Che sia proprio l’ex presidente georgiano ed ex governatore di Odessa, quel Mikhail Saakašvili ricercato a Tbilisi per appropriazione di 5 milioni di $ di fondi statali, depistaggio nella morte dell’ex primo ministro Zurab Zhvania, e ora in carcere a Kiev perché sconfitto nella guerra tra bande oligarchiche; che sia proprio lui a rappresentare il vessillo della “lotta alla corruzione” in Ucraina, è forse emblematico del quadriennio golpista ucraino targato Brzezinski-Biden-Nuland-Pyatt. Sta di fatto che, mentre assume contorni sempre più esiziali il conflitto tra Procura generale, a libro paga presidenziale, e Büro Anticorruzione (NABU), anche ieri diverse decine di migliaia di ucraini (si dice, tutti sostenitori di Saakašvili, nel meeting più partecipato dal dicembre 2013) hanno manifestato a Kiev chiedendo l’impeachment di Petro Porošenko, sponsorizzati dall’ex matrona del gas, la martire occidentale Julija Timošenko, che non perde occasione per tentare di inserirsi nella corsa presidenziale.
E, di motivi per manifestare, pare che gli ucraini ne abbiano da buttare.
Il centro di analisi ucraino Texty.org.ua ha classificato il paese, sulla base del livello salariale medio, al netto delle tasse, come il più povero d’Europa. Con 190 euro al mese, l’Ucraina è in testa al “contro-rating salariale”, davanti a Moldavia (216 euro), Albania (347), Russia (474), Slovacchia (722), Polonia (748) e altri, fino al capo opposto della scala, dominato dai 4.421 euro della Svizzera.
Secondo The World Factbook della CIA, l’Ucraina occupa il 221° posto, su 235 paesi esaminati, per tasso di crescita media (0,41%) della popolazione; il 189° per tasso di natalità e il 5° (14,4 ogni mille abitanti) per tasso di mortalità; il 150° (72,1 anni) per aspettativa di vita alla nascita. Nel 2016 il PIL pro capite era di 8.300 $ (147° posizione su 230 paesi confrontati).
D’altra parte, solo in quest’ultimo anno, secondo Pravda.ru, Kiev ha perso poco meno di 2 miliardi di dollari dal blocco del Donbass, decretato dalla stessa cricca golpista. Il vice presidente della Banca nazionale, Oleg Čurij, nel riportare la cifra, si è consolato dicendo che l’Ucraina ha potuto compensare in parte le perdite, grazie a “favorevoli condizioni commerciali” e a un ricco raccolto granario. Forte di questi “positivi” risultati, sembra che Kiev abbia già approntato i piani per una seconda fase del blocco.
Nessuna meraviglia, quindi, che nel corso di un sondaggio televisivo, condotto in diretta sabato scorso dal canale NewsOne, il 92% degli ascoltatori si sia pronunciato per un ritorno di Viktor Janukovič e solamente l’8% a favore dell’attuale governo. Oltretutto, la domanda era stata posta in modo da far invidia al più antifascista dei Ministeri degli interni: “Se in questo momento foste di fronte alla decisione se scegliere tra il criminale precedente governo e l’attuale, per chi votereste?”. Non è ancora dato sapere se il sondaggio sia stato hackerato dal Cremlino – si attendono le prove da Joe Biden – ma i circa 47.000 telespettatori che hanno risposto nella sola prima ora di trasmissione non ha avuto dubbi a esprimersi per il ritorno della “banda criminale di Janukovič”.
In ogni caso, è un fatto che negli ultimi anni, con un tasso di disoccupazione che, ancora secondo la CIA, nel 2016 era del 9,3% (“officially registered workers; large number of unregistered or underemployed workers”, notano a Langley) gli ucraini abbiano preso a sciamare nei paesi vicini in cerca di lavoro. E’ vero che il pendolarismo (anche settimanale o mensile) ad esempio in Russia o Bielorussia, data dai primissimi tempi postsovietici; ma ora l’emigrazione ha assunto il carattere di autentico esodo, non solo verso la Russia. Un esodo con cui, secondo il Ministro degli esteri golpista, Pavel Klimkin, “circa un milione di ucraini stanno salvando l’economia polacca”.
Quantomeno cruda la replica del neo primo ministro polacco, Mateusz Morawieck che, ricordando ancora una volta il genocidio della Volinia, ha puntualizzato che Varsavia, “accogliendo i moltissimi profughi ucraini, contribuisce ad alleggerire la tensione sul fianco est dell’Unione Europea”. Ancora più diretto il capo di gabinetto del Ministero degli esteri, Jan Parys, secondo il quale “una Ucraina forte e indipendente è importante per la Polonia; ma non è vero che l’esistenza dell’Ucraina costituisca condizione necessaria della sussistenza di una Polonia indipendente”.
