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16/08/2024

Si chiamava Satnam Singh

di Marco Sommariva

“Si chiamava Satnam Singh. Aveva trentuno anni, un bel pezzo di vita davanti. Per dare dignità a quella vita, dall’India, aveva scelto di venire a vivere e lavorare in Italia tre anni fa con sua moglie. E come tanti altri suoi connazionali si era stabilito nell’Agro Pontino, nella provincia di Latina, dove vivono migliaia di altri braccianti indiani di origine sikh che lavorano per lo più con contratti irregolari e in condizioni di gravissimo sfruttamento, assicurando frutta e verdura ai mercati di mezza Italia.”, così iniziava l’articolo pubblicato il 20 giugno scorso, su AvvenireNon riesco ad andare avanti perché, subito, il cervello mi riporta ad alcune mie vecchie letture per ricordarmi che è la “solita” storia, è tutto già visto.

Il primo libro che mi viene in mente è I nomadi, una raccolta di articoli di John Steinbeck. I pezzi vengono scritti quando – nel 1936, nel pieno della Grande depressione – il San Francisco News gli commissiona una serie di articoli sulla condizione dei braccianti agricoli immigrati in California: statunitensi del Midwest colpiti dalla crisi e costretti a fuggire dalle tempeste di sabbia della Dust Bowl. Steinbeck salirà su un furgone da panettiere e inizierà il suo viaggio fra le vallate della California, dove s’imbatterà in un’umanità sfinita dal lavoro, umiliata, in un popolo di senza terra, schiacciato dall’economia e dalla natura infuriata.

Braccianti con contratti irregolari e in condizioni di gravissimo sfruttamento che assicurano frutta e verdura ai mercati di mezza Italia, braccianti agricoli immigrati in California sfiniti dal lavoro schiacciati dall’economia: “I migranti sono necessari, e sono odiati. Quando arrivano in una regione, incontrano l’avversione che i residenti dispensano da sempre al forestiero, all’estraneo. L’odio per lo straniero è presente lungo tutto la storia umana, dai villaggi primitivi fino al nostro sistema agricolo industriale altamente organizzato. I migranti sono odiati per diversi motivi: sono persone sporche e ignoranti, portano malattie, richiedono una maggiore presenza delle forze dell’ordine […]. Non vengono mai accolti in una comunità o nella vita comunitaria. Vagabondi di fatto, non è mai concesso loro di sentirsi a casa dove sono richiesti i loro servizi.” Ma, come osserva Avvenire nel prosieguo dell’articolo, sono fatti noti e denunciati da anni e che sono contrassegnati da quattordici ore e più di lavoro al giorno, ma più spesso di notte, con paghe che si aggirano sui tre euro all’ora, meno di un terzo di quanto prevede il contratto collettivo.

Non sarà che noi “occidentali” ci stiamo garantendo la sicurezza economica annientando i diritti umani di “altri”, facendo uso di violenza? Scriveva Steinbeck nel ‘36: “Se […] la nostra agricoltura richiede che sia creata e mantenuta a ogni costo una classe di bassa manovalanza, allora si dà per scontato che l’agricoltura californiana non sia economicamente sostenibile in un regime democratico. E se per garantirci la sicurezza economica sono necessari la violenza e l’annientamento dei diritti umani, le fustigazioni, gli omicidi commessi dagli agenti, i rapimenti e il rifiuto di tenere processi davanti a una giuria, si dà anche per scontato il rapido declino della democrazia in California. I metodi fascisti sono più diffusi, vengono applicati con maggior forza e più apertamente in California che in qualsiasi altra parte degli Stati Uniti.”

Nello stesso articolo di Avvenire leggo: “Satnam è arrivato all’ospedale San Camillo di Roma […] trasportato d’urgenza da un elicottero. Mentre lavorava nei campi è stato agganciato da un macchinario avvolgi-plastica a rullo trainato da un trattore, che gli ha tranciato il braccio e schiacciato le gambe. O almeno, questo hanno raccontato gli altri braccianti che erano con lui visto che i suoi datori di lavoro, alla vista della scena, se la sono data a gambe: l’hanno semplicemente caricato sul pullmino (con lui la moglie, anche lei dipendente della stessa azienda, che a bordo implorava di chiamare l’ambulanza) e riportato a casa. Lì l’hanno lasciato, col suo braccio staccato appoggiato in una cassetta per gli ortaggi, moribondo. A quel punto l’allarme dei vicini e la chiamata al 118. Un abisso di disumanità, oltre che un ritardo nei soccorsi che probabilmente gli è stato fatale: il giovane è morto stamane per via delle ferite riportate e delle emorragie.”

