Tra Pechino e Tokyo c’erano state scintille solo pochi giorni fa, dopo che la nuova prima ministra Sanae Takaichi aveva accennato alla possibilità di intervento militare nel caso in cui si aprisse uno scontro tra la Cina e Taiwan. Ora, i nipponici hanno deciso di posizionare dei missili terra-aria a medio raggio a poca distanza da Taiwan.
La diatriba di inizio mese era arrivata persino all’ONU lo scorso venerdì, con il rappresentante permanente della Cina presso le Nazioni Unite, Fu Cong, che ha scritto una lettera al Segretario Generale, Antonio Guterres, affermando: “se il Giappone osasse tentare un intervento armato nella situazione delle due sponde dello Stretto, sarebbe un atto di aggressione”.
La nuova mossa del Sol Levante non è un’aggressione in senso stretto, ma di certo mira a infuocare la regione. È sull’isola di Yonaguni, infatti, che verranno posizionati missili “di Tipo 03, in grado di intercettare minacce balistiche”, riporta l’ANSA. Il ministro della Difesa giapponese, Shinjiro Koizumi, ha definito non corrette le opinioni secondo cui ciò aumenterà le tensioni regionali. Anche perché i sistemi missilistici possono colpire bersagli aerei solo fino a 48 km di distanza.
Ma non si capisce cosa dovrebbero difendere se non i cieli intorno all’isola di Formosa, dato che il Giappone non è di certo un obiettivo del Dragone. La portavoce del ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, ha dichiarato che la Cina “non permetterà mai alle forze di estrema destra giapponesi di invertire il corso della storia, non permetterà mai l’interferenza di forze esterne negli affari taiwanesi, né la rinascita del militarismo giapponese”.
Takaichi è conosciuta per le sue posizioni nazionaliste, ma anche per il suo profilo che risponde perfettamente alla tendenza alla guerra che l’imperialismo occidentale e i suoi alleati hanno imboccato. Ed è chiaro che sta promuovendo un braccio di ferro con Pechino per mantenere con le promesse fatte nella corsa alla guida del suo schieramento (il Partito Liberaldemocratico).
Ma anche perché gli ultimi sviluppi sul conflitto in Ucraina mostrano che il baricentro della politica mondiale si sta spostando sempre più verso l’Indo-Pacifico. La UE è al momento un nano nello scenario globale, e Trump sta evidentemente spostando l’attenzione di Washington verso l’America Latina e la “West Coast”.
Takaichi ha ricevuto The Donald a fine ottobre, e si è accordata per investimenti e accordi sulle terre rare in cambio della stabilizzazione dei rapporti commerciali. Ora la politica nipponica vuole provare a riguadagnare per il proprio paese un ruolo di primo piano nello scenario del Pacifico.
Il tutto, ovviamente, pone pressione alla Cina, sul tema considerato imprescindibile della riunificazione dell’arcipelago considerato ribelle al paese. E appunto, Tokyo si comporta come se il Dragone stesse preparando la conquista del mondo, e non stesse rivendicando un territorio la cui indipendenza non è formalmente riconosciuta quasi da nessuno, nemmeno dal Giappone stesso.
Un dossier che Trump aveva sapientemente glissato durante l’incontro con Xi Jinping che, meno di un mese fa, ha permesso di ristabilire un quadro di competizione dura, ma comunque normata in maniera prevedibile.
La “linea rossa” tra i due presidenti si è concretizzata in una telefonata, alla fine della quale la parte cinese ha ribadito il ritorno di Taiwan alla Cina come parte dell’ordine post-bellico. Mentre la parte stelle-e-strisce ha evitato l’argomento: sul social Truth, Trump ha parlato di economia e sostegno cinese alla pace nel conflitto ucraino.
Non sembra dunque assurdo che, mentre la Casa Bianca stabilisce il terreno della competizione egemonica, lasci alla guerrafondaia giapponese il compito di premere l’acceleratore sulla dimensione militare.
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