La storia del movimento operaio ha dimostrato che le (molte) sconfitte
piuttosto che le (ahinoi, poche) vittorie possono impartire ai comunisti
e ai rivoluzionari lezioni importanti, soprattutto se si dimostra di
voler apprendere dagli errori fatti per evitare così di essere
condannati a ripeterli all’infinito. Alla vigilia delle elezioni ci
sembra di poter dire che la vicenda greca, nonostante la rapidissima
parabola di Tsipras, passato nel giro di qualche settimana da astro
nascente a stella cadente dell’a-sinistra radicale, non sia da meno. Non avendo mai provato un particolare trasporto per l’enfant prodige
della sinistra unioneuropeista vorremmo quindi provare a mettere da
parte la categoria del tradimento, agitata dai sostenitori delusi (anche
perché secondo noi spiega ben poco), ed elencare sinteticamente alcune
delle evidenze che questi ultimi mesi hanno contribuito a far emergere
in maniera eclatante. Si tratta di questioni nodali che d’ora in avanti
non potranno più essere rimosse e che negli anni a venire finiranno
inevitabilmente per aprire una faglia sempre più larga nel campo
dell’opposizione sociale e politica. Decidere da quale parte collocarsi
non sarà cosa di poco conto.
L’Unione Europea è irriformabile. Con buona pace di
quanti ancora coltivano l’illusione dell’altra Europa possibile,
l’imposizione da parte della Troika del terzo memorandum e il cedimento
di Syriza al “ricatto” di Bruxelles dopo solo poche ore dal plebiscito
referendario (e a poche settimane dal voto anti austerità che l’aveva
portata al governo), hanno dimostrato l’assenza di ogni spazio di
riforma dell’architettura politica continentale. Abbiamo già scritto su
questo blog come il debito di Atene, seppur alto in rapporto in termini
percentuali rispetto al Pil greco rappresenti in termini assoluti ben
poca cosa rispetto al volume dell’economia europea. Parliamo di poco più
di 300 miliardi di euro a fronte di un debito italiano che, tanto per
fare un esempio, supera da solo i 2000 miliardi. Eppure fin dall’inizio
era chiaro a tutti, o almeno a tutti quelli che avevano occhi per
vedere, come tra Atene e Bruxelles non vi fosse alcun margine di
trattativa possibile. E questo non per la particolare perfidia di
Dijsselbloem, di Schaeuble o della Merkel, ma per la struttura stessa
dell’Unione Europea. Non aver compreso l’intima natura della UE e aver
portato il paese in un vicolo cieco è forse la colpa più grande che può
essere addebitata tanto a Tsipras quanto a Varoufakis che, ancora oggi,
continua a vagheggiare un New Deal europeo (leggi).
Detta così, tutta d’un fiato: l’Unione Europea è nata come necessità
strategica delle borghesie continentali di fronte all’emergere di nuovi
giganti economici nell’economia mondiale e rappresenta, al tempo stesso,
la risposta alla crisi di accumulazione del capitale che si trascina da
oltre un quarantennio e che ha corrisposto all’esaurimento del ciclo di
accumulazione fordista-keynesiano. Per dirla in altri termini, non è
possibile inquadrare e interpretare il processo di costruzione della UE
se si astrae dalla crisi dell’egemonia statunitense, dalla crescita
impetuosa della Cina e dall’acutizzarsi delle contraddizioni
interimperialistiche. Compressione dei salari e dei diritti dei
lavoratori, aumento della produttività, intensificazione dello
sfruttamento, centralizzazione e concentrazione dei capitali,
finanziarizzazione... questo, al di la dei richiami ideali all’Europa di
Spinelli e al suo Manifesto di Ventotene, è il vero DNA su cui si è
sviluppato il decennale processo di costruzione della UE. E attardarsi
ad immaginare utopici quanto inesistenti spazi pubblici europei,
come pure continua a fare certa sinistra, rischia di rivelarsi per noi
un errore imperdonabile tanto quanto lo è stato per i greci.
