di Raffaele Sciortino
Difficile ad oggi prevedere se il crollo della borsa cinese, che ha trascinato con sé le correzioni
delle borse mondiali, sia l’innesco di una precipitazione della crisi
globale dopo la pausa, economica in realtà più che geopolitica, degli
ultimi due, tre anni. In ogni caso ne rappresenta un passaggio di fase:
non solo la Cina sempre meno può, e vuole, fare da volano per un
Occidente in prolungata stagnazione, ma si approssima un secco redde rationem
sui circuiti di debito globali. Detto in altro modo: tende ad alzarsi
il livello dello scontro sullo scarico dei costi della crisi a partire
dagli scricchiolii del disequilibrio bilanciato1 Usa/Cina perno finora della globalizzazione.
Presentiamo
di seguito alcune provvisorie ipotesi di lettura e inquadramento degli
sviluppi in corso tentando innanzitutto una lettura non scissa tra
dimensione “interna” cinese ed “esterna”. Tutto all’opposto della
narrazione, di netto segno politico, che va imponendosi in Occidente
dove - dopo anni di idiozie giornalistiche sullo scontato “sorpasso” del
Dragone ai danni degli Usa - come d’incanto si riscoprono ora i nodi
irrisolti dello sviluppo capitalistico cinese (!) per ingiungere a
Pechino i compiti da svolgere pena la messa a rischio dell’economia mondiale.
Primo.
La svalutazione agostana dello yuan secondo la narrazione corrente
sarebbe stata la risposta al rallentamento dell’economia cinese che ha
“naturalmente” innescato il crollo di borsa. Risposta “disperata”
(addirittura!), comunque “scorretta” (come se gli stati occidentali in questi anni non avessero socializzato le immani perdite dei mercati…).
In realtà, oltreché modesta in rapporto alla guerra valutaria da tempo
in corso a scala globale, per Pechino essa doveva rappresentare un primo
passo nel percorso di internazionalizzazione della moneta attraverso un
più ampio margine di fluttuazione, del resto in ottemperanza alle
richieste del Fondo Monetario. Che non si sia trattato, almeno
principalmente, di svalutazione competitiva lo attesta anche la vendita
nell’ultimo mese di notevoli quantità di buoni del tesoro statunitensi
da pare delle autorità monetarie di Pechino proprio al fine di evitare
un’eccessiva volatilità al ribasso della valuta cinese.
Secondo.
La reazione dei “mercati” è risultata inattesa per Pechino, almeno
nelle proporzioni. Ora, nella stampa di qui si insiste quasi
esclusivamente sui milioni di piccoli risparmiatori prima allettati a
investire in borsa, previo indebitamento (margin debt), e poi
“ingannati” dal Partito-Stato che li ha lasciati al loro destino di
polli spennati. Come se le sorti delle borse fossero dettate dalle mosse
dei piccoli! Stretto silenzio, guarda caso, sulle fonti di finanziamento della bolla se non per puntare il dito contro lo shadow banking cinese (e solo cinese), neanche una parola sul meccanismo del carry trade
con cui la speculazione internazionale giocando sui differenziali dei
tassi internazionali sembra proprio abbia riversato montagne di
liquidità sul mercato finanziario cinese. Comunque sia, la stampa
finanziaria scrive ora di una vera fuga di capitali dai mercati cinesi e
in generale dei cosiddetti paesi emergenti. Capitali di chi?
Terzo. Ciò non significa ovviamente che la bolla sia una creazione “esterna” (dov’è il fuori
nella globalizzazione?). Ma, appunto, non solo la finanziarizzazione
dell’economia risponde in generale a ben tracciabili linee di
integrazione del capitalismo cinese nel mercato globale. Di più, la
formazione di bolle speculative è stato uno dei prodotti della crisi
esplosa nel 2008 cui Pechino ha risposto con il più ingente programma di
stimoli pubblici in assoluto: investimenti infrastrutturali in primis,
interni e verso Brics e paesi arretrati, e immobiliari, oltreché con una
politica accondiscendente verso le rivendicazioni salariali dal basso.
