Pochi testi, per capire la situazione romana del movimento 5 stelle, sono utili e illuminanti come La guerra civile in Francia di Marx.
In molti penseranno che, così scrivendo, si esagera e che, ad esempio,
usare l’autore del Capitale in questo contesto è come leggere le
controversie sul parcheggio nel cortile del condominio attraverso i
classici del diritto internazionale. Nel caso, chi lo sostiene sbaglia. Perché la vicenda romana, non solo quella recente del movimento 5 stelle
ma anche le puntate precedenti, ci dice molto delle trasformazioni di
territori in cui si agitano forze sia locali che globali. Poi ci sono
coloro che pensano che l’uso di Marx è qualcosa di pretenzioso, o vetero
o inutile. Fortunatamente, l’analisi politica usa solo ciò che è utile e
non quello che, comunemente, si ritiene consono.
Tornando, appunto, a Marx è interessante
notare come l’analisi dell’evoluzione dello stato francese, quella
avvenuta dopo la rivoluzione del 1789, costruisca categorie di analisi
utili anche per il nostro caso. Marx, parlando della trasformazioni
della forma stato, successive alla rivoluzione francese la inquadra in
questo modo:
“il governo, posto sotto il
controllo parlamentare, (...), non diventò solamente l'incubatrice di
enormi debiti pubblici e di imposte schiaccianti; con la irresistibile
forza di attrazione dei posti, dei guadagni e delle protezioni, esso non
solo diventò il pomo della discordia tra fazioni rivali e gli
avventurieri delle classi dirigenti; ma anche il suo carattere politico
cambiò di pari passo con le trasformazioni economiche della società”.
C’è un primo aspetto che vale la
pena di evidenziare nell’analisi di Marx, il rapporto tra controllo
politico dello stato, crescita vertiginosa del debito pubblico e aumento
delle tasse (stato come “l'incubatrice di enormi debiti
pubblici e di imposte schiaccianti”). Nell’immaginario, ma anche
purtroppo nella ricerca storiografica, si impone un diretto rapporto tra
debito pubblico e ruberie di ogni genere. Come se, proprio contando
nell’immaginario ottocentesco dell’assalto alla diligenza, furto e crisi
dello stato si spiegassero reciprocamente. Le cose invece si fanno più
complicate, e pronte a fornire una spiegazione più estesa dei fenomeni,
se si va a mettere in rapporto la crescita della borsa di Parigi con
quella del debito pubblico dello stato francese.
A partire dalla fine degli anni ’30 dell’ottocento, decollano
numero e valore dei titoli della borsa di Parigi e, piano piano, anche i
debiti dello stato francese. Quando Marx, nella Guerra civile in Francia,
ci parla della Comune di Parigi, lo stato francese ha già prodotto
montagne di debiti e visto consumare una storica stagione di borsa sotto
Napoleone III. L’altro elemento importante è la concezione, che
emerge in Marx, dello stato come elemento di attrazione della feroce
lotta tra bande, tra reti di ceti che si vogliono egemoni e di governo
(stato come “pomo della discordia tra fazioni rivali e gli avventurieri
delle classi dirigenti”). Nelle letterature della regolazione, che
vedono sempre un elemento interno od esterno allo stato capace di farne
sfiammare le patologie, la crisi del debito fa comunque emergere ceti e
strumenti normativi, di governo capace di razionalizzarlo.
In Marx la crisi del debito, che
va vista in sinergia con l’esplosione della borsa, genera o alimenta
una lotta feroce tra classi dirigenti. Lo scontro avviene in
nome dei processi di razionalizzazione dello stato e, in suo nome,
finisce per non cessare mai. L’altro elemento importante, rilevato da
Marx nell’evoluzione della forma stato dopo la rivoluzione francese, sta
nel rapporto tra istituzioni ed evoluzione dei processi economici
(dove, per Marx, “il carattere politico dello stato” cambiava “di pari
passo con le trasformazioni economiche della società”). Allora
l’evoluzione dello stato avveniva in nome dell’impetuosa crescita dei
processi produttivi, e del conflitto capitale e lavoro, attraverso il
gigantismo industriale, l’immensa distesa di macchine giganti visibili
dalle Dark Satanic Mills di William Blake.
E’ interessante notare come,
nella seconda globalizzazione, la nostra, le istituzioni politiche
attraversino, nell’occidente capitalistico compreso il Giappone, le
dinamiche di crisi viste da Marx nello stato francese durante l’alba
della prima globalizzazione, quella che viene periodizzata dal 1871 fino
allo scoppio della prima guerra mondiale.