Anche sull’abisso di disumanità e sull’uccisione dei migranti, Steinbeck ci aveva già raccontato qualcosa: “Le grandi aziende agricole californiane sono organizzate in modo minuzioso e applicano una gestione centralizzata del lavoro come fanno le industrie e i trasporti, le banche e i servizi pubblici. […] I ranch gestiti da queste grandi aziende agricole speculative dispongono in genere di case per i lavoratori migranti, case per cui chiedono un affitto […]. Nella maggior parte dei casi non è ammesso che un lavoratore si rifiuti di pagare. Se vuole lavorare, deve vivere nella casa, e l’affitto viene scalato dalla sua prima paga. […] La volontà del proprietario del ranch è legge; i suoi sorveglianti sono sempre sul posto, con le pistole bene in vista. Il dissenso equivale alla resistenza a un pubblico ufficiale. Un’occhiata alla lista dei migranti feriti o uccisi in California a colpi di arma da fuoco, nell’arco di un solo anno, per “resistenza a pubblico ufficiale” può dare un’idea precisa della disinvoltura con cui questi “ufficiali” sparano ai lavoratori.”

Pare impossibile essere riusciti a scavare il fondo che avevamo toccato da un pezzo: prima li uccidevamo sparandogli, ora li ammazziamo più lentamente, lasciandoli davanti casa senza un braccio, sanguinanti.

Altro libro che mi è venuto in mente è Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij, un romanzo del 1866 di cui ci dice qualcosa l’autore stesso: “È il rendiconto psicologico di un delitto. Un giovane, che è stato espulso dall’Università e vive in condizioni di estrema indigenza, suggestionato, per leggerezza e instabilità di concezioni, da alcune strane idee non concrete che sono nell’aria, si è improvvisamente risolto a uscire dalla brutta situazione. Ha deciso di uccidere una vecchia che presta denaro a usura.”

È lecito chiedersi cosa c’entra un romanzo del genere con la vicenda Satnam Singh. Corretto. Mi spiego subito: primo, perché si parla di qualcuno che vive in condizioni di estrema indigenza; secondo, perché ricordavo che, fra le tante cose, in quelle pagine c’erano alcuni passaggi interessanti sull’argomento miseria, e ditemi voi se questa non c’entra nulla con l’indiano amputato e poi deceduto: “Nella povertà voi conservate intatta la nobiltà dei vostri sentimenti innati, ma nella miseria nera no, nessuno mai ci riesce. Quando si è in miseria nera, non ti si butta nemmeno fuori a bastonate, ma ti si spazza via da ogni consorzio umano con la scopa, per aggravare l’offesa; ed è giusto, poiché nella miseria nera io per primo sono pronto a offendere me stesso.”

Ecco cos’abbiamo fatto con Satnam Singh quando l’abbiamo lasciato davanti a casa senza soccorrerlo, l’abbiamo spazzato via.

Eppure, chi succhia il sangue ai poveri non dovrebbe prendere troppo sottogamba i pericoli che corre: “Delitto? Quale delitto? […] Perché ho ucciso un pidocchio schifoso, malefico, una vecchia usuraia che non era utile a nessuno, che succhiava il sangue ai poveri, un essere la cui soppressione dovrebbe far perdonare quaranta peccati? Questo sarebbe un delitto? Non ci penso nemmeno, e non intendo affatto lavarlo. Tutti puntano il dito contro di me, e mi sento dire da ogni parte: Delitto, delitto! […] Ah! È la forma che non va, la forma non è esteticamente soddisfacente!… Be’, proprio non capisco: distruggere il prossimo con le bombe, o dopo un regolare assedio; è forse un modo più rispettabile? La preoccupazione estetica è il primo segno di debolezza! Mai, mai me ne sono reso conto prima di adesso, e men che mai capisco in che cosa consiste il mio delitto! Mai, mai sono stato più forte e più convinto di adesso!...”

