Erano decine di migliaia ieri per le strade di Sana’a a
celebrare la fine dell’ex dittatore Ali Abdullah Saleh, ucciso lunedì
dai combattenti Houthi, a sei anni dalla “primavera” che lambì lo Yemen
per trascinarlo dentro una nuova dittatura, quella telecomandata dai
Saud. In tantissimi hanno preso parte alla manifestazione voluta dal
movimento Ansar Allah nonostante una notte di bombardamenti che ha
ucciso decine di civili.
Hanno marciato al grido di “Sana’a è libera, gli yemeniti
sono uniti”, sfidando il pericolo dei raid aerei. Ma dopo una notte in
trappola nelle case, la giornata di ieri è trascorsa senza i jet
sauditi. Che hanno però ripreso a volare e a bombardare la capitale
yemenita ieri notte, colpendo sia Sana’a che le province
limitrofe di Taiz, Haja, Midi e Saada: per la prima volta dall’inizio
della guerra è stato colpito anche il palazzo presidenziale, dal 2014
controllato dalla leadership Houthi. Difficile fare un bilancio
delle vittime: secondo la Croce Rossa, dal 2 dicembre a ieri mattina
erano almeno 234 le vittime dei raid sauditi e degli scontri a terra tra le forze fedeli all’ex presidente e le milizie Houthi. Oltre 400 i feriti, per lo più in gravi condizioni.
Da lunedì gli scontri sono cessati: Ansar Allah ha ripreso il
controllo totale della città, dispiegando i propri uomini nelle zone
prima occupate dai pro-Saleh. E si prepara alla controffensiva
annunciata lunedì sera dal presidente Hadi, il vice di Saleh
dal 1994 – quando Yemen del sud e del nord vennero riunificati – fino al
2012 quando lo sostituì alla presidenza per volere del Golfo. Una
controffensiva sulla capitale che parta da sud, dove le forze
pro-governative sono numerose, e coperta dai raid sauditi. A
terra, a fornire la “manodopera” dovrebbero essere le milizie di Saleh,
che però – dicono gli analisti – non sono così ampie come si potrebbe
pensare. Buona parte dell’arsenale dell’ex presidente è da anni
in mano agli Houthi e i capi tribali rimasti legati politicamente a
Saleh non hanno più l’influenza di un tempo.
Il timore è dunque quello di un’ulteriore brutale escalation contro
il paese, devastato da quasi tre anni di guerra e da un embargo
pesantissimo che ha letteralmente affamato la popolazione. Sta qui il
sostegno popolare verso gli Houthi, considerati da molti l’unico argine
all’aggressione dei Saud e di Abu Dhabi, i due burattinai di un
conflitto che non riescono a vincere. E’ proprio dagli Emirati
che il figlio di Saleh, Ahmed Ali, ex ambasciatore ad Abu Dhabi e dal
2012 rimasto a vivere nell’emirato, ha lanciato le sue minacce:
“Vendicherò il sangue di mio padre”, ha promesso facendo appello alla
sollevazione popolare “fino a quando l’ultimo Houthi non sarà cacciato
dallo Yemen”.
Ma Ahmed Ali Saleh non ha il potere che millanta.
Pur alla guida di uno sforzo diplomatico sotterraneo con cui ha convinto
Emirati Arabi e Arabia Saudita a sostenere il padre contro Houthi e
Hadi, è di fatto “prigioniero” della volontà di Abu Dhabi e non gode del
sostegno militare e politico sul terreno yemenita.
A nulla servono gli appelli delle Nazioni Unite, parole che svaniscono senza orecchie interessate ad ascoltarle: da
giorni l’Onu chiede una tregua a Sana’a per portare aiuti alle famiglie
intrappolate nelle case da scontri e raid, senza cibo né acqua. C’è
preoccupazione per le conseguenze della morte di Saleh, un
timore espresso dall’inviato speciale Ismail Ould Cheikh Ahmed: “Questi
eventi comporteranno un importante cambiamento delle dinamiche politiche
in Yemen”, ha detto mentre denunciava l’impossibilità di portare aiuti
alla popolazione negli ultimi due giorni a causa della pioggia di bombe
che ha colpito le infrastrutture della capitale.
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