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09/09/2016

La guerra civile in Francia e le sconfitte del movimento 5 stelle a Roma

Pochi testi, per capire la situazione romana del movimento 5 stelle, sono utili e illuminanti come La guerra civile in Francia di Marx. In molti penseranno che, così scrivendo, si esagera e che, ad esempio, usare l’autore del Capitale in questo contesto è come leggere le controversie sul parcheggio nel cortile del condominio attraverso i classici del diritto internazionale. Nel caso, chi lo sostiene sbaglia. Perché la vicenda romana, non solo quella recente del movimento 5 stelle ma anche le puntate precedenti, ci dice molto delle trasformazioni di territori in cui si agitano forze sia locali che globali. Poi ci sono coloro che pensano che l’uso di Marx è qualcosa di pretenzioso, o vetero o inutile. Fortunatamente, l’analisi politica usa solo ciò che è utile e non quello che, comunemente, si ritiene consono.
 
Tornando, appunto, a Marx è interessante notare come l’analisi dell’evoluzione dello stato francese, quella avvenuta dopo la rivoluzione del 1789, costruisca categorie di analisi utili anche per il nostro caso. Marx, parlando della trasformazioni della forma stato, successive alla rivoluzione francese la inquadra in questo modo:

“il governo, posto sotto il controllo parlamentare, (...), non diventò solamente l'incubatrice di enormi debiti pubblici e di imposte schiaccianti; con la irresistibile forza di attrazione dei posti, dei guadagni e delle protezioni, esso non solo diventò il pomo della discordia tra fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti; ma anche il suo carattere politico cambiò di pari passo con le trasformazioni economiche della società”.

C’è un primo aspetto che vale la pena di evidenziare nell’analisi di Marx, il rapporto tra controllo politico dello stato, crescita vertiginosa del debito pubblico e aumento delle tasse (stato come “l'incubatrice di enormi debiti pubblici e di imposte schiaccianti”). Nell’immaginario, ma anche purtroppo nella ricerca storiografica, si impone un diretto rapporto tra debito pubblico e ruberie di ogni genere. Come se, proprio contando nell’immaginario ottocentesco dell’assalto alla diligenza, furto e crisi dello stato si spiegassero reciprocamente. Le cose invece si fanno più complicate, e pronte a fornire una spiegazione più estesa dei fenomeni, se si va a mettere in rapporto la crescita della borsa di Parigi con quella del debito pubblico dello stato francese.

A partire dalla fine degli anni ’30 dell’ottocento, decollano numero e valore dei titoli della borsa di Parigi e, piano piano, anche i debiti dello stato francese. Quando Marx, nella Guerra civile in Francia, ci parla della Comune di Parigi, lo stato francese ha già prodotto montagne di debiti e visto consumare una storica stagione di borsa sotto Napoleone III. L’altro elemento importante è la concezione, che emerge in Marx, dello stato come elemento di attrazione della feroce lotta tra bande, tra reti di ceti che si vogliono egemoni e di governo (stato come “pomo della discordia tra fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti”). Nelle letterature della regolazione, che vedono sempre un elemento interno od esterno allo stato capace di farne sfiammare le patologie, la crisi del debito fa comunque emergere ceti e strumenti normativi, di governo capace di razionalizzarlo.

In Marx la crisi del debito, che va vista in sinergia con l’esplosione della borsa, genera o alimenta una lotta feroce tra classi dirigenti. Lo scontro avviene in nome dei processi di razionalizzazione dello stato e, in suo nome, finisce per non cessare mai. L’altro elemento importante, rilevato da Marx nell’evoluzione della forma stato dopo la rivoluzione francese, sta nel rapporto tra istituzioni ed evoluzione dei processi economici (dove, per Marx, “il carattere politico dello stato” cambiava “di pari passo con le trasformazioni economiche della società”). Allora l’evoluzione dello stato avveniva in nome dell’impetuosa crescita dei processi produttivi, e del conflitto capitale e lavoro, attraverso il gigantismo industriale, l’immensa distesa di macchine giganti visibili dalle Dark Satanic Mills di William Blake.

E’ interessante notare come, nella seconda globalizzazione, la nostra, le istituzioni politiche attraversino, nell’occidente capitalistico compreso il Giappone, le dinamiche di crisi viste da Marx nello stato francese durante l’alba della prima globalizzazione, quella che viene periodizzata dal 1871 fino allo scoppio della prima guerra mondiale. 

