È stata diffusa da qualche giorno la bozza della riforma universitaria promossa dalla ministra dell’Università Anna Maria Bernini. Uscita dalla commissione presieduta da Ernesto Galli della Loggia, che si era già distinta per le “Indicazioni 2025” indirizzate alla revisione dell’insegnamento nelle scuole dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione. Distinta per le tendenze guerrafondaie, suprematiste e razziste, ovvio.
Riguardo all’università, è innanzitutto il sistema di governance che vuole essere cambiato. Non perché quello modellato dalla riforma Gelmini, ormai 15 anni fa, non avesse ben assolto al compito di chiudersi alle richieste degli studenti, di lavorare in maniera verticistica e di aprirsi, se non asservirsi, agli interessi e profitti privati.
Ma perché in tempo di guerra (esterna e interna) c’è bisogno di limitare ulteriormente il dissenso, anche quello solamente possibile, e di cementare gruppi di potere in crisi egemonica, di imporre un maggior controllo centralizzato da parte dell’esecutivo, e infine di fare in modo che nulla possa ostacolare l’integrazione definitiva della ricerca nelle filiere belliche.
Analizziamo alcuni punti fondamentali. Il Consiglio di Amministrazione raggiunge la sua completa aziendalizzazione, in una revisione della composizione di un organo che non è più di certo collegiale, che non è più rappresentanza di una comunità accademica, quanto piuttosto espressione di una linea di comando aziendale, appunto.
Ma il tema, come già detto, non è tanto quello della quadratura dei conti. Dal punto di vista dei fondi, l’università mantiene la sua “autonomia”, ovvero la necessità di racimolare nella competizione tra atenei sul Fondo di Finanziamento Ordinario o tramite il benestare dei privati il necessario per erogare lezioni e finanziare attività di ricerca.
Il tema è semmai che questa autonomia non si traduca in uno spazio politico, cioè che questa linea di comando aziendale risponda a indirizzi strategici ben precisi decisi a Palazzo Chigi. Per questo, un suo componente sarà ora nominato direttamente dal ministero. Viene cancellata la rappresentanza del personale tecnico-amministrativo, con una grave lesione dei diritti dei lavoratori e della dialettica interna agli atenei.
Inoltre, anche la rappresentanza studentesca viene ridotta, del 50%: da due membri a uno. Non che in due si potessero cambiare le sorti di votazioni spesso blindate (per questo serve costruire mobilitazione fuori dalle stanze del CdA), ma così gli studenti diventeranno ancora di più semplicemente un “parere”, da ascoltare per norma di legge prima di passare al prossimo punto all’ordine del giorno.
Del resto, i componenti dei CdA saranno per lo più di nomina rettorale, e tra di essi ci saranno rappresentanti di enti locali. I rettori, poi, vedranno la propria carica allungata a 8 anni: più del Presidente della Repubblica, per capirci. Il Senato Accademico non potrà più sfiduciarlo, ma avrà solo la possibilità di riconfermarlo dopo 4 anni, senza tra l’altro offrire alternative.
Tra l’altro, lo stesso Senato sarà rivisto in una formula che vedrà ancora una volta il Rettore poter scegliere la maggior parte dei suoi componenti. A quest’organo rimarrà un solo potere, in pratica: quello di comminare sanzioni a studenti e docenti sulla base dei regolamenti approvati.
È questo, infine, il nodo centrale. Le mobilitazioni che hanno attraversato gli atenei negli ultimi mesi hanno messo in discussione non solo le scelte singole di ogni ateneo, ma l’integrazione del mondo accademico nelle filiere belliche e nel processo del riarmo e della difesa UE, oltre che di aumento delle spese militari come target NATO.
La classe dirigente è preoccupata dal fatto che le università sono ancora luoghi di dibattito e di formazione di una coscienza, civile e politica, per migliaia di giovani. Il governo esprime l’esigenza che gli atenei non siano luoghi democratici, in cui la comunità accademica possa determinare i valori e le decisioni da prendere. Serve che siano invece quanto più asserviti possibili a quel che viene deciso a Roma e Bruxelles.
È questo l’indirizzo che si legge nella bozza della riforma Bernini, e contro cui, dato appunto che l’unico vincitore è sostanzialmente il Rettore, potrebbe vedere saldarsi un’opposizione che unisca studenti, lavoratori e docenti, ampliando ulteriormente le alleanze sociali che si sono già viste nelle piazze per la Palestina.
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