in un ristorante del centro – è stata colta da orecchie non innocenti ed è finita su un giornale di cui nessuno in genere si accorge (La Verità – boom! – diretta da Belpietro) come apertura di prima pagina con il titolo “Il piano del Colle per fermare Giorgia Meloni”.
Il capogruppo dei meloniani alla Camera riprende il titolo e chiede al Quirinale una smentita. Più che una smentita arriva una randellata e lo scontro diventa ufficiale.
Da osservatori esterni premettiamo cose quasi scontate. Il gioco “giornale dà notizia/politico la riprende” è vecchio come il cucco e, in casi come questo, è più facile il contrario (il partito politico delega a un giornale di area l’apertura delle ostilità). Che Belpietro sia “filorusso” è una barzelletta per scemi di guerra. Che Bignami – il capogruppo di FdI alla Camera – abbia deciso l’intemerata da solo, idem. Il ragazzo è noto per aver lasciato, come massima espressione della sua “autonomia”, solo l’idea di vestirsi da nazista in una festa tra amici.
Che Francesco Saverio Garofani – il consigliere del Colle “incriminato” – abbia espresso un parere lontano dal pensiero di Mattarella, anche. Stessa storia politica (democristiani approdati al PD), tanti anni di lavoro in comune, stessa cultura...
Ma un auspicio è una speranza, non un “piano”. Tanto più se riposto in dinamiche internazionali, magari economico-finanziarie, su cui l’Italia – Quirinale compreso – ha peso specifico uguale a zero. Testimonia insomma l’impotenza di un’istituzione – la Presidenza della Repubblica – che vede affermarsi un corso politico ritenuto negativo, ancorché legittimato dal voto.
Dunque resta da spiegarsi il perché di questa tempesta in una tazzina da caffè.
E a noi non viene in mente qualcosa di diverso dal ruolo che questo paese va assumendo nella dinamica di guerra che attraversa l’Europa. L’unico “piano” vero, in questi giorni, è quello presentato dal Consiglio Supremo di Difesa. Prevede una direzione di marcia, impegni finanziari pesanti, spese militari crescenti in un contesto di crescita economica zero e vincoli europei di bilancio ancora più stringenti. Ergo, “sacrifici” per la popolazione, tagli ulteriori alla poca spesa sociale residua, età pensionabile ancora più alta, assegni più magri, sanità ridotta ai pronto soccorso, ecc.
Una lunga serie di elementi che, per un governo “disinvolto”, appaiono una camicia di forza ben poco elastica. Gestire campagne elettorali vincenti con la palla al piede dei sempre più rigidi “vincoli esterni” diventerebbe problematico. Così come il “non fare nulla” di importante per non compromettere il silenzio-assenso di quella parte di elettorato.
Tanto più che le piazze hanno ripreso a farsi sentire con grande forza, in modo totalmente pacifico ma assolutamente chiaro. Un altro passo in avanti renderebbe forse irrecuperabile la distanza tra paese reale e questa gente da nulla, facendo emergere – è una speranza, non una certezza – anche una alternativa politica indipendente, addirittura “socialista” (se è stato possibile a New York e Seattle qualcosa vuol dire...).
Su un piano decisamente più alto, possiamo dire che la dinamica di guerra sta diventando anche qui un elemento dirimente, che inevitabilmente divide una classe politica complessivamente al di sotto di qualsiasi considerazione.
Pensiamo a muoverci a questa altezza, senza prestare più attenzione del dovuto – sapere cosa accade è sempre necessario – alle convulsioni interne ad una classe dirigente a corto di fiato.
Ci vediamo in piazza, venerdì e sabato.
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