Esplosione del debito in rapporto all’esplosione degli indici di borsa – del resto è ormai luogo comune la storia del rapporto tra esplosione del debito pubblico e sua mercatizzazione in Italia scontro tra classi dirigenti nella gestione dello stato e del debito (e la moralizzazione del debito, che lo si consideri giusto o ingiusto, è un lascito ottocentesco a questo nostro mondo), evoluzione delle istituzioni politiche di pari passo con i processi economici. Processi che sono molto diversi dal capitalismo di Marx, ma, bisogna dire, che rispetto allora è differente anche lo stato. O meglio quella miriade di istituzioni, raccolte faticosamente nella forma stato contemporanea, che dal locale allo stato centrale riproducono oggi incessantemente la stessa crisi vista da Marx: aumento del debito, lotta tra fazioni nella sua gestione più simile alla parodia che ai processi di regolazione, trasformazione dell’istituzione (sia locale, centrale o regionale) assieme ai processi economici. Certo, esiste la governance, come quella europea multilivello, ma serve a spostare il debito altrove, a trasferirlo negli stati deboli associati ai processi di governance, a esternalizzare le crisi presso classi dirigenti folkloristiche in lotta fra loro. E a riprodurre una concezione dell’economia della concorrenza che si vuole in grado di cavalcare le evoluzioni del mondo economico reale.

La governance europa, con buona pace di tante mitologie attuali (compresa quella dei banchieri centrali, sacerdoti della regolazione), serve a far si che gli stati più forti, tra quelli che si associano in questi processi, trasferiscano il peso della del crisi del debito, quello della alta conflittualità delle classi dirigenti e la subordinazione delle istituzioni ai processi economici presso gli stati più deboli. La governance europea si configura così come il dispositivo del trasferimento del rischio, tipico dello stato moderno dall’800 a noi, dagli stati più forti a quelli più deboli. Un dispositivo di trasferimento che, lo si capisce dallo stesso trattato di Roma del ’57 all’origine della successiva governance europea, è tanto più efficace e feroce tanto più è spoliticizzato e opacizzato dalle norme.

La vicenda romana, di una metropoli che naturalmente ha specificità sia locali che globali, va letta in questo scenario. Non in quello della violazione o meno del non-statuto del movimento 5 stelle, del mantenimento o meno della parola data di fronte a qualche assemblea o nelle pieghe di un post su Facebook. E nemmeno sul piano delle trasmissioni che rivelano mail, sms, dibattiti di chat. Usciamo dalla spettacolarizzazione dello scandalo, che è un gioco di palazzo, per andare alla sostanza dei problemi. Infatti è proprio in questo scenario, emerso all’alba della prima globalizzazione, che ritroviamo le criticità delle istituzioni locali. Lo scenario della esplosione del debito, in parallelo con la crescita della finanziariarizzazione della vita pubblica compresa quella locale, quello della lotta infinita tra ceti dirigenti per garantirsi il controllo di queste istituzioni rigonfie di debito, quello del rapporto tra evoluzioni delle istituzioni e mutazioni dell’economia. Lo scenario storico dello stato francese, all’indomani della rivoluzione alla vigilia della Comune, lo scenario delle istituzioni italiane anche nella sua forma locale attuale: la globalizzazione, che sia dell’ottocento o del ventunesimo secolo, non tradisce nel presentare delle regolarità di scenario e di comportamento degli attori.

E non si pensi sia un problema solo italiano: basta vedere la crisi finanziaria dei Laender tedeschi o cosa è accaduto alle finanze delle autonomie locali spagnole dopo lo scoppio della bolla delle banche del 2011. Ma la politica italiana, per non parlare dei suoi pessimi giornali nazionali e locali, è troppo assetata di vittime di paese per far emergere il problema. Quest’anno cade il ventennale della fondazione del gruppo Dexia, una finanziaria per istituzioni che di esplosione del debito pubblico locale, a livello continentale, ne sa qualcosa avendola alimentata. Salvo poi scottarsi le dita, con la crisi del 2008, ed essere salvata sempre con fondi pubblici. Tutte queste storie, quelle che rappresentano i problemi veri del debito pubblico, sono clandestine. Il mainstream italiano vuole soprattutto figure tardopasoliniane come quelle di Buzzi come bersaglio emotivo e capro espiatorio. Il resto, il mondo reale, cosa vuoi che sia.

