di Jack Orlando
Barabanov, Korotkov; Il Nostro business è la morte; Nero ed.; Roma 2025; 241 pp. 18€
Gli uomini in mimetica camminano soli o a coppie dentro fitti banchi
di nebbia, a malapena si intravedono i campi desolati attorno alla
lingua di cemento. La colonna di fanti è accompagnata da moto da cross e
automobili civili senza più sportelli, cariche di individui armati col
volto coperto. Un drone riposa poggiato sull’asfalto.
Le immagini dell’esercito russo che completa la conquista di
Pokrovsk, se evitiamo il solito florilegio di interpretazioni mediatiche
campate per aria, offrono un’istantanea potente della guerra com’è
oggi, o forse come è sempre stata.
Qualcosa di inaspettato, di sporco e sgangherato simile alla “Nave dei
folli”. Nulla a che vedere con truppe che marciano ordinate e storie di
assalti eroici care a ogni propaganda bellicista. Il mondo delle trincee
è un mondo che sconquassa le geografie, mentali, materiali, morali, e
si impone come regno dell’assurdo. Solo nella coltre di questo disordine
una volontà politica può imporre mutamenti drastici delle condizioni
reali.
Il vociare provocato delle immagini di Pokrovks ricorda molto quello di
un’altra sventurata località: Bakhmut, altro regno dell’assurdo più
brutale, la cui contesa tra agosto ’22 e maggio ’23 gli è valsa il
soprannome di Tritacarne.
A farsi macellare in prima linea per conquistare la città c’erano ex detenuti, ora mercenari del famigerato gruppo Wagner.
Quegli uomini erano usciti apposta dai bagni penali, reclutati dentro
le prigioni direttamente da Evgenij Prigožin, chiacchierato capo dei
mercenari, con la promessa di soldi e libertà.
Anche con poca o nessuna esperienza militare, servivano a tamponare
l’emorragia di truppe che costava una battaglia fatta di assalti suicidi
e che anche un’organizzazione così potente aveva difficoltà a saturare.
Un episodio limite, ma che abbozza l’idea di cosa davvero fosse la Wagner.
Ed effettivamente proprio questa compagna mercenaria è un perfetto
laboratorio per osservare le traiettorie che la guerra ha assunto oggi,
senza mai cessare per un momento ma muovendosi lungo assi fluidi che
travalicano i confini facendo, ora più ora meno, fracasso.
Ed è una felice intuizione quella di tradurre il libro-inchiesta di
due giornalisti russi, Barabanov e Korotkov, che per anni hanno indagato
il fenomeno e raccolto testimonianze interne e documenti riservati.
Una storia che merita di essere raccontata già solo per la sua immensa
potenza narrativa, inscenando in veste russa una sorta di nuova Anabasi
di Senofonte. La tragica spedizione dei mercenari greci di Ciro verso la
conquista del trono di Persia e ritorno.
Ma soprattutto un lavoro giornalistico prezioso che è costato l’esilio
agli autori, al pari di molti altri colleghi (per altri invece il conto è
stato ancora più pesante), e che fa piazza pulita delle ricostruzioni
rabberciate di redazioni prone a un modus sciatto e servile, delle
ciarle di improvvisati “esperti” a caccia di follower.
Fino al 2022 pochi infatti, fuori dai circoli di cose militari,
avevano sentito parlare del Gruppo Wagner. Venivano alla ribalta con
l’invasione russa dell’Ucraina.
Eppure proprio in Donbass, otto anni prima in una guerra invisibile, avevano vissuto il loro battesimo del fuoco.
Impegnati da un lato a respingere le forze ucraine che tentavano di
recuperare il territorio delle neonate repubbliche di Donetsk e Lugansk
alle milizie che le difendevano, dall’altro a mettere ordine tra queste
ultime attraverso omicidi mirati e sabotaggi, nel tentativo di riportare
tutto sotto un possibile controllo russo.
Di fatto quel movimento che si era ribattezzato Primavera Russa
e che aveva portato, dopo Euromaidan, alla secessione del Donbass; che
in Occidente è sempre stato dipinto come un’univoca operazione del
Cremlino, è rientrato dentro un’eterodirezione moscovita proprio grazie
agli sforzi di entità grigie come l’allora sconosciuta Wagner.
Ma tra il Donbass prima del fronte congelato dagli accordi di Minsk e
quello furente dell’invasione su larga scala, la Wagner ha accresciuto
le sue fila e i suoi teatri operativi: impiegati in Siria come forze di
terra a supporto del regime assadista, sono quelli che strapperanno la
città di Palmira al Califfato Islamico.
Conquistano e proteggono pozzi petroliferi da cui ricavano grossi
guadagni, si spostano in Libia prendendo parte alla catastrofe
post-gheddafiana. Imbracciano le armi in Sudan, in Mali, nella
Repubblica Centrafricana.
Sono i responsabili dell’addestramento dei soldati e del contrasto allo
jihadismo nel Sahel. Ovunque il loro operato va intrecciandosi con
rapporti di potere, influenze diplomatiche ed estrazione di risorse:
nessuna retorica umanitaria, niente proclami roboanti, solo accordi
commerciali ed esecuzione di servizi.
Eppure se diversi paesi, sovente sotto governi appena instaurati in
una rapida concatenazione di golpe, si sono spostati nell’orbita russa e
un bel pò di truppe atlantiche, insieme ai residui di quel cancro
coloniale della Francafrique, sono state buttate fuori dal continente,
una discreta parte di responsabilità ce l’hanno questi mercenari.