Il tutto per controbilanciare in prima battuta l’impulso recessivo
proveniente dall’epicentro occidentale della crisi globale e tenere in
piedi il chain gang con gli Stati Uniti in vista, però, di un
riorientamento complessivo del proprio sviluppo. Al di là dei fattori
legati agli equilibri interni tra industrie statali e private e tra i
differenti interessi borghesi rappresentati nel partito unico con il
risultato di sovvenzionamenti pubblici ad una pletora di investimenti
non remunerativi e di una spinta all’arricchitevi in borsa, resta che è stata l’assenza di una ripresa mondiale effettiva
- in termini di profitti e investimenti prima che di domanda - a far
emergere la sovracapacità e sovraproduzione dell’economia cinese che si
ritrova così con un livello di indebitamento lì mai visto. Di qui,
versione in salsa locale di un trend mondiale, il rigonfiamento delle
bolle, con quella immobiliare poi in parte incanalata dall’azione
statale verso le borse proprio ad evitare l’esplosione. Che quest’ultima
sia scoppiata è ora un segnale inquietante per Pechino.
Quarto. Si diceva dell’intenzione cinese di riorientamento complessivo dello sviluppo che va sotto l’etichetta di riforme.
Qui da noi banalizzate a semplice ribilanciamento a favore dei consumi
interni di un nuovo, sconfinato ceto medio e per le gioie dei suoi
rifornitori occidentali, in realtà si tratta di qualcosa di molto più
complesso e, al fondo, scardinante per i dis/equilibri globali,
economici geopolitici e di classe. È il vero banco di prova della
dirigenza cinese, che fa del Dragone potenzialmente l’anello debole (cum grano salis) della catena capitalistica mondiale. Sia perché il capitalismo cinese nella necessità di tentare il salto ad uno sviluppo - concetto un tantino differente dal mantra occidentale della crescita -
meno “squilibrato” e meno dipendente dal dollaro non potrà che
scontrarsi con gli Stati Uniti, su tutti i piani. Sia perché l’insieme
dei rapporti di classe interni che fin qui hanno caratterizzato il corso
post-denghista ne verrebbe riconfigurato (la lotta alla corruzione
ne è oggi il risvolto nel quadro dei rapporti di potere). Comunque sia,
decisivo sarà il buon esito della proiezione internazionale del
capitale cinese con la strategia delle nuove vie della seta,
del consolidamento dei legami coi Brics e dei nuovi strumenti finanziari
indipendenti da Fmi e Bm, e della parziale dedollarizzazione degli
interscambi commerciali. Così come, sul piano interno, la riuscita della
nuova fase di urbanizzazione - qui si inserisce l’estensione dell’hukou,
il permesso di residenza cui sono legati diritti e prestazioni
welfaristiche, ai lavoratori migranti - atta a modernizzare il mercato
interno e l’agricoltura, essenziale anche per far rientrare almeno parte
della capacità immobiliare oggi in eccesso. È evidente che una serie di
rovesci come quelli in corso sulla borsa cinese, oggi ancora
contenibili, metterebbero in discussione il nuovo corso anche scuotendo
la fiducia e il consenso verso il partito unico, che da agente del
capitale complessivo ne rappresenta la sola garanzia di successo.
Quinto.
Date queste condizioni complessive la bolla doveva prima o poi
scoppiare in relazione al rallentamento dell’economia “reale”. Le
autorità di Pechino ovviamente avrebbero desiderato un processo ordinato
e graduale. La svalutazione dello yuan con un primo sganciamento dallo
stretto legame col dollaro in effetti doveva servire anche a bloccare o
attutire il fenomeno del carry trade e della bolla di borsa. Così non è
stato. Ora, non è detto che la scelta della dirigenza intorno a Xi, al
di là dei delicati giochi tra fazioni che traspaiono dalle oscillanti
risposte delle autorità monetarie e sempre che la situazione non
precipiti, non sia anche quella di lasciare sgonfiare la bolla senza
massicci salvataggi all’occidentale, anche a costo di lasciare un bel
po’ di feriti sul campo, a monito del fronte interno come di quello
esterno. Tanto più in vista del cambio di rotta nella politica dei tassi
della Federal Reserve statunitense: visti i livelli di
indebitamento non è salutare arrivarci con bolle in crescita. Saranno,
in questo caso, proprio i cosiddetti liberali, cui la stampa occidentale dà così tanta tribuna, a dover spiegare come mai il mercato
(anonimo?) gioca questi brutti scherzi: qualcuno inizierà a chiedersi
se non siano gli americani a gonfiare le bolle per poi al momento giusto
farle scoppiare. Ma va detto a questo proposito che le analisi relative
agli equilibri politici interni nei termini di una contrapposizione tra
liberal e conservatori sono per lo meno semplicistiche.
