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14/08/2018

Salutando Samir Amin

E’ una perdita che ci addolora quella di Samir Amin.

Un compagno, uno studioso, un ricercatore marxista (le sue origini sono franco-egiziane) che nel corso dei decenni alle nostre spalle ha apportato notevoli contributi all’approfondimento e all’innovazione teorica di importanti filoni della nostra scienza della trasformazione.

Samir Amin – come molti studiosi ed intellettuali cresciuti in un determinato e significativo periodo del Novecento – non ha mai disgiunto il lavoro di ricerca dal versante della militanza politica e pratica. Infatti Samir ha sempre intrecciato la sua produzione mentale con la partecipazione attiva al Partito Comunista Francese, ad alcuni circoli marxisti-leninisti e, successivamente, ai numerosi incarichi universitari ed istituzionali in Francia, in Egitto e in Mali.

Samir Amin veniva collocato – particolarmente da un certo “marxismo volgare e spocchioso” (di stampo occidentale) – nella schiera dei terzomondisti. Una sorta di declassamento, un uso quasi dispregiativo del termine ad opera degli abituali soloni che hanno contribuito attivamente alla mummificazione del pensiero marxista e del suo portato di emancipazione e liberazione.

Tale definizione prendeva le mosse non solo dalla naturale collocazione di Samir al fianco dei popoli e dei paesi (specie dopo la fine del secondo conflitto mondiale) che avevano innescato il potente moto di liberazione nazionale ed anticoloniale che percorse l’Africa e l’Asia ma anche da un desiderio di catalogare le elaborazioni di Samir Amin come “marginali o accessorie rispetto al filone classico del marxismo”.

Infatti se si osserva l’intero tracciato culturale e teorico prodotto da Samir salta agli occhi una chiave interpretativa dell’intera gamma della fenomenologia sociale che fonda costantemente su una feroce critica all’Eurocentrismo in tutte le svariate versioni con cui questo nefasto paradigma ha appestato gran parte del marxismo occidentale (quello accademico in particolare) provocando guasti politici enormi e rovinosi ai fini dello sviluppo in avanti dello scontro di classe.

Ma Samir Amin è stato – soprattutto – uno studioso che ha saputo declinare le categorie teoriche generali con i profondi mutamenti prodottisi, su scala globale, sia negli assetti internazionali del dominio imperialista ma anche nelle novità che le lotte del Terzo Mondo e quelle più genericamente ascrivibili al Sud del pianeta hanno espresso nel corso dei decenni.

Da questa collocazione, da questo privilegiato punto di osservazione e di critica sono nati numerosi lavori teorici che non solo descrivono le attuali forme dello sviluppo diseguale e combinato del modo di produzione capitalistico nella fase della compiuta mondializzazione, ma esprimono anche una forte tensione politica e programmatica con l’obiettivo di delineare le strade della rottura possibile e dell’alternativa di società, qui ed ora!

I suoi studi, le sue suggestioni, le sue vere e proprie provocazioni culturali (La teoria dello sganciamento, Lo sviluppo autocentrato, La multipolarità contro ed oltre l’unipolarismo statunitense) sono canovacci ancora da apprendere e studiare compiutamente, perché costituiscono non solo delle brillanti intuizioni, ma – prospetticamente – indicano la possibilità di costruzione di rotture serie con gli attuali poli e blocchi imperialistici.

Del resto questa riflessione e questo ciclo di lavori teorici realizzati lungo l’arco di oltre 50 anni hanno costantemente avuto come riferimento ed elemento di verifica e bilancio politico/pratico – da parte di Samir Amin – prima le lotte anticoloniali, poi la stagione dell’ascesa e la successiva crisi del “nazionalismo arabo ed islamico” fino alle esperienze più recenti dell’America Latina dove, seppur con errori ed evidenti e continue difficoltà oggettive, i popoli sono riusciti ad imporre un deciso stop al rullo compressore (economico, finanziario, politico e militare) imperialista.

Le compagne ed i compagni della Rete dei Comunisti salutano la figura umana e politica di Samir Amin ricordando anche alcuni momenti di scambio culturale e politico, diretto ed indiretto, con questo compagno.

Il nostro impegno per il socialismo, la nostra attività internazionale ed internazionalista, la nostra proposta politica di fase in Italia ed in Europa si è nutrita – come è prassi consolidata della nostra Organizzazione nel processo di ricostruzione di una moderna opzione comunista agente – del pensiero di Samir unitamente a quello degli altri compagni che hanno saputo offrire il loro contributo di militanti e di studiosi alla causa degli oppressi e dei subalterni.

Ciao e grazie Samir, che la terra ti sia lieve!

13 agosto 2018

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Riproponiamo una intervista a Samir Amin pubblicata da Contropiano.org nel maggio 2011:

“Sono stato e sono ancora comunista!”

Samir Amin nasce al Cairo, figlio di padre egiziano e madre francese. Passa l’infanzia e la gioventù a Port Said, dove frequenta la scuola secondaria. Dal 1947 al 1957 studia a Parigi, ottenendo prima la laurea in scienze politiche (1952), poi in statistica (1956) ed economia (1957).

Nella sua autobiografia “Itinéraire intellectuel” (1990) scrive che spendendo gran parte del proprio tempo nella militanza, può dedicare solo una minima parte di tempo agli esami universitari.