E seppure dalle nostre parti si continua a leggerli come una diretta
emanazione di Mosca, preferiamo la più complessa lettura dei due autori,
per cui è molto difficile capire dove inizia il mandato esplicito dello
Stato e dove finisce l’ambizione personale di Prigožin nel perseguire
un’agenda di grandeur che vede fondersi insieme nazionalismo, affari,
geopolitica e interesse nazionale.
Tanto più che se le imprese della Wagner, molto più delle altre PMC,
ricordano quelle delle Compagnie di ventura della prima modernità; la
tragica parabola del capo e dei suoi sottoposti sembra emergere
direttamente dalla penna di Le Carrè.
C’è dell’incredibile in un Prigožin, piccolo delinquente appena
scarcerato, che si arrabatta con un chiosco di hot dog nella
ex-Leningrado del pieno collasso sovietico.
Un signor Nessuno che, in quella vasca di squali che è la
democratizzazione russa, scala i ranghi della società come ristoratore e
finendo per ottenere contratti milionari di forniture allo Stato,
inserendosi direttamente nell’ascendente cerchia di un giovane Vladimir
Putin.
Imprenditore gastronomico che mette su posticci cartelli mediatici e
campagne di disinformazione e che decide, con megalomane
spregiudicatezza, di costruire un proprio esercito privato.
Ogni miliardario postsovietico ha la sua stola di gorilla armati e
non pochi sono quelli che assumono la forma di una vera e propria
Compagnia Militare. Il riciclo delle competenze dell’Armata Rossa è
stato un buon mercato per molti militari e disoccupati.
Prigožin, figlio del suo tempo, non fa eccezione in questo. Ciò che lo
differenzia è la volontà di perseguire un’agenda politica para-nazionale
in cui i suoi affari si intrecciano con l’interesse di Stato.
Da criminale a imprenditore a condottiero, il passo a mito è breve, e
infatti il brand Wagner è dal 2022 una piccola moda del pubblico russo:
facile acquistare t-shirt e magliette, ancora più facile imbattersi nel
flusso memetico che accompagna le dichiarazioni sempre più ruvide di
Prigožin sui social network.
E infatti l’ultimo atto della Wagner è accompagnato da un codazzo di apprezzamenti e selfie.
L’oggettivo strapotere ottenuto negli anni e la sovraesposizione dovuta
alla battaglia Bakhmut portano prima all’inevitabile conflitto
d’interessi tra chi dirige le forze armate ufficiali e chi gestisce uno
spaventoso esercito fedele solo ai suoi capi.
Conflitto che Prigožin decide di risolvere passando, letteralmente,
all’offensiva in uno strano tentato colpo di stato che vede i mercenari
conquistare Rostov sul Don senza sparare un colpo e passando una
giornata a posare per selfie e strette di mano con i passanti
entusiasti, mentre una colonna marcia verso Mosca.
Un golpe che chiedeva la testa dei vertici dell’esercito e si risolve,
nel giro di 24 ore, in un nulla di fatto. I mercenari si ritirano dopo
un’opaca trattativa apparentemente senza ripercussioni.
Due mesi dopo, agosto 2023, l’aereo privato che trasportava Prigožin e
i suoi comandanti, tecnicamente esiliati in Bielorussia, da Mosca a San
Pietroburgo salta in aria uccidendo tutti i passeggeri. Pagavano il
pegno del loro tradimento alla verticale del potere.
Da allora la Wagner viene in parte smantellata e in parte assorbita
dalle forze armate, i suoi asset africani vengono riorganizzati sotto il
(pessimo) nome di Afrika Korps.
Già dai primi giorni dopo la caduta dell’aereo si moltiplicano i
memoriali con bandiere e fiori, foto di Prigožin e Utkin. Non solo in
Russia: in Repubblica Centrafricana gli viene eretta più di una statua e
in giro nel Sahel si tengono piccole dimostrazioni di cordoglio.
Che dei criminali di guerra attirino tutto questo affetto non è inedito e
non dovrebbe scandalizzare più di tanto. Ciò che è da osservare è come,
sedimentando un forte immaginario e tentando di strappare una
legittimazione d’autorità, una compagnia militare privata per la prima
volta nel mondo contemporaneo si imponga come soggetto politico.
Reclama la sua possibilità di decidere dei destini di una guerra ben
oltre il proprio mandato. Una possibilità inattuabile perché ancora non
c’è sufficiente spazio di manovra per i capitani di ventura ma che, se
guardiamo ai movimenti simili dei capitani dell’industria Hi-Tech della
Silycon Valley, dovrebbe far riflettere per il futuro prossimo.
In questa specie di Guerra dei trent’anni, che è diventata la
globalizzazione, dove il fronte di guerra si sposta di luogo in luogo
ignorando i confini tra nazioni, gettando odi e motivazioni in una
centrifuga in cui è difficile tenere fermo il significato, nuovi
predatori emergono e le prerogative tipiche degli Stati Nazione vanno
diluendosi in nuove concentrazioni di potere privato.
E alla fine di tutto, quando un diverso ordine si imporrà con i suoi
equilibri, non è detto che a vincere sarà uno Stato piuttosto che lo
sconosciuto CEO di un comparto tecno-militare.
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