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04/10/2014

Quali giustificazioni per l’attacco contro l’Isis in Siria? Un’analisi di diritto internazionale



di Vito Todeschini – Focus on Syria

Il 23 settembre 2014 gli Stati Uniti hanno iniziato la campagna di bombardamenti contro le postazioni dello Stato Islamico (SI) in Siria con il supporto di alcuni Stati arabi. La rilevanza di questa nuova escalation militare richiede un’analisi di come essa possa inquadrarsi alla luce del diritto internazionale. In questo articolo mi propongo di chiarire tre questioni: le norme internazionali che regolano l’uso della forza, le giustificazioni alla base delle azioni militari in Siria contro lo SI e le problematiche giuridiche che queste ultime sollevano. Va da sé che l’analisi proposta non intende sostenere o giustificare tali azioni, ma solamente offrire a scopo divulgativo una lettura della questione alla luce del diritto internazionale.

Come è regolato l’uso della forza a livello internazionale?

L’articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite (Carta ONU) pone un divieto generale agli Stati di utilizzare la forza armata in modo unilaterale. A questo divieto fanno da contrappunto tre eccezioni: la legittima difesa contro un attacco armato (articolo 51 Carta ONU); l’autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza (articoli 39‒42 Carta ONU) ‒ ad es. il caso della Libia; il consenso prestato da uno Stato alla conduzione di azioni militari straniere sul proprio territorio ‒ ad es. i recenti bombardamenti compiuti dagli Stati Uniti in Iraq contro lo SI. Al di fuori di tali eccezioni ‒ ed esclusi i casi di uso minimo della forza per salvare propri connazionali all’estero ‒ l’uso unilaterale della forza armata da parte di uno Stato viola il divieto posto dalla Carta ONU, e nei casi più gravi può qualificarsi come un atto di aggressione.

Quali giustificazioni possono avanzarsi per colpire lo SI in Siria?

Consideriamo le citate eccezioni al divieto dell’uso della forza. Una di queste può subito escludersi: l’autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Come è ben noto Russia e Cina hanno minacciato più volte di utilizzare il proprio potere di veto per bloccare l’adozione di risoluzioni che autorizzino azioni militari in Siria. Ripensamenti, seppur possibili, rimangano per ora improbabili. Vanno quindi considerate le altre due opzioni.

Primo: il consenso. Per attaccare lo SI in territorio siriano gli Stati Uniti devono ottenere il consenso del governo di Bashar al-Assad. Tale necessità deriva sia dal divieto dell’uso della forza di cui sopra, sia dal principio di sovranità degli Stati e di non-interferenza nella sovranità altrui. Assad ha recentemente affermato che non intende acconsentire ad azioni militari straniere sul proprio territorio che non siano concordate con il governo siriano. Gli Stati Uniti, dal proprio canto, rifiutano di coordinare le proprie azioni militari con quello che è considerato un nemico politico. Assad potrebbe però prestare il proprio consenso in segreto mantenendo un’opposizione di facciata ‒ un’ipotesi non troppo lontana dalla realtà. Gli Stati Uniti hanno infatti reso noto che l’ambasciatore siriano presso l’ONU è stato avvertito dei bombardamenti contro lo SI prima che questi avvenissero. L’assenza di aperte proteste o di reazioni militari da parte siriana farebbe pensare che il consenso, in qualche modo, sia stato negoziato e ottenuto. Per quanto realistiche, tuttavia, queste rimangono solamente delle ipotesi. Un esplicito consenso da parte di Assad ad azioni militari americane non è ancora stato apertamente concesso.

Legittima difesa contro lo SI?

