di Mario Lombardo
Le proteste in corso da alcuni giorni nelle strade di Hong Kong sono
proseguite mercoledì anche in occasione del giorno della festa nazionale
per il 65esimo anniversario della nascita della Repubblica Popolare
Cinese, con i festeggiamenti tra le autorità locali e quelle di Pechino
andati in scena nel pieno di nuove manifestazioni a cui continuano a
partecipare decine di migliaia di persone.
I leader dei movimenti
studenteschi hanno chiesto ancora una volta le dimissioni del
governatore (“Chief Executive”) della città, Leung Chun-ying, e la
possibilità di partecipare nel 2017 a elezioni libere per la carica
occupata da quest’ultimo. I manifestanti hanno già invaso molte arterie
commerciali di Hong Kong e sempre mercoledì hanno lanciato un ultimatum
allo stesso governatore, chiedendogli di rassegnare le dimissioni entro
giovedì. In caso contrario si assisterà a un’escalation delle proteste,
con possibili tentativi di occupazione dei palazzi governativi.
Le
minacce dei leader del movimento di protesta potrebbero mettere così in
crisi le autorità cinesi e della stessa città, le quali hanno finora
evitato risposte di tipo repressivo, a parte qualche scontro con la
polizia domenica scorsa e il ricorso a gas lacrimogeni.
Secondo una fonte anonima citata dal Wall Street Journal,
anzi, da Pechino sarebbe arrivata indicazione al governatore Leung di
consentire lo svolgimento pacifico delle dimostrazioni, nella speranza
che la protesta finisca per sgonfiarsi da sola a causa dei fastidi
causati dai disordini alla popolazione e, si potrebbe aggiungere, per la
sostanziale mancanza di una prospettiva politica dei gruppi che guidano
le manifestazioni.
Come è ormai noto, il focus principale delle
proteste in corso a Hong Kong è legato alla decisione presa lo scorso
agosto dal governo cinese di consentire le elezioni per la carica di
governatore nel 2017 in regime di suffragio universale ma solo con pochi
candidati debitamente selezionati da una commissione formata da
fedelissimi di Pechino.
Questo nuovo sistema elettorale deve
essere approvato dal Consiglio Legislativo della città, nel quale i
membri della minoranza del movimento “pan-democratico” - vicino ai
manifestanti - hanno di fatto il potere di veto. Se però la proposta
cinese dovesse essere bloccata, rimarrebbe in vigore l’attuale sistema,
secondo il quale a scegliere direttamente il governatore è un Comitato
Elettorale di 1.200 membri, ugualmente dominato da sostenitori del
governo centrale.
A prendere parte alle proteste ci sono
disparati gruppi studenteschi e di attivisti per i diritti democratici,
in gran parte raccolti sotto la denominazione di “Occupy Central”. I
vertici di queste formazioni chiedono pressoché esclusivamente la
riforma del sistema elettorale e una maggiore partecipazione alla vita
politica della regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare
Cinese.
Dietro
alle varie sigle che guidano le dimostrazioni nelle strade della
metropoli da oltre 7 milioni di abitanti vi sono però ampi settori della
popolazione che avanzano richieste più radicali come reazione
all’estrema polarizzazione sociale della ex colonia britannica.
Al
di là e ancor più delle questioni elettorali o dell’ingerenza di
Pechino nelle faccende della città, alcuni dei temi potenzialmente più
esplosivi sono: disuguaglianze di reddito tra le più marcate del
pianeta, la povertà che colpisce almeno il 20% degli abitanti di Hong
Kong, gli stipendi che ristagnano e una paga minima che non arriva
nemmeno ai 4 dollari l’ora, il costo della vita a livelli stratosferici e
l’assenza di sussidi di disoccupazione e di un sistema pensionistico
pubblico.
Di fronte a una situazione di questo genere è facile
comprendere come gli stessi leader della protesta e i politici di
opposizione - che, in linea generale, non intendono in nessun modo
compromettere lo status speciale garantito a Hong Kong né modificare in
maniera sostanziale l’assetto socio-economico attuale - stiano cercando
di evitare l’esplosione del conflitto con le autorità e si dicano
disponibili alle trattative, sia pure solo a seguito delle dimissioni
del governatore Leung.
Da Pechino, invece, nonostante il silenzio
quasi totale dei media sulla crisi in atto, c’è grande preoccupazione
per i fatti di Hong Kong, principalmente per due ragioni, oltre a quelle
connesse all’ovvia importanza finanziaria della città per la Cina. In
primo luogo, il governo del presidente Xi Jinping teme che il persistere
delle proteste possa produrre un contagio in altre regioni cinesi già
inquiete e non solo. Inoltre, il regime “comunista” è preoccupato, con
più di una ragione, che l’Occidente, con gli Stati Uniti in prima fila,
possa soffiare sul fuoco delle proteste, provando a istigare una sorta
di nuova “rivoluzione colorata”.
Indicazioni evidenti in questo
senso, in realtà, almeno per il momento non sembrano essercene, se non
altro per l’importanza di Hong Kong come porta d’accesso al mercato
cinese per il capitale occidentale. Gli Stati Uniti - dove poco più di
un mese fa la polizia in assetto da battaglia aveva represso
violentemente le manifestazioni pacifiche di Ferguson, nel Missouri -
sono comunque intervenuti qualche giorno fa con una dichiarazione di
circostanza relativamente cauta, mentre il vice-primo ministro
britannico, Nick Clegg, ha convocato l’ambasciatore cinese a Londra per
esprimere “il disappunto e l’allarme” del proprio governo.
Sia
gli USA sia la Gran Bretagna, tuttavia, stanno con ogni probabilità
monitorando con estrema attenzione gli sviluppi delle proteste a Hong
Kong per poterle eventualmente sfruttare a proprio favore.
L’amministrazione Obama, in particolare, è nel pieno di un’offensiva
anti-cinese, messa in atto su vari fronti per contrastare la crescente
influenza di Pechino nel continente asiatico.
La creazione o la
manipolazione di movimenti democratici di piazza contro governi nemici o
non particolarmente graditi è d’altra parte una prerogativa degli Stati
Uniti e, per quanto riguarda Hong Kong, svariati leader delle proteste
in corso hanno legami molto stretti con politici e organizzazioni
occidentali.
L’attenzione americana per questa città è inoltre
documentata, visto che, ad esempio, il National Endowment for Democracy
(NED) - l’ente no-profit finanziato dal governo che si occupa della
promozione della “democrazia” nel mondo o, meglio, di alimentare la
sovversione ovunque ciò sia utile agli interessi USA - nel solo 2012
aveva stanziato quasi 500 mila dollari per Hong Kong, con l’obiettivo di
“sviluppare le capacità dei cittadini, soprattutto studenti
universitari, di partecipare in maniera più efficace al dibattito
pubblico sulle riforme politiche”, con particolare attenzione, guarda
caso, proprio alla questione del “suffragio universale”.
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