04/10/2016
Anche la pizza finisce robotizzata. La disoccupazione colpirà pure gli automi?
La notizia arriva dagli Stati Uniti, logicamente, e viene ripresa con entusiasmo da Repubblica, con logica altrettanto ferrea.
Laggiù ha cominciato ad operare una nuova startup dal nome Zume Pizza. Non farebbe nulla di rivoluzionario – porta pizze a domicilio – se non fosse che il pizzaiolo è un robot. Montato sul furgone della distribuzione, cuoce la pizza durante il viaggio e quindi il consumatore può finalmente mangiarsene una calda. "Abbattiamo costi e tempi di produzione grazie ai nostri pizzaioli robot, ma senza rinunciare alla qualità del prodotto finito", afferma uno dei due fondatori della società, Alex Garden.
Lasciamo da parte tutte le considerazioni italiane sull'argomento (da “te la mangi tu, quella schifezza” – che ha un senso di buon gusto inoppugnabile – fino al disperante “dove andremo a finire, signora mia!”) ed anche tutte le alternative possibili (dal farti la pizza da solo alla pizza surgelata del supermercato). E lasciamo anche da parte ogni sacrosanta ironia sulle abitudini alimentari americane, ai limiti dell'horror puro. Sappiamo bene che purtroppo la demenza commercializzata attecchisce ovunque (quante battute sono state spese sull'arrivo in Italia di McDonald's?).
La questione rilevante è infatti il processo di automazione della produzione che arriva a insinuarsi anche nelle mansioni considerate poco robotizzabili, come la ristorazione o la cura della persona (stanno già per entrare in produzione dei robot-badanti, ci dicono). Perché non allineabili lungo un catena di montaggio per la produzione di massa e comunque relegate a una dimensione uno-a-uno. Se anche queste mansioni vengono robotizzate resta uno spazio ancora più limitato per il lavoro manuale (e persino intellettuale) fatto da esseri umani.
Non siamo passatisti. Non consiglieremmo mai di distruggere i robot impegnati nella produzione (ci possono essere eccezioni illuminanti, ma non è questo il tema). Il progresso tecnologico applicato alla produzione è per un verso inevitabile, per un altro assolutamente progressivo. La possibilità concreta, scientificamente provata e ormai effettivamente operante, di liberare l'uomo dalla fatica ripetitiva, dalla necessità di distruggersi fisicamente per guadagnarsi da vivere, è un'opportunità epocale.
C'è un problema, però. In ambito capitalistico questa possibilità di liberazione è pervertita nel suo opposto: pochi lavoratori a dannarsi oltre i limiti fisiologici della fatica tollerabile (allungamento della giornata lavorativa, aumento dei ritmi, eliminazione di riposi, notti, festività, ecc.) e una quota di disoccupati che tende rapidamente a coincidere con la maggioranza della popolazione (si veda per esempio qui). Di fatto, i sempre meno lavoratori vengono istintivamente trattati come robot, "purtroppo fragili o sensibili", in attesa di poterli sostituire con un ammasso di ferraglia. La "liberazione dal lavoro" assume insomma i connotati della disoccupazione di massa.
Problema che ne implica immediatamente – o progressivamente, nella realtà empirica – un altro: chi consumerà merci e servizi prodotti con l'automazione?
In ambito capitalistico non c'è soluzione. Il profitto è l'unico obiettivo di ogni singola impresa, che non si cura affatto degli aspetti sistemici. È anche la contraddizione generale di quella che viene genericamente chiamata “politica dell'offerta” e che, tirata al limite (come sta avvenendo nella realtà della produzione automatizzata), implica – sì – costi di produzione bassissimi, ma anche la progressiva scomparsa di una domanda solvibile.
I bisogni degli esseri umani sono praticamente infiniti. Ma in ambito capitalistico quel che serve a soddisfare un bisogno va comprato. E, come recita il comandamento di Milton Friedman, "non esistono pasti gratis". Dunque, a meno di non essere un imprenditore o un rentier (proprietario di terre... e di quello che c'è sotto), bisogna avere un lavoro, vendere per un salario la propria forza lavoro. Ma se la maggior parte della produzione e dei servizi è automatizzata il lavoro diventa una chimera. Non per caso, alcuni imprenditori della Silicon Valley – quelli che i robottini o i robottoni li creano, modellano, programmano e vendono – hanno cominciato a proporre l'istituzione di un reddito di cittadinanza. Si stanno insomma rendendo conto che risparmiare sul lavoro e sul suo costo ha una controindicazione per loro scabrosa: ammazza la platea dei potenziali clienti. Insomma: c'è bisogno di dare pasti gratis, e anche qualche cosa di più.
Gli apparenti paradossi sono a questo punto pressoché infiniti: ti pago poco per lavorare molto, ma poi devo chiedere che lo Stato dia a milioni di altri come te un equivalente del salario perché si possa comprare anche se non si lavora. Non occorre essere dialettici provetti per capire che, se sono gli imprenditori a proporlo, il reddito garantito non ha nulla di rivoluzionario. Per i potenziali beneficiari, ci mancherebbe, può diventare la manna dal cielo. Ma sul piano sistemico è di fatto una misura tardo keynesiana: negli anni '30 si era arrivati a pagare gente che scavava buche per poi riempirle, solo per creare una domanda solvibile; ora si propone di raggiungere lo stesso risultato saltando la farsa di un lavoro inutile, anche se comunque faticoso.
Il motivo sta in un altro apparente paradosso: le potenzialità della produzione automatizzata sono quantitativamente quasi senza limiti, ma il modello neoliberista restringe progressivamente la platea dei consumatori con soldi. I primi produttori che automatizzano la produzione hanno ovviamente un vantaggio, che – purtroppo per loro – dura solo il tempo necessario perché i concorrenti facciano lo stesso. La quantità di merci fabbricabile si espande in proporzione inversa al numero degli occupati.
Non è finita. Il dogma neoliberista è solo la veste ideologica della "centralità dell'impresa privata". E questo dogma – dominante al punto di essere chiamato anche "pensiero unico" – predica da oltre 40 anni che lo Stato si deve ritirare dalla vita economica, ridurre la spesa, tagliare servizi e welfare, pensioni e sanità. Figuriamoci se può concepire un "reddito di cittadinanza" o, che è lo stesso, un salario garantito...
Tra l'altro, l'aborrita "politica keynesiana" era concepita come politica temporanea, necessaria a rimettere in moto un meccanismo inceppato per poi rientrare nei ranghi a fine crisi. Qui invece la funzione di "foraggiatore del consumo" dovrebbe essere sistemica, tendenzialmente eterna (l'automazione è irreversibile, anzi tendenzialmente onnivora, come si capisce da Zume Pizza). E diventa difficile capire dove lo Stato potrebbe trovare le risorse necessarie se – come dettato dal dogma liberista – non deve intervenire come produttore in prima persona e al contempo deve anche ridurre al minimo infinitesimo la tassazione sulle imprese.
Nessuno, in ambito capitalistico, può fermare questa dinamica impazzita. Può spezzarla solo un'implosione sistemica (in forma di guerra guerreggiata globale) oppure una rivoluzione; o un mix dei due momenti. Non certo la "stagnazione secolare" di cui parlano ormai i principali protagonisti della scena economica globale (vedi anche qui).
E quindi il robottino pizzaiolo, per quanto non senta la fatica, non pretenda le ferie e le otto ore, non scioperi mai e non chieda la 104... rischia anche lui di restare disoccupato prima del tempo. Per scarsità di clienti...
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