Esplosione del
debito in rapporto all’esplosione degli indici di borsa – del resto è
ormai luogo comune la storia del rapporto tra esplosione del debito
pubblico e sua mercatizzazione in Italia – scontro tra classi dirigenti
nella gestione dello stato e del debito (e la moralizzazione del debito,
che lo si consideri giusto o ingiusto, è un lascito ottocentesco a
questo nostro mondo), evoluzione delle istituzioni politiche di pari
passo con i processi economici. Processi che sono molto diversi dal
capitalismo di Marx, ma, bisogna dire, che rispetto allora è differente
anche lo stato. O meglio quella miriade di istituzioni, raccolte
faticosamente nella forma stato contemporanea, che dal locale allo stato
centrale riproducono oggi incessantemente la stessa crisi vista da
Marx: aumento del debito, lotta tra fazioni nella sua gestione più
simile alla parodia che ai processi di regolazione, trasformazione
dell’istituzione (sia locale, centrale o regionale) assieme ai processi
economici. Certo, esiste la governance, come quella europea
multilivello, ma serve a spostare il debito altrove, a trasferirlo negli
stati deboli associati ai processi di governance, a esternalizzare le
crisi presso classi dirigenti folkloristiche in lotta fra loro. E a
riprodurre una concezione dell’economia della concorrenza che si vuole
in grado di cavalcare le evoluzioni del mondo economico reale.
La governance europa, con buona
pace di tante mitologie attuali (compresa quella dei banchieri centrali,
sacerdoti della regolazione), serve a far si che gli stati più forti,
tra quelli che si associano in questi processi, trasferiscano il peso
della del crisi del debito, quello della alta conflittualità delle
classi dirigenti e la subordinazione delle istituzioni ai processi
economici presso gli stati più deboli. La governance europea si
configura così come il dispositivo del trasferimento del rischio,
tipico dello stato moderno dall’800 a noi, dagli stati più forti a
quelli più deboli. Un dispositivo di trasferimento che, lo si capisce
dallo stesso trattato di Roma del ’57 all’origine della successiva
governance europea, è tanto più efficace e feroce tanto più è
spoliticizzato e opacizzato dalle norme.
La vicenda romana, di una metropoli che naturalmente ha specificità sia locali che globali, va letta in questo scenario.
Non in quello della violazione o meno del non-statuto del movimento 5
stelle, del mantenimento o meno della parola data di fronte a qualche
assemblea o nelle pieghe di un post su Facebook. E nemmeno sul piano
delle trasmissioni che rivelano mail, sms, dibattiti di chat. Usciamo
dalla spettacolarizzazione dello scandalo, che è un gioco di palazzo,
per andare alla sostanza dei problemi. Infatti è proprio in questo
scenario, emerso all’alba della prima globalizzazione, che ritroviamo le
criticità delle istituzioni locali. Lo scenario della esplosione del
debito, in parallelo con la crescita della finanziariarizzazione della
vita pubblica compresa quella locale, quello della lotta infinita tra
ceti dirigenti per garantirsi il controllo di queste istituzioni
rigonfie di debito, quello del rapporto tra evoluzioni delle istituzioni
e mutazioni dell’economia. Lo scenario storico dello stato francese,
all’indomani della rivoluzione alla vigilia della Comune, lo scenario
delle istituzioni italiane anche nella sua forma locale attuale: la
globalizzazione, che sia dell’ottocento o del ventunesimo secolo, non
tradisce nel presentare delle regolarità di scenario e di comportamento
degli attori.
E non si pensi sia un problema
solo italiano: basta vedere la crisi finanziaria dei Laender tedeschi o
cosa è accaduto alle finanze delle autonomie locali spagnole dopo lo
scoppio della bolla delle banche del 2011. Ma la
politica italiana, per non parlare dei suoi pessimi giornali nazionali e
locali, è troppo assetata di vittime di paese per far emergere il
problema. Quest’anno cade il ventennale della fondazione del
gruppo Dexia, una finanziaria per istituzioni che di esplosione del
debito pubblico locale, a livello continentale, ne sa qualcosa avendola
alimentata. Salvo poi scottarsi le dita, con la crisi del 2008, ed
essere salvata sempre con fondi pubblici. Tutte queste storie, quelle
che rappresentano i problemi veri del debito pubblico, sono clandestine.
Il mainstream italiano vuole soprattutto figure tardopasoliniane come
quelle di Buzzi come bersaglio emotivo e capro espiatorio. Il resto, il
mondo reale, cosa vuoi che sia.