Sovranità popolare vs sovranità europea. Il processo
d’integrazione europea ha progressivamente svuotato di senso le
istituzioni della democrazia borghese con cui eravamo chiamati a
confrontarci, e contro cui eravamo portati a combattere, facendo saltare
le vecchie correlazioni che definivano la sovranità dello Stato
Nazione. Su tutte la possibilità di poter operare politiche fiscali e di
bilancio, oggi soggette al patto di stabilità, al fiscal compact, ecc.
ecc. Così che tutti gli strumenti della mediazione sociale stanno
progressivamente perdendo di significato, mentre allo Stato nazionale
rimangono e si accrescono le funzioni di controllo e di repressione. Uno
Stato gendarme le cui uniche funzioni ancora necessarie sono quelle
legate all’estorsione controllata di plusvalore. E’ in questa
prospettiva che si comprende l’intransigenza contro cui si è scontrato
il governo greco nell’avanzare qualsiasi proposta seppur blanda di
welfare. Lo “stato sociale” infatti, altro non è che la traduzione
concreta della necessità di mediazione. E’ lo strumento generale della
mediazione e della redistribuzione che ha caratterizzato lo sviluppo del
capitalismo europeo per un trentennio abbondante. Ma se non è più
necessario catturare il consenso dei subalterni, anche la necessità
della mediazione sociale viene meno. Il mancato rispetto del programma
anti austerità che aveva portato Syriza al governo e la disattesa
dell’esito referendario hanno però reso evidente come questo processo si
sia ulteriormente approfondito, ovvero come sull’altare della
tecnocrazia europea sia stata sacrificata anche l’ultima parvenza di
sovranità popolare, quella che l’ideologia liberale voleva riassunta
nello slogan “una testa, un voto”. La capitolazione del governo greco ha
infatti dimostrato un concetto ben espresso qualche settimana fa dal
giurista internazionale Sabino Cassese sulle colonne del Corriere della
Sera: i governi nazionali non sono più responsabili solo nei
confronti dei loro popoli, ma anche nei confronti dei governi degli
altri Stati europei (leggi).
E’ evidente come in questo contesto tutte le vecchie categorie del
potere politico (potere legislativo, potere esecutivo, ecc. ecc.) ne
escano stravolte. Un dato, quello della ridefinizione della forma stato e
della nuova struttura del potere, da approfondire e che ci coglie in un
tremendo ritardo. Si pensi ad esempio al generale disinteresse con cui
anche la sinistra di classe guarda al dibattito sulle “riforme”
costituzionali in corso nel nostro paese, quasi che la trasformazione
delle funzioni dello Stato e del potere politico siano cose lontane ed
astratte rispetto alla concretezza del nostro agire quotidiano.
La crisi come elemento costituente. L’integrazione
europea, per quanto in fase avanzata, è tuttora un processo di natura
dinamica che, in quanto tale, avanza per forme sovrastrutturali ibride,
incomplete, frutto di trattative e compromessi pragmatici volti a
tentare di sanare le contraddizioni che ogni volta emergono tra i
diversi segmenti della borghesia, oltre che le disomogeneità tra
interessi nazionali. E’ interessante notare però come la crisi abbia
rappresentato da questo punto di vista un’opportunità per imporre anche
alle frazioni borghesi più recalcitranti un’accelerazione senza
precedenti scandita dai vari tornanti della crisi stessa. Le istituzioni
finanziarie, in primo luogo la Bce, sono così andate assumendo un ruolo
sempre più cruciale nelle politiche di disciplinamento finanziario dei
paesi deboli. La fase iniziale della crisi greca ha prodotto la nascita
della troika come cabina di regia per la ristrutturazione economica dei
paesi della periferia europea. Nel maggio del 2010 è stato istituito il
Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF), ribattezzato “Fondo salva
stati”, con il compito di fornire prestiti ai paesi della zona euro per
ricapitalizzare le banche e acquistare titoli di stato. L’aiuto
dell’EFSF è però condizionato dalla domanda formale del richiedente e
soprattutto da un programma di austerity concordato con la Commissione e
il Fondo Monetario Internazionale. La crisi bancaria in Spagna ha fatto