Inoltre l’esplosione del debito, a livello centrale o di enti locali, è un catalizzatore per cordate e aspiranti ceti politici. Invece di respingere partiti, cartelli elettorali ne attira di nuovi. Nella concorrenza tra cordate politiche per assumere il ruolo di regolatore del rapporto tra grandi imprese e stato (basta vedere le evoluzioni del rapporto tra imprese e ceto politico nei grandi appalti per avere un’idea paradigmatica del fenomeno); nella possibilità, per alcune cordate politiche, di assumere uno status sociale altrimenti negato dalla stagnazione economica; nell’offerta di nuove cordate di “razionalizzatori”, tagliatori, sterilizzatori della spesa pubblica che si impone sempre ad ogni stagione critica della massa di debito presente (che poi il debito serva ad allargare i mercati finanziari, come quello delle obbligazioni, lo sanno anche i bambini, e questo è uno dei motivi per cui esplode. Ma è un’altra vicenda).

Il movimento 5 stelle nasce, e trova un consenso diffuso e risultati elettorali seri, proprio in questo contesto: esplosione del debito (che anche quest’anno ha toccato livelli record), richiesta di un ceto politico nuovo in grado di affrontare questa esplosione. A differenza dei ceti politici precedenti, che si sono imposti con linguaggio mediatico neofrancescano (l’austerità) per proporre veri e propri tagliatori di spesa pubblica (vedendola esplodere lo stesso), il movimento cinque stelle non predica francescanesimo verso gli altri ma, prima di tutto, su sé stesso (la riduzione degli stipendi e il risparmio sui rimborsi). Come spettacolo della carità funziona, del resto il nostro è un paese ancora a forte substrato culturale cattolico (e, gratta gratta, le categorie politiche, si sa, sono teologia adattata a un mondo scristianizzato), e il consenso è stato di grosse proporzioni. Il processo di moralizzazione del debito avanzato dal movimento 5 stelle era quindi diverso da quello, diciamo, montiano. Non la dichiarazione dell’immoralità (la morale è uno strumento comunicativo sempre di forte impatto) del debito per il taglio delle risorse alla popolazione, in nome dell’austerità, ma una dichiarazione di immoralità del debito che richiede risparmio, della politica, e redistribuzione di quanto risparmiato.

Qui sta la forza e la debolezza del brand a 5 stelle: nella concorrenza tra ceti politici nel governo del debito una parte si vuole garanzia di riduzione del debito, immorale e acquisisce consenso e, anche, garanzia di redistribuzione verso il basso, e il consenso arriva copiosamente. Il punto è che tenere assieme i due elementi forti del brand, debito basso prima di tutto e redistribuzione all’ordine del giorno, è materialmente impossibile. Almeno in questa economia, in questa globalizzazione, con questi assetti normativi e con un’economia italiana stimata, fino al 2050, con tassi di crescita attorno all’uno per cento. E questo vale, tanto più, a livello di governo locale dove il pilota automatico della contrazione del debito, inserito nelle leggi di bilancio, esclude a priori ogni significativa redistribuzione. Oltretutto le retoriche, legittime, dell’immoralità del debito alimentano quel processo di contrazione di bilancio delle istituzioni, che alimenta, a sua volta, le privatizzazioni e quindi le ineguaglianze, bloccando ogni redistribuzione.

Ora, sappiamo benissimo che lo stato italiano, enti locali compresi, non certo è lo stato minimo sognato da Nozick, nè va certo verso lo zero state sognato da qualche più radicale anarcoliberista americano. Ma, nel primato della politica della riduzione del debito, su quel piano impossibile che vuole sia la riduzione del debito che il nutrimento dei mercati finanziari, le prestazioni sociali sono da stato minimo e si sono incamminate verso la dimensione dello zero state. Il movimento 5 stelle si è immesso nella dinamica di concorrenza tra ceti politici, nella lotta per l’assunzione del comando del governo del debito nazionale e locale, secondo delle coordinate che sono moralmente coerenti ma materialmente impossibili. Perché tanto più si farà garante dell’abbattimento del debito immorale tanto più dovrà prestare il fianco all’immoralità dell’assenza di una redistribuzione reale. Da qui arrivano molti più problemi di qualche fuga di notizie, di qualche intervista rilasciata frettolosamente. Perché se la morale è un potente vettore comunicativo mancando poi il dispositivo politico-economico, nonché la fecondità di un bacino reale di critica del diritto per scardinare l’assetto normativo esistente (invece di santificare la legalità anche quando serve solo ad azzerare ogni ipotesi redistributiva), per risolvere questi problemi il risultato è quello del debutto romano.