In mancanza del consenso da parte dello Stato siriano l’unica opzione sul tavolo è invocare le legittima difesa. Ai sensi dell’articolo 51 della Carta ONU la legittima difesa può essere sia individuale ‒ uno Stato può usare la forza armata direttamente contro lo Stato aggressore ‒ che collettiva ‒ lo Stato vittima può chiedere a uno o più Stati di intervenire in proprio soccorso. Il diritto internazionale prescrive determinati requisiti affinché la forza armata possa utilizzarsi in legittima difesa: 1) uno stato deve essere vittima di un attacco armato ‒ il quale consiste in un uso della forza di una certa gravità e intensità, nonché su determinata scala; 2) l’attacco armato deve essere imminente; 3) l’uso della forza in risposta all’attacco armato deve essere necessario ‒ lo Stato vittima deve trovarsi nella condizione per cui l’uso della forza armata è l’unica alternativa possibile ‒ e proporzionato ‒ l’uso della forza è ammesso nella misura in cui è teso a neutralizzare l’attacco in atto e ad evitare che ne vengano condotti di ulteriori.

Come e da chi potrebbe essere invocata la legittima difesa nell’attuale situazione siriana?
Per invocare la legittima difesa individuale gli Stati Uniti dovrebbero essere essi stessi vittima di un attacco armato da parte dello SI. Ciò finora non è accaduto, ragion per cui questa non può costituire un’alternativa valida per utilizzare la forza.

Non rimane che la legittima difesa collettiva, la quale è esattamente la giustificazione di diritto internazionale che la rappresentante degli Stati Uniti presso il Consiglio di sicurezza, Samantha Power, ha offerto in una lettera ufficiale al Segretario dell’ONU Ban Ki-moon. In tale lettera gli Stati Uniti affermano che l’Iraq ha esplicitamente richiesto il loro intervento per porre fine agli attacchi armati dello SI; e che l’azione militare americana si rende necessaria a causa dell’incapacità del governo Assad di fronteggiare in maniera efficace il gruppo islamista. Questa possibilità potrebbe essere in linea con il diritto internazionale. Tuttavia, essendo l’aggressore un gruppo armato situato nel territorio di uno Stato sovrano, un ulteriore elemento è indispensabile: la dimostrazione che lo Stato da cui ha origine l’attacco armato sia non intenzionato (unwilling) o incapace (unable) di porre fine a tali attacchi. Nel nostro caso: che il governo di Assad si mostri non intenzionato o incapace di fermare lo SI. A parte la difficoltà nei fatti di dare una chiara dimostrazione di ciò, va detto che tale unwilling/unable test ‒ come viene definito dagli studiosi di diritto internazionale ‒ trova solo parziale consenso tra gli Stati e tra i giuristi. I rischi in seno a tale teoria sono evidenti: uno Stato potrebbe in qualsiasi momento affermare la necessità di usare la forza contro un gruppo armato presente nel territorio di un altro Stato, sulla base di una supposta non volontà o incapacità del governo di quest’ultimo di neutralizzare il gruppo in questione. In assenza di un’oggettiva valutazione delle circostanze tale teoria potrebbe ben offrire il destro ad abusi del diritto alla legittima difesa da parte di alcuni Stati.

Non è un caso che i partner occidentali degli Stati Uniti nella lotta contro lo SI ‒ Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Australia e Danimarca ‒ intendano almeno per il momento limitare il proprio appoggio militare al territorio iracheno, avendo esplicitamente affermato che non esistono basi giuridiche certe per condurre attacchi in Siria. Ragionamenti di natura politica a parte, se la suddetta teoria trovasse maggior consenso vi sarebbe meno riluttanza a giustificare azioni militari in territorio siriano. In mancanza di valide alternative, tuttavia, gli Stati Uniti hanno deciso di basarsi su tale unwilling/unable test, forse anche nella speranza che invocare questa teoria nell’attuale situazione siriana possa far sì che essa venga accettata da altri Stati e che nel tempo si consolidi in una norma giuridica internazionale.