A Kiev, ha detto ieri Parys, “ritengono che Varsavia sia debole, isolata e abbia bisogno dell’Ucraina. E’ falso. E’ l’Ucraina ad aver bisogno della Polonia. La Polonia può benissimo vivere senza l’Ucraina”. Tutti “convenevoli”, questi, che anticipano la visita a Kiev del presidente polacco Andrzej Duda, prevista per il 13 dicembre e che sono stati resi ancor più calorosi, sempre ieri, dal pacco esplosivo fatto brillare (fortunatamente senza vittime) sotto le ruote di un autobus polacco parcheggiato fuori di un hotel di Sokilniki, nella provincia di L’vov, la “più polacca delle città ucraine”.
D’altronde, le dichiarazioni che giungono da Varsavia e che contengono anche accuse al governo ucraino di vessazioni nei confronti delle minoranze polacche, fanno il paio con quelle ungheresi, sulle violazioni dei diritti dei cittadini ucraini di origine magiara e a cui, il solito Klimkin, ha risposto candidamente che “il problema non esiste, dato che ci sono sempre meno ungheresi nell’area oltrecarpatica. Non sono più 150.000 e nemmeno 100.000”. Vale a dire, nota il politologo ucraino Ruslan Bortnik, quando il Ministro degli esteri di Budapest, Péter Szijártó, accusa Kiev di condurre un genocidio, Klimkin conferma che sì, effettivamente “ciò avviene a ritmi stakhanovisti”!
Nei giorni scorsi, Szijjártó, nel corso della riunione del Consiglio dei ministri del OSCE a Vienna, aveva insistito sulla necessità dell’invio di una missione di monitoraggio nell’Oltrecarpazia; ciò, nonostante una decina di paesi NATO abbiano preso le difese di Kiev nella vicenda della legge golpista sull’obbligo della lingua ucraina in tutte le scuole, a discapito delle numerose minoranze nazionali e abbiano intimato a Budapest di non legare tale questione all’adesione ucraina alla NATO.
Vessazioni, dunque, a est e a ovest del paese; forse anche con la benedizione della chiesa! Proprio come avviene per il Donbass. Proprio un paio di settimane fa, per l’ennesima volta, un alto esponente delle gerarchie ecclesiastiche ucraine è tornato a consacrare i massacri nel sudest del paese. Questa volta, è toccato al capo della chiesa greco-cattolica, Svjatoslav Ševčuk, in diretta tv, pontificare che non è giusto definire “assassini” i soldati che bombardano la popolazione civile del Donbass, dato che conducono “una giusta guerra difensiva” e la chiesa distingue tra “guerra difensiva e di aggressione”. Oggi, ha omeliato Svjatoslav, “il popolo ucraino sta conducendo una giusta guerra difensiva. I nostri soldati sacrificano la vita e versano il sangue per la patria; fermano l’aggressore; frenano il male e sono costruttori di pace”. Una “guerra difensiva”, in cui anche ieri le forze ucraine hanno fatto ricorso a proiettili al fosforo nel bombardamento della centrale di filtraggio dell’acqua di Donetsk.
D’altronde, Svjatoslav non è nemmeno il primo “uomo di fede” a pronunciarsi in questo modo. Più di un anno fa, il patriarca Filaret, aveva sentenziato che dio permette di attaccare “l’aggressore dell’est”, con l’obiettivo di illuminare gli atei: “le persone soffrono di più nell’est dell’Ucraina e non all’ovest. Perché? Perché là i senzadio sono in maggioranza. Se non si pentiranno e non si rivolgeranno a dio, anche le loro sofferenze continueranno”. Ancor prima, il metropolita della diocesi di Lutsk e Volinia, Mikhail Zinkevič, aveva detto ai fedeli: “Voi dovete pregare nella vostra lingua ucraina e non nella lingua dell’occupante” e “ogni candela acquistata nelle chiese del patriarcato di Mosca, è una pallottola per uccidere i vostri figli”. Lo stesso Zinkevič che pochi mesi fa, nel benedire la chiesa di tutti i santi nella zona di Volčanka, aveva definito “uomini dalla vita santa” i membri dell’UPA filonazista.
Ma, sicuramente a Torino diranno che lo abbia fatto per “per contrastare l’offensiva della Russia (sic!) finalizzata a destabilizzare le democrazie occidentali”.
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