Una giunta ed un assetto di governo fatti per tenere fede all’immagine, intesa come coerenza morale da mostrare a tutti, e che si rivela invece un fragile e scivoloso equilibrio di compromesso da cerchie dello stesso cartello elettorale. Compromesso che, essendo basato su dinamiche di posizionamento interno e non di progetto politico, è saltato al primo problema reale e alla prima incursione dei media. Nessuno imputa ai cinque stelle la coerenza morale anzi, è servita per mandare a casa un po' di ceto politico parassitario, il problema è l’assenza di un progetto materiale. Recentemente un membro del direttorio, del quale è perlomeno lecito aspettarsi un peso nel movimento 5 stelle, ha tirato fuori un ordine del giorno economico di conclamato surrealismo. Passi, per modo di dire, la sua proposta di referendum consultivo sull’euro, giusto per pensare un gioco utile a farsi impallinare dalla speculazione finanziaria globale in un modo più festoso di quello fatto dagli Hedge Fund durante la Brexit. Ma quella, sempre dello stesso membro, di uscire dall’euro e, allo stesso tempo, chiedere gli eurobond per mutualizzare il debito pubblico italiano, e sterilizzarne la portata, è di un surrealismo che, nel parlamento italiano, mancava. Pensare di far saltare l’architettura dell’euro, facendo fare un bel botto ai mercati e alla Germania, e poi farsi pagare dai tedeschi il debito pubblico italiano in effetti è qualcosa di spettacolarmente ardito. Praticabile in un gioco di ruolo su tablet o pc, naturalmente.

Certo, battute a parte, ci sono diversi momenti nel movimento 5 stelle che non trovano coerenza non certo morale ma politica, materiale. C’è stata la capacità di Grillo, e di gruppi di militanti dal basso, di attivare immaginario e pratiche eque e solidali, c’è stato l’aziendalismo di Casaleggio, anche nel senso di coltivazione di immaginario e pratiche di Pmi. Ci sono pulsioni da costuzionalismo popolare e di sinistra della “difesa dei diritti”. E tentativi di farsi carico del debito pubblico in senso tecnico, magari mettendo in conto forti tagli. In qualche modo questo aggregato di valori e pratiche oggi non sta più insieme. O meglio, non sta insieme, come vediamo, come teoria e strumento di governo. Perché c’è un equivoco di fondo. Questo non è un paese, come ha detto un altro membro del direttorio, che “bisogna far tornare normale, facendo funzionare le cose”. Questo è un paese che non tornerà mai più alla normalità immaginata, e che deve attraversare molti, innovativi, cambiamenti prima di trovare un new normal che tenga. E le cose, oggi, se funzionano sono fatte per mettere in difficoltà la coerenza morale del movimento 5 stelle.

Il terzo elemento di analisi marxiano, dopo l’esplosione del debito e la messa in concorrenza tra ceti politici per il suo governo, è un’altra questione che il movimento 5 stelle si trova ad affrontare. Il rapporto tra istituzioni ed evoluzioni dell’economia. In questo senso le istituzioni locali si trovano, di per sé, ad un bivio piuttosto doloroso: da una parte decrescono come peso economico, di potere, dall’altra sono essenziali per lo sviluppo di un’economia che ha importanti ricadute nella dimensione locale e anche in quella ambientale. L’economia dello smaltimento dei rifiuti è uno di questi settori che, nella sua evoluzione, incide sulle mutazioni dei meccanismi amministrativi ed istituzionali. Tanto più infatti si è privatizzata, tanto più le istituzioni locali hanno dovuto adattare la propria forma di governo alle privatizzazioni, alla finanziarizzazione, alla globalizzazione. Ora non ha, almeno per chi guarda dall’esterno, importanza cartografare al millimetro la geopolitica dello scontro, spettacolarizzato sui media, tra direttorio 5 stelle nazionale, direttorio romano, sindaco e leader del movimento. E’ importante invece vedere come la sostanza dello scontro – ad esempio sulle competenze tra assessore alle partecipate e assessore all’ambiente tocchi proprio la gestione dell’economia dello smaltimento dei rifiuti. E quindi un’economia reale, si è calcolato che questa economia fatturi un miliardo di euro l’anno in area romana, e un tessuto delicatissimo di legami e trasformazioni che passano tra economia (in questo caso dei rifiuti) e mutazioni istituzionali (che, sempre in questo caso, investono le trasformazioni della PA tramite la legge Madia e non solo).