Immagino, invece, quello che potrebbe essere balzato in testa a chi si è allontanato dopo aver lasciato davanti casa l’indiano senza un braccio: “A tutto finisce per abituarsi, questa carogna che è l’uomo! Oppure, Gente felice quella che non ha nulla da chiudere a chiave!”

Sperando di non mancare di rispetto a Satnam Singh e ai suoi famigliari, e continuando a pescare da Delitto e castigo pur sapendo che un prete nulla c’entra coi sikh, mi sono permesso d’immaginare l’indiano pronunciare queste parole poco prima di morire: “[…] lasciatemi almeno morire in pace […] Che cosa? Un prete?… Non serve… Avete proprio soldi da buttare via?… Non mi lascio dietro peccati, io!… Dio mi deve perdonare anche così… Lui lo sa quanto ho sofferto!… E se non mi perdona, vuol dire che non ha importanza!…”

Visto che stiamo parlando di miseria, credo non sia per nulla fuori luogo parlare di elemosina e riportare un altro estratto del romanzo di Dostoevskij: “[…] non posso approvare, per principio, la beneficenza privata, giacché non solo non elimina radicalmente il male, ma anzi lo alimenta ancor di più […].”

Anche Gandhi diceva qualcosa di simile: “Mi rifiuto di insultare il povero offrendogli dei cenci di cui non ha bisogno invece che del lavoro di cui ha un bisogno estremo.” (da L’arte di vivere)

Ma esiste ancora il povero? Jules Feiffer, scrittore e fumettista statunitense, ci fa notare questo: “Ero solito pensare di essere povero. Poi mi dissero che non ero povero, ero bisognoso. Poi mi dissero che era autodistruttivo pensare a me stesso come bisognoso, ero solo privo di mezzi. Poi mi dissero che privo di mezzi era una cattiva immagine, ero sottoprivilegiato. Poi mi dissero che sottoprivilegiato era abusato, ero svantaggiato. Non ho tuttora un centesimo. Ma di certo ho un gran bel vocabolario.” (in Zona Letteraria, monografico intitolato “La colpa di essere poveri”).

Volendo, all’elenco sopra potremmo aggiungere “i meno fortunati” e chissà quant’altri giochi di parole.

Bisogna fare molta attenzione all’arma del linguaggio utilizzato da chi muove i fili di questo sistema che crea braccianti con contratti irregolari e in condizioni di gravissimo sfruttamento, sfiniti dal lavoro, schiacciati dall’economia.

E altrettanta attenzione andrebbe riservata a chi si esprime sui motivi che generano questa povertà. Solitamente il pensiero di destra ritiene la povertà un fatto individuale: chi, nella competizione sociale, resta povero è perché è pigro, incolto, ignorante, in qualche misura inferiore. Invece, come ha scritto l’amico Gianfranco Manfredi sulla rivista Zona Letteraria, monografico intitolato “La colpa di essere poveri”, “la teoria della sinistra è […] che la povertà è un fattore strutturale, cioè di sistema. Chi si trova in povertà è in tale condizione perché si trova in settori economici che non riescono ad assicurare loro guadagni adeguati. La mobilità sociale consente a queste persone di non restare eternamente confinate in questi settori, nella misura in cui riescano a spostarsi in settori più remunerativi. Tuttavia, i settori economicamente depressi restano tali, e altre persone vi cadono.” (Gianfranco Manfredi, “Breve storia del pauperismo medievale. Il movimento dei pauperes spiritu da Valdo di Lione a Francesco d’Assisi”)

Non credo di dire un’eresia se scrivo che la povertà sta aumentando proporzionalmente a quanto sta aumentando il denaro che finisce nelle mani di pochi e che, quindi, la lotta contro la povertà non può prescindere dall’intervenire sui processi che permettono l’accumulo di ricchezze sempre e soltanto nelle stesse tasche.

Ma quali sono le mani dei pochi in cui finisce il denaro? Le grandi aziende agricole citate da Steinbeck? I mercati di frutta e verdura di mezza Italia citati da Avvenire? Magari le catene di supermercati che – fresca o surgelata – vendono questa frutta e verdura? Nessun altro? E se queste mani fossero anche le nostre, di noi consumatori, che acquistiamo solo a fronte di prezzi stracciati pur potendo sborsare qualcosa di più e che, risparmiando qua e là, spendiamo quel denaro accantonato in altri generi di consumo spesso e volentieri prodotti dal miliardo circa di poveri sparsi in giro per il mondo?