da spunto per la centralizzazione dell’Unione bancaria. Nel 2012, con
l’attacco speculativo all’euro, l’EFSF è stato sostituito dal
“Meccanismo europeo di stabilità” (ESM) con una capacità di prestito di
650 miliardi. E’ però soprattutto il cosiddetto “Fiscal Compact” a
segnare un cambio di passo. Il 2 marzo del 2012 viene firmato da 25 dei
27 stati membri il “Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la
governance nell’Unione economica e monetaria”. L’accordo prevede per i
paesi contraenti l’obbligo della costituzionalizzazione del pareggio di
bilancio, l’impegno a non superare il deficit dello 0,5% del Pil e a
ridurre il debito di un ventesimo ogni anno fino a raggiungere il 60%
del Pil, con sanzioni automatiche per chi non si attenga agli obblighi
dell’accordo. Tanto l’EFSF e l’ESM quanto il Fiscal Compact hanno così
determinato la federalizzazione di fatto delle politiche di bilancio
delimitando in maniera rigida i confini delle politiche economiche degli
stati membri, declassando gli stessi al ruolo di “amministrazioni
locali”. Gli ultimi mesi di gestione della crisi greca hanno invece
registrato il debutto dell’Eurogruppo quale organo esecutivo della zona
euro, una novità di cui dovrà essere valutata la reale portata nei
prossimi mesi. Si tratta, per essere chiari, di una sorta di “Senato”
costituito dai 19 ministri delle finanze dei paesi della zona euro che
ha gestito le contrattazioni ed imposto le proprie condizioni
sopravanzando il ruolo della stessa Commissione, pur non avendo alcuna
legittimità formale. E’ significativa al riguardo la risposta ufficiale
fornita dallo stesso Eurogruppo di fronte alle rimostranze di Varoufakis
che lamentava il fatto di essere stato escluso dalla riunione dello
scorso 27 giugno: L’Eurogruppo è un gruppo informale. Non è regolato
da Trattati o norme scritte. Convenzionalmente si cerca l’unanimità, ma
il Presidente dell’Eurogruppo non è legato da regole esplicite. A buon intenditor... poche parole.
Oltre a queste macro lezioni la vicenda greca ci fornisce però altri
insegnamenti, che hanno a che fare con noi e con il nostro agire
politico. Tra questi uno ci pare estremamente significativo. In questi
ultimi anni la Grecia ha mostrato un livello di conflittualità sociale
senza eguali in tutta Europa. Una lunga teoria di lotte e scioperi ha
più volte paralizzato l’intero Paese coinvolgendo settori maggioritari
dei salariati e dell’intera popolazione. La manifestazione plastica di
questa generalizzazione del conflitto sta nelle decine di foto che
immortalavano cittadini “comuni” scagliarsi contro chi, in quel momento,
rappresentava lo Stato in piazza. Eppure questa enorme e generosa
ondata di protesta è andata a infrangersi contro lo scoglio della totale
assenza di un pensiero strategico e di un’organizzazione
rivoluzionaria. Una strategia e un organizzazione che non nascono
spontaneamente dalle lotte, per quanto queste siano estese, per quanto
queste siano intense. Una strategia ed un’organizzazione che dalle lotte
imparano, delle lotte si nutrono, ma che sono il risultato dell’azione
cosciente, meticolosa e caparbia dei rivoluzionari. Una verità, questa,
vecchia almeno quanto il “Che fare?” ma che gli ultimi decenni avevano
relegato nell’oblio insieme a tutto il pensiero leniniano. E’ questa la
sfida epocale che ci si pone di fronte e che bisogna affrontare,
consapevoli di camminare lungo un crinale scivolosissimo. Da un lato si
rischia di cadere nello strategismo, nel settarismo,
nell’autocompiacimento impotente di chi si accontenta di avere la
migliore teoria del mondo, ma poi non sposta nulla. Dall’altro lato il
rischio è quello di rimanere impantanati nell’economicismo di chi crede
di arrivare al socialismo una vertenza dopo l’altra, o peggio ancora nel
piccolo cabotaggio tatticista di chi si accontenta dell’orizzonte che
ci viene imposto, perché in fondo “di più non si poteva fare”. In mezzo
però c’è la Politica, quella con la P maiuscola, e la lotta per il
potere, inteso qui, anche, come l’infinito del possibile.
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