Ieri sul Corriere della Sera è stata pubblicata una mia intervista riguardo la corruzione nelle università italiane e le dichiarazioni di Raffaele Cantone, presidente dell’autorità Anticorruzione. Un’intervista che merita alcuni commenti per il modo in cui è stata riportata dal quotidiano in questione.
Alle parole di Cantone, secondo cui la corruzione è causa della fuga dei cervelli dalle università italiane, ho risposto che se da un lato ero d’accordo sull’esistenza di sacche di corruzione anche all’interno dell’università, in nessun modo concordo sul nesso causale tra corruzione e fuga di cervelli. La fuga dei cervelli – locuzione di per sé infelice – è strettamente legata al disinvestimento nell’università e ricerca pubblica. Un disinvestimento che in Italia ha visto i fondi diminuire del 25% in meno di un decennio. Inoltre, la carenza di fondi, così come di strutture, sia quelle tecniche sia quelle che permettono una certa qualità della vita dentro i dipartimenti, sono fattori cruciali non solo per la ricerca, ma anche per la didattica. Troppo spesso infatti, ci si dimentica che l’università non è solo ricerca ma anche formazione e in Italia il tasso di laureati è ancora ai margini delle classifiche europee a cui va aggiunto un sempre maggiore abbandono scolastico. Un altro elemento più volte sottolineato, e di cui non c’è traccia nel testo dell’intervista, riguarda l’imbuto che si è venuto a creare sulla prima posizione stabile, cioè quella di associato, a seguito dell’abolizione della figura del ricercatore a tempo indeterminato e del taglio del fondo ordinario. Insomma, ci vogliono investimenti massicci, uno sblocco vero del turnover, non leggi formali facilmente aggirabili.
Quindi – proseguo – “la fuga” avviene ben prima di avvicinarsi ai concorsi, ribadendo che la scelta è dettata proprio dalle condizioni materiali e immateriali entro cui si è spesso costretti a lavorare. Altre volte, si parte per scelta, non curanti di ciò che avviene attorno. Così arriva il punto su quanto guadagna una dottoranda a SciencesPo a Parigi – ho spiegato alla giornalista che noi siamo un regime particolare. Al di là, delle cifre in sé, il messaggio dovrebbe essere chiaro: le borse di studio devono prevedere retribuzioni adeguate. Inoltre, se all’attività di ricerca affianchiamo l’insegnamento è nostro diritto esser pagati, in modo dignitoso. Insomma, se aumenta la corruzione non è perché l’università pubblica è marcia, ma perché è sempre meno democratica: potere su poche risorse crea incentivo e meccanismi per garantire quel potere, senza metterlo mai in discussione. Invece in Italia pur di rimanere a fare il proprio lavoro e aspirare a una carriera ci ritroviamo con assunzioni iper precarie, con contratti di collaborazione o prestazioni occasionali, su progetti sempre più spesso finanziati da privati perché i fondi pubblici semplicemente non ci sono, a parità di questioni di merito. Lo stesso vale per i fondi europei che dovrebbero essere una parte minoritaria del finanziamento della ricerca pubblica.
Fin qui, quindi, in nessun caso ho parlato contro l’università e ricerca pubblica, o sull’incapacità di chi rimane in Italia. Al contrario, come viene poco elegantemente liquidato in chiusura dell’articolo, avevo sostenuto che i colleghi in Italia stanno tenendo sulle loro spalle un intero sistema, nonostante le condizioni avverse e i continui discrediti. In questo tutta la mia stima.
Senza dover riprendere frase per frase l’intervista, è necessario almeno riportare i tratti salienti taciuti o trasformati, come le condizioni minime che mi spingerebbero a tornare in Italia. Da un lato, ovviamente la retribuzione: il lavoro si paga, sempre! E la paga deve essere dignitosa. Dall’altro lato, però, ho sostenuto che la questione non è solo la retribuzione ma tutto il sistema di diritti che ruota attorno alla vita di una persona: la casa, i mezzi pubblici, i fondi per invitare i colleghi stranieri, per organizzare cicli di seminari settimanali – come si fa qui in Francia (ma non soltanto).
Tutto quanto detto finora non implica che in Francia non ci siano clientele, anzi, ma di questo nell’intervista non si parla. Nell’intervista mi si chiede se sono d’accordo con Cantone nel rintracciare nella corruzione la causa del declino dell’università italiana a cui ho fermamente risposto negativamente.
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