Sperando l’umanità faccia la scelta giusta fra le due opzioni riportate da Tolstoj nel suo saggio Guerra e rivoluzione del 1906 – “Ora, nella situazione attuale, l’umanità ha due scelte: o aderire alla civiltà esistente che assicura la più grande quantità di felicità a una minoranza, mentre la maggioranza è lasciata nella miseria e nella schiavitù; o sacrificare una parte delle conquiste della civiltà, cioè tutte le conquiste vantaggiose per un piccolo numero di persone, e questo subito, senza procrastinare, una volta che si sarà riconosciuto che sono precisamente questi vantaggi che impediscono alla maggioranza di essere libera dalla miseria e dalla schiavitù.” – mi chiedo... non è che il povero Satnam Singh l’ho anch’io sulla coscienza?

Fonte

Tutto ben scritto qui sopra, a parte l'ultimo paragrafo in cui il senso collettivo dell'umanità richiamata nella citazione di Tolstoj viene declinata in una chiave individualista da consumatore consapevole che è del tutto fuori luogo e soprattutto fuorviante.

Perché no, il consumo consapevole non sarà mai di massa in quanto il consumatore subisce le dinamiche di mercato senza mai poterle determinare a livello sistemico.

04/04/2024

La coscienza umana deve star fuori dall’università?

«L’Università di Milano-Bicocca dialoga con istituzioni scientifiche israeliane e palestinesi ritenendo prioritario mantenere i rapporti con il mondo scientifico e accademico, utilizzando lo strumento della diplomazia scientifica quale sostegno al processo di pace, anche partendo dalle collaborazioni con i colleghi e le colleghe israeliani e palestinesi.

Ma il punto è di principio: con questa mozione vogliamo ribadire in modo esplicito che il ruolo delle università deve essere costruttivo. Dobbiamo restare un luogo di libertà e di indipendenza, che rifugge dalle polarizzazioni. Questa è la nostra responsabilità.

Le polarizzazioni portano a semplificazioni che non aiutano il dialogo. Le università invece hanno un ruolo anche nei Paesi in guerra e, per il dopo guerra, la diplomazia della scienza è fondamentale. Chiederci di fare altro non ci appartiene».
Parola della professoressa Giovanna Iannantuoni, economista, docente e rettrice dell’Università Bicocca di Milano, da novembre alla guida della Crui (Conferenza dei rettori), peraltro perfettamente in linea col frasario della ministra Bernini, di altri rettori (non tutti, per fortuna), del governo e della sedicente opposizione parlamentare.

La professoressa Iannatuoni risponde così negativamente, in una intervista al Corriere della Sera, alla richiesta degli studenti di Cambiare Rotta e altri collettivi in tutta Italia di interrompere le relazioni con le università israeliane a proposito di progetti di ricerca dual use – civile e militare – che potrebbero in prospettiva aggravare il genocidio del popolo palestinese (sia a Gaza che in Cisgiordania).

La Iannantuoni è stata eletta rettrice della Bicocca nel 2019, dunque certamente ha avuto un ruolo – come protagonista o spettatrice passiva, quantomeno complice – nella grottesca vicenda del corso su Dostojevski annullato dalla sua università dopo l’inizio della guerra in Ucraina.

Il corso – appena quattro lezioni – doveva esser tenuto dal prof. Paolo Nori, che all’ultimo minuto si era visto arrivare una mail dell’ateneo. Tutto cancellato con parole opposte a quelle usate oggi a proposito di Israele: lo scopo dello stop era «quello di evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto momento di forte tensione».

Una dichiarazione di vigliaccheria e allineamento attivo al furore anti-russo che in quei giorni spirava direttamente dai governi occidentali, e che arrivò a imporre l’annullamento di concerti – famosi quello del celebre soprano Anna Netrebko, ad Arezzo, e della pianista Valentina Lisitsa, addirittura ucraina ma critica con la giunta nazigolpista di Kiev – proiezioni di film, corsi di lingua, ecc.

