La prima volta non si scorda mai. Ma non stiamo parlando d'amore...
Mercoledì 30 gennaio, a Napoli, fortunatamente solo per alcune ore, gli autobus
non hanno potuto circolare perché la società che li gestisce non aveva
più gasolio nei serbatoi, né soldi per acquistarlo.
Solo un rapido fido bancario ha permesso di mettere una toppa e far ripartire i mezzi.
È la prima volta che accade in una grande città italiana ed europea. E
non è un incidente di percorso di quei “pasticcioni di napoletani”. È un
segnale anticipatore di un'epoca.
La ragione profonda, infatti,
risiede nelle politiche di taglio della spesa pubblica e di
privatizzazione dei servizi sociali, anche quelli essenziali. Paolo
Berdini, urbanista abituato a denunciare i guasti di simili scelte,
ricorda sinteticamente i passaggi di questa lucida follia che minaccia
direttamente la “civiltà urbana”. A far data dagli accordi di
Maastricht, all'inizio degli anni '90, parte l'offensiva contro “la mano
pubblica” nello spazio metropolitano, nell'istruzione, nella sanità,
nel welfare. A tutto questo dovrà pensare “il mercato” e si continua a
dirlo dopo 20 anni, nel mentre si sono andati riducendo drasticamente i
trasferimenti di bilancio a favore degli enti locali.
Giustamente si ricorda l'opera infame di Franco Bassanini, allora eroe
della “semplificazione” in salsa democratica (prima di Calderoli,
insomma), che tra le altre cose ha liberalizzato l'uso degli oneri di
urbanizzazione, fino ad allora vincolati al miglioramento delle qualità
urbana. Per i sindaci – perbene o permale che fossero – è scattata una
trappola che obbligava a concedere spazio edificabile alla speculazione
pur di “rimediare” un po' di fondi.
Di fronte alla paralisi, la
ricetta liberista prescrive altre “privatizzazioni e dismissioni del
patrimonio pubblico”, già ridotto quantitativamente ai minimi termini e pesantemente svalutato nella più generale caduta dei
prezzi sul mercato immobiliare. Di fronte a un corpo devastato dalla
droga, insomma, il medico pazzo prescrive un dosaggio maggiore della
stessa droga.
Il blocco del trasporto metropolitano a
Napoli segna il limite oltre cui la continua compressione dei servizi
pubblici si trasforma in paralisi della vita sociale e produttiva.
Nel campo dell'istruzione, per esempio, l'identica distruzione nelle
capacità riproduttive delle istituzioni scolastiche (dalla materna
all'università) ha bisogno di un ventennio per mostrarsi come degrado
effettivo. E comunque resta un margine “interpretativo” nella
quantificazione del danno.
Anche nella sanità gli effetti si
possono misurare solo sul lungo termine e con metodi statistici: tot
ricoveri, tot decessi, tot di riduzione delle aspettative di vita, ecc.
Ancora più nebulosi sono i confini oltre cui l'estirpazione del welfare
(dalle pensioni all'assistenza) può essere indicata come causa diretta
di un generale impoverimento nelle condizioni di vita.
Nel trasporto pubblico urbano, invece, il punto di tracollo – dopo
venti anni di “riduzione degli sprechi” – si presenta come immediato e
incontrovertibile. Paralizzante, in senso "tecnico". La città si ferma, e
con lei la produzione. Possiamo persino considerare ininfluenti, come
fanno Monti e gli altri appassionati della governance liberista, i
danni che l'improvviso blocco provoca alla “vivibilità metropolitana”. È
sufficiente quantificare i guasti in termini di prodotto interno lordo
per capire quanto la “politica dei tagli” diventi a un certo punto
auto-amputazione di parti sensibili.
Impossibile anche solo
pensare che la scomparsa del trasporto collettivo possa essere
compensata da un incremento vorticoso dei mezzi individuali. La
metropoli contemporanea, in Italia come altrove, non è stata costruita
per sopportare flussi di traffico ad libitum. La rete viaria è
pur sempre un sistema idraulico che “regge” fino a una determinata
pressione, poi cede. Soltanto chi ragiona in termini puramente
finanziari – quindi matematici, non fisici – poteva
immaginare che la funzionalità profonda del vivere metropolitano avrebbe
tollerato senza grandi problemi la torsione “privatistica”,
l'eliminazione di servizi "lubrificanti".
Il ricordo del
blackout di New York dovrebbe invece essere un incubo ancora vivo. Non
si passa impunemente da un certo grado di civiltà ad uno più arretrato,
da un meccanismo sociale che funziona in automatico – come un gigantesco
e rumoroso orologio – a un sistema universale in cui ci si deve
“arrangiare” per conto proprio. In ogni caso, non è indolore.
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