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13/08/2018

Egitto - I bulldozer stravolgono il volto del Cairo

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

Nel negozio di orologi «S. Hinhayat Watches», su via 26 Luglio al Cairo, sono passati tutti: monarchi, ministri, ambasciatori, operai, insegnanti. C’è chi ha affidato il proprio orologio alle sapienti mani del fondatore, il bulgaro ebreo Solomon Hinhayat, chi – come re Fouad – a quelle del suo successore Ahmed Sayed Mostafa.

Altri venivano qua per farsene fare uno nuovo di zecca, da taschino, da muro, da polso. Il negozio, nel quartiere di Boulaq Abul-Ea, ha un anno in più del Palazzo 54: aprì nel 1907, pochi mesi dopo intorno gli sorse uno degli edifici più noti della capitale egiziana.

Oggi quel pezzo di storia, insieme ai suoi storici abitanti e al negozio di orologi (nel frattempo passato al nipote di Ahmed, Abdullah), rischia di finire sbriciolato. Le autorità egiziane hanno avviato una vasta campagna di demolizione nell’area per far spazio a un nuovo progetto residenziale, in linea con la visione del regime. La stessa che minaccia l’isola dei contadini, Warraq, e che lavora a New Cairo, nuova «capitale» lontana dal caos dell’attuale; la stessa che distrugge fattorie e case in Sinai, al confine con Gaza, per «ragioni di sicurezza» e che sul Mar Rosso aderisce entusiasta al sogno saudita di una nuova immensa città per ricchi, Neom.

L’attività di gentrificazione in corso in Egitto segue linee globali ma con strumenti diversi: il trasferimento forzato dei residenti storici non si realizza alzando i prezzi di aree «riqualificate» ma mandando i bulldozer. È il destino che pesa sul Palazzo 54: lo sa Abdullah l’orologiaio, che da qualche tempo non prende più ordinazioni perché non sa se riuscirà a portarle a termine.

Dopotutto, intorno, la distruzione è già iniziata e ai piani alti dell’edificio gli operai mandati dal comune stanno già smantellando alcuni appartamenti: il 90% delle strutture individuate come «da demolire» sono già state distrutte e via 26 Luglio rischia lo stesso, di veder sparire 123 unità abitative e 86 attività commerciali.


Siamo all’interno del cosiddetto Maspero Triangle, progetto di sviluppo urbano che nell’idea del Cairo dovrà sostituire un’area etichettata come grande slum in un hub finanziario e residenziale di lusso, capace di attirare l’interesse (e i soldi) di investitori stranieri. Nella miglior tradizione del Fondo Monetario Internazionale che da anni ha costretto l’Egitto a intraprendere la via dell’austerity e del neoliberismo selvaggio per risollevare l’economia interna con il denaro straniero. A pagare sono le classi più povere che hanno visto crollare la qualità della vita, evaporata in un tasso di povertà dilagante e la scomparsa di sussidi statali.


«Crediamo che questa sia un’eccitante opportunità di trasformare le vite delle persone che vivono nel quartiere – è il commento di Grant Brooker, dirigente della Foster&Partners, apparso sul sito della società vincitrice dell’appalto – e di sostenere la vibrante vita pubblica dando loro spazi verdi comuni e un posto migliore dove vivere e lavorare, mentre creiamo nuovi spazi per uffici e residenze. Lungo le sponde del Nilo, il futuro di Maspero brilla».

Non brilla per le migliaia di famiglie già sfrattate (circa 4.300) e che il comune ha «compensato»: 3.005 hanno ricevuto denaro, 840 contratti per una futura casa (tra non meno di tre anni, però) a Maspero e 450 il trasferimento in altre aree della capitale. Come Asmarat nel distretto di Moqattam: 7.440 abitazioni costruite da compagnie legate all’esercito a cui ne seguiranno altre 12mila che una recente inchiesta dell’agenzia indipendente Mada Masr denunciava come enorme dormitorio slegato dalla città, senza servizi, senza spazi verdi o luoghi di ritrovo, abbandonato a se stesso.

Da Boulaq Abul-Ea la gente non vuole andarsene. I residenti si sono mobilitati, con appelli, ricorsi e una pagina Facebook, Residents of July 26th, per non essere sradicati da un quartiere storico, sede dell’antico consolato italiano, della tv e la radio di Stato, della moschea di Sultan Abul-Ela, del museo Royal Carts e di un contorno di edifici in stile francese e italiano con almeno un secolo di vita. Tredici di questi saranno salvati, ma non il Palazzo 54 per cui i residenti stanno combattendo: la sua demolizione, dicono, non è solo una violazione dei diritti di chi ci abita ma anche un attentato alla storia del Cairo.

«Abbiamo presentato ricorso al procuratore generale contro le autorità esecutive, con l’accusa di distruggere il patrimonio architettonico nell’area», spiega all’agenzia al-Monitor Atef al-Sawy, residente nel Palazzo 54. Non viviamo in baraccopoli, aggiungono gli altri, questo edificio è protetto dal Ministero della Cultura.

Ma dalla fine di luglio gli operai sono al lavoro: hanno distrutto i piani alti e messo fuori uso le tubature dell’acqua, lasciando all’asciutto negozianti e residenti. Hanno danneggiato un laboratorio di manichini, uno dei più antichi di tutto l’Egitto: «Avevo un ordine per una compagnia in Spagna, ora è tutto perduto. Non ho nemmeno la pensione», denuncia al quotidiano egiziano al-Ahram il proprietario ottantenne, Hajj Hosni. E hanno distrutto la farmacia del dottor Makram, aperta dal 1950.

Nei piani del presidente al-Sisi e dei suoi finanziatori non c’è spazio per la vita delle persone, per l’anima del Cairo. Un’anima composita e contraddittoria, fatta di operai, contadini che resistono tra il cemento, di invisibili nelle baraccopoli. Come quelli che da decenni si sono rifugiati nell’isola di Warraq, sul Nilo, abitata da oltre due secoli da pescatori e contadini, 90mila poveri arrivati dalle periferie e che hanno costruito da sé baracche di fango e lamiere.

All’inizio di giugno il governo ha fatto quanto promesso: si è impossessato di Warraq, aprendo a un’ondata di demolizioni e sfratti contro i quali i residenti da un anno si sono mobilitati, finendo agli arresti o, nel caso del 23enne Sayed Alin al-Gizawy, uccisi. Anche qui ci si muove dentro le indiscrezioni, le voci: di rimborsi e trasferimenti si sa molto poco. Quel che è certo è cosa il regime immagina al posto dell’isola dei pescatori: Horus, un hub turistico moderno, con laghi artificiali e resort.

Il modello è sempre lo stesso, da Maspero a Horus, nuovi centri che attraggano investimenti, turisti stranieri, banche, grandi compagnie, nascondendo dietro il lusso la miseria dell’Egitto. E della sua capitale, sempre più povera e tanto congestionata da far progettare New Cairo, a 45 chilometri dall’attuale: 68mila ettari, 21 quartieri residenziali e 25 aree commerciali, 2mila istituti educativi, 600 ospedali, un aeroporto, 1.250 moschee e chiese, un parco grande il doppio del newyorkese Central Park.

Il tutto a 45 miliardi di dollari. Nei piani governativi qui dovranno trasferirsi anche le istituzioni, oltre a cinque milioni di persone. Una gentrificazione alla rovescia: improbabile che tra le vetrine e le luci della Cairo nuova vengano a vivere i poveri di quella vecchia.

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