Da parte nostra corre l’obbligo di far notare come tutte quelle censure – universitarie e non – fossero indirizzate verso corsi o iniziative puramente culturali, di nessun contenuto ideologico o propagandistico (accostare Dostojevski a Putin richiede un qualche sprezzo del ridicolo...). Tantomeno a programmi di ricerca militare, sia pure “per incidente”.

Ossia quelli con Israele, contestati in questi giorni dagli studenti.

E sfugge sinceramente il “quadro di valori etico-morali” che consentirebbe la ricerca militare con i macellai di Tel Aviv, ma sconsiglierebbe la lettura de I demoni.

È chiarissimo che l’unico criterio è quello dell’appartenenza geopolitica. Israele è la testa di ponte militare dell’Occidente neoliberista in Medio Oriente. Quindi si può e si deve chiudere un occhio e parlare dei “ponti tra culture” che le università, in genere e giustamente, rappresentano.

La Russia è invece uno dei “nemici esistenziali” di questo stesso Occidente e dunque nulla che venga di lì deve passare tra le maglie della censura. Neanche i letterati morti da 150 anni...

Tra l’altro, come abbiamo documentato ieri sul nostro giornale, il Ministero e molte università hanno interrotto ogni collaborazione con le università e istituzioni culturali russe in meno di un mese dall’intervento militare russo in Ucraina. Nel caso di Israele sono passati già sei mesi dall’inizio del mattatoio a Gaza. Un doppio standard politico e morale del tutto inaccettabile.

Forse bisognerebbe far sapere alla Iannantuoni che le università palestinesi sono state tutte bombardate (a Gaza, certamente) o quotidianamente rastrellate dall’esercito (e dalle milizie paramilitari dei coloni illegali) in Cisgiordania.

E che persino quei (pochi) docenti palestinesi tollerati nelle università israeliane stanno venendo cacciati soltanto perché... palestinesi.

Ma forse stiamo chiedendo troppo alla coscienza di questa prof. e dell’intera classe dirigente italica...

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22/03/2022

La “cancel culture” di regime (USA) ora va contro Marx


Il bello degli imbecilli è che vogliono sempre apparire fighi e trendy. E quale occasione è migliore di una guerra per improvvisare “alzate di ingegno” che normalmente verrebbero rubricate tra le cazzate senza senso?

In Italia ne abbiamo viste molte, e pensavano fossero quasi insuperabili, a partire dal “niet” opposto allo scrittore Paolo Nori, che doveva tenere un corso su Dostoevskij all’università Bicocca di Milano.

La cosa grave, secondo noi ma anche secondo molti docenti universitari, stava nel fatto che un’idiozia del genere fosse venuta in mente a “amministratori” dell’accademia, non a qualche oscuro consigliere comunale leghista o meloniano.

Mettere il divieto di insegnamento su uno scrittore, tra i più importanti degli ultimi secoli, solo perché di nazionalità russa, addirittura nonostante sia morto da oltre 140 anni (senza possibile responsabilità nelle vicende presenti), sembrava il massimo che si potesse fare, nella scala del ridicolo.

E invece si può fare di più, e sentendosi quasi eroi...

L’università della Florida (Usa, non proprio il tempio della cultura...) ha deciso che l’aula studio numero 229 non si chiamerà più “aula Karl Marx” e non avrà più l’effige del filosofo.

L’iniziativa avviene su segnalazione di un sito ultra-conservatore e trumpiano, CampusReform, che si autodefinisce si autodefinisce il “cane da guardia” conservatore di tutto ciò che accade di illiberale nei college statunitensi.

“Dati gli eventi attuali in Ucraina e in altre parti del mondo, abbiamo deciso che fosse appropriato rimuovere il nome di Karl Marx che era stato collocato in una stanza di studio di gruppo presso l’Università della Florida nel 2014”, ha spiegato Hessy Fernandez, direttore delle comunicazioni strategiche dell’ateneo.

In effetti, qui si supera di gran lunga anche i “pensatori” della Bicocca.

Come si sa, il buon Marx era tedesco, oltretutto di famiglia ebraica (ma convertita al cristianesimo), contemporaneo di Dostoevskij e sicuramente estraneo alle vicende attuali. In fondo la Russia di Putin nasce proprio dalla cancellazione del sistema sovietico, che in qualche modo – non sempre accettabile – manteneva un legame cultural-ideologico con l’opera di Marx.