Conclusioni

Il diritto internazionale prescrive un divieto generale dell’uso della forza, fatta eccezione in casi di autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, di consenso da parte dello Stato sul cui territorio dovrebbe aver luogo l’intervento militare, e della legittima difesa individuale o collettiva. Allo stato attuale i bombardamenti statunitensi delle roccaforti dello SI in Siria possono trovare due giustificazioni. Una ufficiosa: il consenso prestato dal governo di Assad, che però potrebbe essere ritirato in qualsiasi momento e che sicuramente pone forti limiti all’azione americana. L’altra ufficiale: la legittima difesa collettiva in aiuto del governo iracheno. Trattandosi di attacchi armati provenienti da un gruppo armato situato in territorio straniero, tuttavia, quest’ultima opzione poggia necessariamente su una teoria ‒ detta unwilling/unable test ‒ non del tutto consolidata e accettata in diritto internazionale, la quale non offre una base giuridica particolarmente solida.

Una nota finale: varie fonti riportano la notizia che in Siria gli Stati Uniti non si sono limitati ad attaccare lo SI. Uno dei bersagli dei bombardamenti sarebbe il gruppo Khorasan ‒ finora sconosciuto al grande pubblico ‒ apparentemente affiliato ad Al-Qaida. Al riguardo la citata lettera di Power indirizzata al segretario ONU si limita ad affermare che tale gruppo “costituisce una minaccia terroristica per gli Stati Uniti e i loro alleati”. Mentre vengono offerte ampie giustificazioni per gli attacchi contro lo SI, non sembra esservi la stessa esigenza per ciò che riguarda il misconosciuto gruppo Khorasan. A quanto pare gli Stati Uniti intendono giustificare l’uso della forza in base al legame del gruppo con al Qaeda, con cui gli Stati Uniti affermano di essere in guerra e per cui già esiste un’autorizzazione del Congresso americano ad usare la forza. In sostanza, considerandosi parte di un conflitto armato con al Qaeda sin dal 2001, gli Stati Uniti non reputano necessarie nuove giustificazioni per utilizzare la forza armata contro gruppi ad essa affiliati o associati. Tale ragionamento è però basato più sul diritto costituzionale americano che sul diritto internazionale, e le azioni contro il gruppo Khorasan potrebbero risultare illegali alla luce del diritto internazionale ‒ così come le azioni militari contro lo SI poggiano per ora su basi giuridiche non particolarmente solide. Il rispetto della legalità internazionale non è un fattore secondario ai fini della creazione di un ambiente politico adatto a sconfiggere lo SI. Gli strateghi e i politici statunitensi dovrebbero tenerlo bene a mente.

* Vito Todeschini è dottorando in diritto internazionale presso l’Università di Aarhus, Danimarca. Nelle sue ricerche si occupa di diritto dei conflitti armati, diritti umani, diritto internazionale penale e uso della forza internazionale. Può essere contattato all’indirizzo: vitot@law.au.dk

Riferimenti

Jennifer Daskal, Ashley Deeks and Ryan Goodman, Strikes in Syria: The International Law Framework, Just Security, 24 September 2014 (http://justsecurity.org/15479/strikes-syria-international-law-framework-daskal-deeks-goodman/);

Letter by theUS Representative to the UN, Samantha Power, to Secretary-General Ban Ki-moon concerning the international law justification for the US use of force in Syria (http://justsecurity.org/15436/war-powers-resolution-article-51-letters-force-syria-isil-khorasan-group/);

Milena Sterio, The Legality of ISIS Air Strikes Under International Law, IntLawGrrls, 12 September 2014 (http://ilg2.org/2014/09/12/the-legality-of-isis-air-strikes-under-international-law/);

Ashley Deeks, Narrowing Down the U.S. International Legal Theory for ISIS Strikes in Syria,Lawfare, 12 September 2014 (http://www.lawfareblog.com/2014/09/narrowing-down-the-u-s-international-legal-theory-for-isis-strikes-in-syria/);

Lorenzo Gradoni, Gli obblighi erga omnes, l’idioma dell’egemone e la ricerca del diritto. Ancora sull’intervento contro l’ISIS e oltre, SIDIBlog, 24 settembre 2014 (http://www.sidi-isil.org/sidiblog/?p=1085#more-1085);

Paolo Picone, Considerazioni sull’intervento militare statunitense contro l’Isis, SIDIBlog, 5 settembre 2014 (http://www.sidi-isil.org/sidiblog/?p=1070).


Fonte

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