Inoltre l’esplosione del debito,
a livello centrale o di enti locali, è un catalizzatore per cordate e
aspiranti ceti politici. Invece di respingere partiti, cartelli
elettorali ne attira di nuovi. Nella concorrenza tra cordate
politiche per assumere il ruolo di regolatore del rapporto tra grandi
imprese e stato (basta vedere le evoluzioni del rapporto tra imprese e
ceto politico nei grandi appalti per avere un’idea paradigmatica del
fenomeno); nella possibilità, per alcune cordate politiche, di assumere
uno status sociale altrimenti negato dalla stagnazione economica;
nell’offerta di nuove cordate di “razionalizzatori”, tagliatori,
sterilizzatori della spesa pubblica che si impone sempre ad ogni
stagione critica della massa di debito presente (che poi il debito serva
ad allargare i mercati finanziari, come quello delle obbligazioni, lo
sanno anche i bambini, e questo è uno dei motivi per cui esplode. Ma è
un’altra vicenda).
Il movimento 5 stelle nasce, e
trova un consenso diffuso e risultati elettorali seri, proprio in questo
contesto: esplosione del debito (che anche quest’anno ha toccato
livelli record), richiesta di un ceto politico nuovo in grado di
affrontare questa esplosione. A differenza dei ceti politici
precedenti, che si sono imposti con linguaggio mediatico neofrancescano
(l’austerità) per proporre veri e propri tagliatori di spesa pubblica
(vedendola esplodere lo stesso), il movimento cinque stelle non predica
francescanesimo verso gli altri ma, prima di tutto, su sé stesso (la
riduzione degli stipendi e il risparmio sui rimborsi). Come spettacolo
della carità funziona, del resto il nostro è un paese ancora a forte
substrato culturale cattolico (e, gratta gratta, le categorie politiche,
si sa, sono teologia adattata a un mondo scristianizzato), e il
consenso è stato di grosse proporzioni. Il processo di moralizzazione
del debito avanzato dal movimento 5 stelle era quindi diverso da quello,
diciamo, montiano. Non la dichiarazione dell’immoralità (la morale è
uno strumento comunicativo sempre di forte impatto) del debito per il
taglio delle risorse alla popolazione, in nome dell’austerità, ma una
dichiarazione di immoralità del debito che richiede risparmio, della
politica, e redistribuzione di quanto risparmiato.
Qui sta la forza e la debolezza
del brand a 5 stelle: nella concorrenza tra ceti politici nel governo
del debito una parte si vuole garanzia di riduzione del debito, immorale
e acquisisce consenso e, anche, garanzia di redistribuzione verso il
basso, e il consenso arriva copiosamente. Il punto è
che tenere assieme i due elementi forti del brand, debito basso prima di
tutto e redistribuzione all’ordine del giorno, è materialmente
impossibile. Almeno in questa economia, in questa
globalizzazione, con questi assetti normativi e con un’economia italiana
stimata, fino al 2050, con tassi di crescita attorno all’uno per cento.
E questo vale, tanto più, a livello di governo locale dove il pilota
automatico della contrazione del debito, inserito nelle leggi di
bilancio, esclude a priori ogni significativa redistribuzione. Oltretutto le retoriche, legittime, dell’immoralità del debito
alimentano quel processo di contrazione di bilancio delle istituzioni,
che alimenta, a sua volta, le privatizzazioni e quindi le ineguaglianze,
bloccando ogni redistribuzione.
Ora, sappiamo benissimo che lo stato italiano, enti locali compresi, non certo è lo stato minimo sognato da Nozick, nè va certo verso lo zero state sognato da qualche più radicale anarcoliberista americano. Ma, nel primato della politica della riduzione del debito, su quel piano impossibile che vuole sia la riduzione del debito che il nutrimento dei mercati finanziari, le prestazioni sociali sono da stato minimo e si sono incamminate verso la dimensione dello zero state. Il movimento 5 stelle si è immesso nella dinamica di concorrenza tra ceti politici, nella lotta per l’assunzione del comando del governo del debito nazionale e locale, secondo delle coordinate che sono moralmente coerenti ma materialmente impossibili. Perché tanto più si farà garante dell’abbattimento del debito immorale tanto più dovrà prestare il fianco all’immoralità dell’assenza di una redistribuzione reale. Da qui arrivano molti più problemi di qualche fuga di notizie, di qualche intervista rilasciata frettolosamente. Perché se la morale è un potente vettore comunicativo mancando poi il dispositivo politico-economico, nonché la fecondità di un bacino reale di critica del diritto per scardinare l’assetto normativo esistente (invece di santificare la legalità anche quando serve solo ad azzerare ogni ipotesi redistributiva), per risolvere questi problemi il risultato è quello del debutto romano.