Sesto.
La bolla cinese dunque non si è né gonfiata né sgonfiata per sole
dinamiche “interne”. Come che sia, le scivolate delle borse occidentali è
plausibile abbiano a che fare non solo con le news dalla Cina ma, al di
là del fattore di innesco, anche con le assai incerte prospettive della
“ripresa” (?!) in Occidente: stagnazione, calo degli investimenti,
spinte deflattive, e questo nonostante anni di massicci Quantitative Easing
in salsa yankee, nipponica e da qualche mese anche europea. In questo
quadro si inserisce poi il punto di domanda sulle prossime mosse della Federal Reserve,
che è fin qui stata il centro effettivo della governance globale nella
crisi: inizierà ad alzare per quanto moderatamente i tassi? Se sarà
così, come pare, le motivazioni reali dietro la patina di quelle
ufficiali vanno ricondotte al timore dell’ingestibilità dell’enorme
bolla finanziaria creatasi a seguito delle immissioni di liquidità di
questi anni nonché al rischio di trovarsi senza munizioni in caso di
mancata ripresa. Inizia però forse a delinearsi anche una diversa
strategia di gestione della crisi mirata a richiamare capitali negli
States dai paesi emergenti e dalla Cina su cui di contro scaricare il deleveraging, la distruzione di capitale fittizio gonfiatosi a dismisura negli anni della crisi2. Certo, a differenza del Volcker shock del ’79 la situazione è più intricata, forte è il rischio di forte impatto negativo anche
sulla finanza occidentale mentre se è vero che l’arrivo di capitali
migliorerebbe all’immediato la situazione degli Stati Uniti ciò non
farebbe venir meno le politiche deflattive sui salari e il declino della
middle class.
Insomma, alzare il tiro da parte
statunitense nei confronti di Pechino non solo rischierebbe di rompere
gli attuali fragili equilibri ma potrebbe evocare in Oriente scene da
lotte di classe dalle ripercussioni mondiali. I livelli di integrazione
dell'economia globale sono straordinariamente elevati e la direzione
dell’intero groviglio va facendosi sempre più complicato.3
Con Washington al comando la globalizzazione rischia di incasinarsi
profondamente, senza Washington di degenerare nel caos sistemico. Ma il
prezzo da pagare all’egemone-predatore è sempre più pesante. Se ne sta
accorgendo anche l’Europa, in particolare la Germania, dalla vicenda
ucraina alla destabilizzazione medio-orientale con annesso il ricatto di
scatenare un flusso inarrestabile di profughi dai paesi che proprio gli
Stati Uniti hanno destrutturato e ora mantengono non casualmente nel
caos. Si tratta certo di successi per Washington - come l’aver tratto
dalla propria parte una riottosa Berlino bloccandone per il momento la
proiezione verso Oriente, o l’aver quasi neutralizzato l’Iran
sottraendolo all’abbraccio cinese - comunque non decisivi tanto più se la
rotta di collisione con Pechino dovesse consolidarsi o accelerare.
Per
finire. Come rientra in tutto questo la lotta di classe? È il lato da
indagare. In Cina dove l’attivizzazione proletaria diffusa ancorché
frammentata non ha mai cessato di essere, come indica l’aumento dei
salari di questi anni. Ma anche registrando fuori di lì un’impasse
pressoché generale ad oggi dopo i promettenti segnali lanciati dal 2011,
dalla primavera araba al ciclo Occupy, dalle lotte in Brasile
alla Grecia. Questioni complesse, sia prese a sé, ancor più se viste
nell’insieme. Forse è il momento, se davvero si delinea all’orizzonte il
secondo tempo della crisi globale, di tentare un bilancio non retorico
in vista di un secondo tempo, si spera più fruttuoso, anche delle lotte.
Fonte
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