Dunque, semmai gli “strateghi culturali” dell’università della Florida avessero voluto “fare un dispetto a Putin”, avrebbero dovuto intitolare altri spazi di studio al Moro di Treviri.

E invece, come a tutti gli ignoranti miserabili elevati in qualche posizione di potere grazie a una appartenenza politica (“raccomandazione” o “clientela”, diciamo in Italia), a questi geni deve essere sembrato che Putin – in quanto indubitabilmente russo – potesse essere considerato anche un “sovietico”, ossia un seguace di Marx.

A chiarir loro la differenza basterebbe la visione di un film decisamente ammericano: Danko, dove un Arnold Schwarzenegger in versione “poliziotto sovietico” spiega a Jim Belushi la differenza tra i due termini.

Ma forse si tratta di un livello teorico troppo alto, per certa gente...

La cancel culture è un’aberrazione anche in versione “progressista”, ma è nelle mani dei reazionari che si può misurare per intero la sua follia.

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05/03/2022

“Voi non capite niente della Russia”

La recente notizia dell’annullamento di un corso su Dostoevskij da parte dell’Università Bicocca di Milano fa scaturire diverse riflessioni. Innanzitutto, si può pensare a una pervasiva “russofobia” che si sta diffondendo rapidamente in Occidente (che assomiglia pericolosamente alla “islamofobia” che ha sempre dominato la cultura occidentale). I russi sono diventati il nemico di turno da contrastare con ogni mezzo: vedi la cancellazione di qualsiasi evento culturale in Europa e negli Stati Uniti che riguarda la Russia, oppure le pesanti sanzioni economiche che l’imperialismo occidentale sta predisponendo contro il popolo russo. Perché i più colpiti non saranno Putin o gli oligarchi, ma la popolazione.

La decisione di cancellare un corso universitario su Dostoevskij (poco importa se poi si è deciso di farlo lo stesso, ormai il sasso della stupidità era stato lanciato) ferisce qualsiasi persona che abbia una minima sensibilità culturale. Si tratta soltanto del peggior colpo di coda di tutto ciò che sta avvenendo a livello politico nelle alte sfere, laddove l’Occidente capitalista, mascherandosi da pacifista e umanitario (come ha fatto a Belgrado, a Kabul, a Baghdad o a Damasco) ha trovato il nuovo-vecchio nemico da attaccare: i ‘diversi’, i nemici adesso sono i russi e tutta la loro cultura. Non bisogna mai dimenticare che i russi non si sono mai sentiti occidentali, hanno una cultura peculiare, particolare; basta solo leggere qualche grande romanzo prodotto da questa cultura per capirlo: ad esempio quelli di Tolstoj, Gogol, Puškin e, guarda caso, di Dostoevskij.

Questa diversità culturale è espressa efficacemente da Andrej Tarkovskij nel film Nostalghia (1983). Il protagonista è un poeta russo di nome Gorčakov che si trova in Italia, in Toscana, accompagnato dalla sua interprete italiana, per scrivere la biografia di un musicista russo che ha vissuto in quei luoghi. Nella hall dell’albergo, in un’atmosfera onirica e regressiva, il poeta dice alla giovane di buttare via subito un libro di poesie di Arsenij Tarkovskij, padre del regista, che sta leggendo in traduzione. Infatti – dice – non solo è impossibile tradurre la poesia ma anche tutta l’arte, la quale è una delle espressioni più significative della cultura. Alla domanda della ragazza che chiede: “come avremmo fatto a capire la Russia senza le traduzioni?”, Gorčakov risponde: “voi non capite niente della Russia”, aggiungendo che neppure i russi hanno capito niente di Dante, Petrarca o Machiavelli. L’unico modo per capirsi – dice – è quello di “abbattere le frontiere fra gli stati”. Certo, bisogna tenere conto che il film è stato girato in un periodo storico estremamente diverso, quando ancora c’era l’Unione Sovietica, ma le frontiere politiche e culturali sembrano ancora non essere state abbattute. Anzi, l’Occidente sta erigendo sempre più barriere, anche e soprattutto culturali, contro l’universo russo che, non dobbiamo mai dimenticarlo, c’entra assai poco con la guerra di Putin.