Una giunta ed un assetto di
governo fatti per tenere fede all’immagine, intesa come coerenza morale
da mostrare a tutti, e che si rivela invece un fragile e scivoloso
equilibrio di compromesso da cerchie dello stesso cartello elettorale.
Compromesso che, essendo basato su dinamiche di posizionamento interno e
non di progetto politico, è saltato al primo problema reale e alla
prima incursione dei media. Nessuno imputa ai cinque stelle la coerenza
morale anzi, è servita per mandare a casa un po' di ceto politico
parassitario, il problema è l’assenza di un progetto materiale.
Recentemente un membro del direttorio, del quale è perlomeno lecito
aspettarsi un peso nel movimento 5 stelle, ha tirato fuori un ordine del
giorno economico di conclamato surrealismo. Passi, per modo di dire, la
sua proposta di referendum consultivo sull’euro, giusto per pensare un
gioco utile a farsi impallinare dalla speculazione finanziaria globale
in un modo più festoso di quello fatto dagli Hedge Fund durante la
Brexit. Ma quella, sempre dello stesso membro, di uscire dall’euro e,
allo stesso tempo, chiedere gli eurobond per mutualizzare il debito
pubblico italiano, e sterilizzarne la portata, è di un surrealismo che,
nel parlamento italiano, mancava. Pensare di far saltare l’architettura
dell’euro, facendo fare un bel botto ai mercati e alla Germania, e poi
farsi pagare dai tedeschi il debito pubblico italiano in effetti è
qualcosa di spettacolarmente ardito. Praticabile in un gioco di ruolo su
tablet o pc, naturalmente.
Certo, battute a parte, ci sono
diversi momenti nel movimento 5 stelle che non trovano coerenza non
certo morale ma politica, materiale. C’è stata la capacità di
Grillo, e di gruppi di militanti dal basso, di attivare immaginario e
pratiche eque e solidali, c’è stato l’aziendalismo di Casaleggio, anche
nel senso di coltivazione di immaginario e pratiche di Pmi. Ci sono
pulsioni da costuzionalismo popolare e di sinistra della “difesa dei
diritti”. E tentativi di farsi carico del debito pubblico in senso
tecnico, magari mettendo in conto forti tagli. In qualche modo questo
aggregato di valori e pratiche oggi non sta più insieme. O meglio, non
sta insieme, come vediamo, come teoria e strumento di governo. Perché
c’è un equivoco di fondo. Questo non è un paese, come ha detto un altro
membro del direttorio, che “bisogna far tornare normale, facendo
funzionare le cose”. Questo è un paese che non tornerà mai più alla normalità immaginata, e che deve attraversare molti, innovativi,
cambiamenti prima di trovare un new normal che tenga. E le cose, oggi,
se funzionano sono fatte per mettere in difficoltà la coerenza morale
del movimento 5 stelle.
Il terzo elemento di analisi
marxiano, dopo l’esplosione del debito e la messa in concorrenza tra
ceti politici per il suo governo, è un’altra questione che il movimento 5
stelle si trova ad affrontare. Il rapporto tra istituzioni ed
evoluzioni dell’economia. In questo senso le istituzioni locali
si trovano, di per sé, ad un bivio piuttosto doloroso: da una parte
decrescono come peso economico, di potere, dall’altra sono essenziali
per lo sviluppo di un’economia che ha importanti ricadute nella
dimensione locale e anche in quella ambientale. L’economia dello
smaltimento dei rifiuti è uno di questi settori che, nella sua
evoluzione, incide sulle mutazioni dei meccanismi amministrativi ed
istituzionali. Tanto più infatti si è privatizzata, tanto più
le istituzioni locali hanno dovuto adattare la propria forma di governo
alle privatizzazioni, alla finanziarizzazione, alla globalizzazione. Ora
non ha, almeno per chi guarda dall’esterno, importanza cartografare al
millimetro la geopolitica dello scontro, spettacolarizzato sui media,
tra direttorio 5 stelle nazionale, direttorio romano, sindaco e leader
del movimento. E’ importante invece vedere come la sostanza
dello scontro – ad esempio sulle competenze tra assessore alle
partecipate e assessore all’ambiente – tocchi proprio la gestione
dell’economia dello smaltimento dei rifiuti. E quindi
un’economia reale, si è calcolato che questa economia fatturi un
miliardo di euro l’anno in area romana, e un tessuto delicatissimo di
legami e trasformazioni che passano tra economia (in questo caso dei
rifiuti) e mutazioni istituzionali (che, sempre in questo caso,
investono le trasformazioni della PA tramite la legge Madia e non solo).
