Sul cosiddetto Decreto dignità in questi due mesi s’è letto di tutto. Il giudizio unanime è invariabilmente negativo, e non potrebbe essere altrimenti. Per il mondo aziendale costituisce il primo atto governativo contrario alla progressiva flessibilizzazione del mercato del lavoro; per le sinistre il tentativo legislativo si è fermato all’annuncio di alcuni desideri tradotti malamente in legge, un coacervo di norme incoerenti, timorose e dunque inefficaci. Nel migliore dei casi, un palliativo propagandistico. Eppure il dibattito, di destra e di sinistra, si è accodato a una versione della realtà decisamente equivoca: quella secondo la quale tale decreto produrrebbe, di per sé, dei licenziamenti. Sia che lo si valuti “troppo” protettivo, sia che lo si valuti “troppo poco” utile alla difesa delle ragioni dei lavoratori, il sillogismo secondo il quale il decreto costringerebbe inevitabilmente le imprese a licenziare è ingannevole. Un sillogismo veicolato dal partito di Repubblica, che però ha avuto la forza di imporsi come realtà dei fatti.
Bisognerebbe quantomeno ricordare che il licenziamento è volontà aziendale, dunque privata, e non la diretta conseguenza di una volontà legislativa. Anche perché l’equivalenza dovrebbe allora prodursi verso qualsiasi azione legislativa che limiti l’utilizzo sconsiderato della precarietà contrattuale come strumento di regolazione del mercato del lavoro. Detto altrimenti, qualsiasi intervento volto a consolidare la forza contrattuale dei lavoratori verrebbe presentato inequivocabilmente come sinonimo di licenziamenti, contribuendo dunque all’aumento della disoccupazione. Ma se ci accodassimo a questa vulgata imprenditoriale, dovremmo convenire che l’unico strumento utile all’occupazione sia, per l’appunto, la progressiva flessibilizzazione del mercato del lavoro di cui sopra.
Quando il prode Boeri dichiara che con il “decreto dignità” si perderanno ottomila occupati l’anno, dice una menzogna persino se fosse confermata la cifra. Sono le aziende, private ma anche pubbliche, che deciderebbero di aggirare le norme contrattuali licenziando piuttosto che stabilizzare i propri lavoratori precari. Persino la Cgil, che per mero interesse domestico dovrebbe puntare all’irrigidimento dei dispositivi contrattuali, fa invece propria la versione del padrone democratico, sancendo che col decreto si perderebbero posti di lavoro. Ma il decreto, e – per estensione – qualsiasi normazione contraria alla liberalizzazione del mercato del lavoro – non prescrive licenziamenti, ma maggiori tutele per chi è già occupato. Se il datore di lavoro traduce queste maggiori tutele in licenziamenti, è per sua precisa volontà.
D’altronde, ogni recupero salariale – sia esso contrattuale, economico, “welferistico” – passa inevitabilmente per una redistribuzione forzata del profitto privato. Non se ne esce: la forza contrattuale (e quindi politica) dei lavoratori è inversamente proporzionale alla capacità di profitto delle imprese private. Qualsiasi intervento legislativo volto a circoscrivere la libertà aziendale verrebbe sempre presentato come fonte di licenziamenti e di disoccupazione. “Non possiamo fare altrimenti”, è il coro aziendale presentato per realtà oggettiva. E’ il caso del “decreto dignità”, ma lo sarebbe maggiormente per qualche altro intervento più radicale o solo più conseguente. Correre dietro alla retoriche padronali, in questo caso, non fa che rafforzare un piano del discorso da cui è sempre più complicato uscire veramente. Struttura cioè un’ideologia che produce false equivalenze, secondo le quali le ragioni del lavoro e quelle dell’impresa coinciderebbero. Bisognerebbe dire con forza che non è così, soprattutto oggi. Che ogni licenziamento è il frutto di una strategia economica privata, che decide di aggirare i dispositivi contrattuali producendo altrove quello che diviene momentaneamente più costoso produrre qui. Inutile accollare al “decreto dignità” immaginarie eterogenesi dei fini che in realtà corrispondono ad un ortodossia liberista che nulla ha a che vedere con presunte difese dell’occupazione.
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