Il vero nemico, ancora una volta, è il sistema capitalistico: quello che il presidente russo vuole consolidare, quello che gli Stati Uniti e la Nato vogliono difendere e rafforzare. Tutto in suo nome, fino all’autodistruzione. Come lucidamente scrive Robert Kurz in Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale (a cura di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2017), dopo la caduta dell’“impero del male” dell’Unione Sovietica, l’Occidente capitalista ha diffuso ovunque una “guerra civile globale” ergendosi a difensore dei diritti umani:

Ma le istituzioni, i poteri e i rappresentanti (o i portabandiera politici) di questo «mondo unico» non sembrano affatto intenzionati a mettere in discussione l’automatismo del processo del mercato mondiale. Essi invece vogliono imporre la conservazione di queste regole mediante l’ultima ratio della forza militare. Ora però non possono più legittimarsi mediante il vecchio conflitto sistemico con il presunto «impero del male». Devono intervenire, come forza di polizia internazionale, contro le rivolte della fame, le esplosioni di disperazione, le campagne di vendetta e gli attacchi terroristici della schiera dei miliardi di perdenti, ma anche contro tutte quelle forze e quelle figure, tutt’altro che filantropiche che, nella battaglia globale per la spartizione della sempre più esigua massa di valore, perseguendo interessi particolari, si spacceranno per vendicatori degli oppressi.

E, come lo studioso ribadisce in Ragione sanguinaria (trad. it. Mimesis, Milano-Udine, 2014), “quanto più brutalmente questa forma di riproduzione, trasfigurata a società globale devasta il mondo, tanto più micidiali sono le ferite che si autoinfligge e tanto più seriamente essa mette a repentaglio la sua stessa esistenza”.

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03/03/2022

L’isteria bellicista produce mostri. Università milanese revoca corso su Dostojevski, poi fa marcia indietro

I demoni di Dostojevski si aggirano per l’Italia. Prima i direttori di orchestra e di teatri messi alla porta in quanto russi. Poi l’Università Bicocca di Milano che annulla il corso che lo scrittore Paolo Nori avrebbe dovuto tenere nell’ateneo sull’autore russo Fedor Dostoevskij. Ma, diversamente dal sindaco di Milano Sala, di fronte all’ondata di polemiche scatenate dall’annuncio dato dallo scrittore, la direzione dell’università ci ha ripensato e ha confermato il seminario.

“Sono arrivato a casa e ho aperto il pc e ho letto una mail che arrivava dalla Bicocca. Diceva ‘Caro professore, stamattina il prorettore e la didattica mi hanno comunicato la decisione presa con la rettrice di rimandare il percorso su Dostoevskij. Lo scopo è evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto è un momento di forte tensione'” ha raccontato su Instagram lo scrittore, che nel 2021 ha pubblicato il libro ‘Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fedor M. Dostoevskij’.

“Il corso sui romanzi dell’autore russo doveva cominciare mercoledì e prevedeva quattro lezioni. Mi avevano invitato loro. Trovo che quello che sta succedendo in Ucraina sia una cosa orribile e mi viene da piangere solo a pensarci. Ma quello che sta succedendo in Italia oggi, queste cose qua, sono ridicole: censurare un corso è ridicolo. Non solo essere un russo vivente è una colpa oggi in Italia ma anche essere un russo morto che, quando era vivo, nel 1849, è stato condannato a morte perché aveva letto una cosa proibita, lo è. Che un’università italiana proibisca un corso su un autore come Dostoevskij è una cosa che io non posso credere”.

Il corso su Dostojevski dunque si terrà, ma resta un fatto vergognoso. Eppure, con una faccia tosta irricevibile, sulla vicenda ha preso parola anche chi avrebbe fatto meglio a tacere come il sindaco di Milano. ”Qualcuno lì ha sbagliato”, ha detto Beppe Sala. “La rettrice della Bicocca, che ho sentito al telefono, mi ha detto che le cose non stanno così, che non è stato cancellato nessun corso – ha spiegato il sindaco – ma ritengo sia un errore cancellare un corso del genere”. Proprio Sala che ha estromesso dalla Scala il direttore d’orchestra russo Valery Gergiev che non aveva preso le distanze dalla politica del proprio paese come gli era stato richiesto.

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