Non stupisce quindi che lo
scontro, all’interno del movimento 5 stelle, sia passato dall’economia
dei rifiuti, che rappresenta un nesso delicato economia-amministrazione,
che sia dovuto ad un assetto organizzativo interno di M5S ancora molto
acerbo per questo genere di problemi e che, last but not least, viva
sullo scenario del grande debito della capitale. Certo più i
problemi si personalizzano, più rivestono il volto di persone in carne
ed ossa, meno si risolvono. Qui non ci sono tanto, o solo, errori
personali, rapporti nervosi tra cerchie di persone differenti
all’interno dello stesso cartello elettorale. Qui ci sono questioni
strutturali, tipiche non tanto di questo paese ma delle economie
finanziarizzate, che sono state viste, forse per la prima volta da
questo movimento, ben in faccia: esplosione del debito nelle
istituzioni, concorrenza tra ceti politici per il suo governo (e
l’attacco dei media al movimento 5 stelle si spiega anche con il fatto
che chi concorre, contro di loro, per il potere, ha il favore del
mainstream), problema del governo delle mutazioni che i nessi economici
impongono alle istituzioni. Marx puro, si direbbe, mettendosi a leggere La guerra civile in Francia.
Il rischio che oggi corre il
movimento 5 stelle, se non si struttura all’altezza delle sfide
complesse delle nostre società, è quello di fare un po' la Lega
(cavalcando spinte umorali, è un metodo che ha portato Salvini dal tre
al 15 per cento) un po' Monti (la Raggi che intima ai partiti di stare
lontano dalla giunta, oltre a seguire un ormai vecchio adagio,
rappresenta un’autostrada verso la concezione dei “tecnici che tagliano
il debito su criteri oggettivi”). Il rischio però, quando si è
al governo, è che un elemento entri in conflitto con l’altro.
All’opposizione tutto si può sovrapporre e confondere alimentando, anche
in modo paradossale, la spinta alla conquista del palazzo. Dal giorno
dopo l’entrata nel palazzo, le formule del consenso del giorno
precedente possano diventare velenose, rendendo l’aria irrespirabile in
poco tempo.
In questo senso, l’esperienza
livornese, che pure ha avuto attenzione seria da Roma, non ha ancora
insegnato tutto al movimento 5 stelle. Curiosamente, verso il
movimento 5 stelle, ha speso parole di saggezza Il Messaggero, giornale
di incrocio tra mattone, ceto politico e pressione mediatica delle
lobby: “nessun movimento politico che si ritenga e proclami
autosufficiente e lontano da contagi può farcela, tagliando ogni legame
con la parte migliore della società civile. [..]. Gramsci nel secolo
scorso diceva che per avere successo in politica bisogna conquistare le
casematte del sapere. Frase profetica e illuminante che fece il successo
del Pci nel dopoguerra”. C’è un modo di destra e uno di sinistra
per rispondere all’esortazione del Messaggero. Il modo di destra è
quello di prender sul serio le parole di quella testata. In quel
lessico, parlare di società civile, di Gramsci, stravolgendo il
significato dei concetti usati, significa concertazione tra ceti
dirigenti. Grandi parole, per riproporre la solita vampirizzazione delle
risorse della società. Il modo di sinistra non è certo quello dei
direttori, tra l’altro il direttorio rappresenta la fase di declino
della rivoluzione francese quindi il concetto è quantomeno
malaugurante, ma quello di una solida apertura alla società e alle sue
casematte del sapere. Qualcosa di molto diverso dal prendere decisioni
in una chat di Whatsup, per intenderci, in un paese che ha bisogno di far
valere, di nuovo, il peso della decisione collettiva in un epoca molto
controversa.
Di fronte a trasformazioni epocali o
destra, o sinistra: tertium non datur, insomma. Magari in forme nuove e
quello è il bello dei processi storici. La politica impone pero’ sempre
scelte dolorose. E per queste scelte un autore, come Marx, spesso
erroneamente rappresentato come manicheo, una strada, almeno per
l’analisi, ce la fornisce.
Per Senza Soste, nique la police
9 settembre 2016
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