Non stupisce quindi che lo scontro, all’interno del movimento 5 stelle, sia passato dall’economia dei rifiuti, che rappresenta un nesso delicato economia-amministrazione, che sia dovuto ad un assetto organizzativo interno di M5S ancora molto acerbo per questo genere di problemi e che, last but not least, viva sullo scenario del grande debito della capitale. Certo più i problemi si personalizzano, più rivestono il volto di persone in carne ed ossa, meno si risolvono. Qui non ci sono tanto, o solo, errori personali, rapporti nervosi tra cerchie di persone differenti all’interno dello stesso cartello elettorale. Qui ci sono questioni strutturali, tipiche non tanto di questo paese ma delle economie finanziarizzate, che sono state viste, forse per la prima volta da questo movimento, ben in faccia: esplosione del debito nelle istituzioni, concorrenza tra ceti politici per il suo governo (e l’attacco dei media al movimento 5 stelle si spiega anche con il fatto che chi concorre, contro di loro, per il potere, ha il favore del mainstream), problema del governo delle mutazioni che i nessi economici impongono alle istituzioni. Marx puro, si direbbe, mettendosi a leggere La guerra civile in Francia.

Il rischio che oggi corre il movimento 5 stelle, se non si struttura all’altezza delle sfide complesse delle nostre società, è quello di fare un po' la Lega (cavalcando spinte umorali, è un metodo che ha portato Salvini dal tre al 15 per cento) un po' Monti (la Raggi che intima ai partiti di stare lontano dalla giunta, oltre a seguire un ormai vecchio adagio, rappresenta un’autostrada verso la concezione dei “tecnici che tagliano il debito su criteri oggettivi”). Il rischio però, quando si è al governo, è che un elemento entri in conflitto con l’altro. All’opposizione tutto si può sovrapporre e confondere alimentando, anche in modo paradossale, la spinta alla conquista del palazzo. Dal giorno dopo l’entrata nel palazzo, le formule del consenso del giorno precedente possano diventare velenose, rendendo l’aria irrespirabile in poco tempo.

In questo senso, l’esperienza livornese, che pure ha avuto attenzione seria da Roma, non ha ancora insegnato tutto al movimento 5 stelle. Curiosamente, verso il movimento 5 stelle, ha speso parole di saggezza Il Messaggero, giornale di incrocio tra mattone, ceto politico e pressione mediatica delle lobby: “nessun movimento politico che si ritenga e proclami autosufficiente e lontano da contagi può farcela, tagliando ogni legame con la parte migliore della società civile. [..]. Gramsci nel secolo scorso diceva che per avere successo in politica bisogna conquistare le casematte del sapere. Frase profetica e illuminante che fece il successo del Pci nel dopoguerra”. C’è un modo di destra e uno di sinistra per rispondere all’esortazione del Messaggero. Il modo di destra è quello di prender sul serio le parole di quella testata. In quel lessico, parlare di società civile, di Gramsci, stravolgendo il significato dei concetti usati, significa concertazione tra ceti dirigenti. Grandi parole, per riproporre la solita vampirizzazione delle risorse della società. Il modo di sinistra non è certo quello dei direttori, tra l’altro il direttorio rappresenta la fase di declino della rivoluzione francese quindi il concetto è quantomeno malaugurante, ma quello di una solida apertura alla società e alle sue casematte del sapere. Qualcosa di molto diverso dal prendere decisioni in una chat di Whatsup, per intenderci, in un paese che ha bisogno di far valere, di nuovo, il peso della decisione collettiva in un epoca molto controversa.

Di fronte a trasformazioni epocali o destra, o sinistra: tertium non datur, insomma. Magari in forme nuove e quello è il bello dei processi storici. La politica impone pero’ sempre scelte dolorose. E per queste scelte un autore, come Marx, spesso erroneamente rappresentato come manicheo, una strada, almeno per l’analisi, ce la fornisce.

Per Senza Soste, nique la police
9 settembre 2016

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