Amin ha dedicato gran parte della propria opera allo studio delle relazioni fra i paesi sviluppati e sottosviluppati, la funzione dello Stato in questi paesi e soprattutto le origini di queste differenze, che vengono individuate nelle basi stesse del capitalismo e della globalizzazione. Per Amin, la globalizzazione è un fenomeno antico quanto l’umanità, ma nelle antiche società questo fenomeno permetteva realmente alle regioni meno avanzate di raggiungere quelle più avanzate. Al contrario l’attuale globalizzazione, associata al capitalismo, è per sua stessa natura polarizzante, cioè la logica di espansione mondiale del capitalismo produce in se stessa diseguaglianze crescenti.

Gabriela Roffinelli: Fin dalle sue prime analisi teoriche si sente l’eco della passione politica. La sua prima militanza politica è stata comunista?

Ma certo! Io sono stato e sono tuttora comunista! Mi considero comunista, considero la prospettiva comunista l’unica umanamente accettabile. Sono stato anche membro del Partito Comunista, partito che ha agito in clandestinità per molto tempo...

Parla della militanza nel Partito Comunista Francese?

No, parlo del Partito Comunista d’Egitto (di cui sono stato militante dal 1951 fino alla scomparsa del Partito, nel 1965). Il PCF non era in clandestinità...! (risate). Anche se anch’io sono stato membro del PCF durante i miei studi in Francia (dal 1947 al 1957, quando me ne andai da quel paese).

In molti libri, lei analizza criticamente l’esperienza sovietica e in qualche modo apprezza quella cinese. Ha avuto influenze maoiste?

Beh, in quel tempo il PC egiziano era fortemente influenzato dalla visione sovietica. Con alcuni problemi, con tendenze interne in conflitto fra loro, ma questo conflitto si farà esplicito più tardi. Si può dire che la percezione di quel conflitto in quel momento, mi parve comprensibile solo molto più tardi. Gli attriti si produssero fra una visione strategica allineata all’URSS e una concezione strategica indipendente. Il conflitto Cina-URSS si verifica nel 1957, ma esplode ufficialmente nel 1960. In quel momento ero molto attratto dalle proposte cinesi, dalla loro visione dell’ordine internazionale, dalla loro concezione di transizione al socialismo, cioè in sintesi dal maoismo.

Che bilancio farebbe oggi del maoismo?

Credo che il maoismo sia stato un passo avanti in relazione alla visione sovietica a proposito dei problemi della transizione. Qualunque sia il nostro giudizio oggi sulla Rivoluzione Culturale o il giudizio sull’ingenuità che faceva pensare che la gioventù, perché era “La Gioventù”, poteva essere motore di una trasformazione qualitativa della società, etc... mi sembra che gli slogan e gli obiettivi che si proponeva la Rivoluzione Culturale, siano stati un tentativo di andare al di là dell’impasse del comunismo sovietico. Quando Mao Tse-Tung, nel 1963, nella carta dei 25 punti, disse che il nemico non stava fuori ma dentro il PC...

La burocrazia?

La borghesia! Non la burocrazia. La borghesia non è un nemico esterno. Mao aveva detto: “stiamo costruendo la borghesia”. Credo di intuire che era una considerazione molto azzeccata. Ora, i maoisti del Partito Comunista Cinese di quel momento, sono riusciti a trarre delle conclusioni e realizzare delle strategie efficaci? La storia ci dimostra di no. Ma non faccio una mia autocritica, non dico “abbiamo sbagliato”. Dico che è stato un passo in avanti e che con la distanza vediamo le insufficienze di questo passo avanti. E vediamo anche la contraddizioni nascoste nelle analisi di quel momento.

Il maoismo era in quell’epoca molto influente fra gli intellettuali occidentali...

Eh si. Davvero! Un fenomeno come il maggio del 1968, in Europa, e forse anche qui in America Latina, ma meglio dire solo in Europa, un fenomeno così è impensabile senza l’influenza della Rivoluzione Culturale cinese. È stata la Rivoluzione Culturale del 1966 a dare spazio alla speranza, con le proprie illusioni... quelle speranze di trasformazione del mondo da parte della gioventù rivoluzionaria, con tutti i problemi che sarebbero emersi successivamente.

Lei proviene da una famiglia di militanti politici?

No, la mia famiglia non era comunista. Ma diciamo che sia da parte di padre che di madre, erano progressisti, in relazione alla loro classe di appartenenza.

Che opinione e posizione ha assunto lei rispetto a Nasser e al suo movimento?

Nel 1960 ho scritto il mio secondo libro (il primo, pubblicato in Egitto, era stato scritto in arabo nel 1958). Il secondo l’ho pubblicato nel 1963, dopo la mia veloce dipartita dall’Egitto nel 1960. È stato pubblicato sotto pseudonimo: in quel momento lo firmai con il mio nome di clandestinità in Egitto. Quel libro è molto critico del nasserismo. Io ero un militante, non direi inquadrato, “stupidamente disciplinato”, ma ero un militante come molti altri. Il PC egiziano, al quale appartenevo, è stato molto critico del nasserismo dal colpo di Stato del 1952 fino al 1955. Ciò che è stato detto del nasserismo in quel periodo – anche se ci sono state esagerazioni – non era falso. Si poneva l’accento sul carattere antidemocratico, anticomunista e non socialista del nasserismo. Si enfatizzava sulla prospettiva nazionale borghese reazionaria. Poi, nel 1955, c’è stata la Conferenza di Bandung che significò un cambio di rotta nella storia dell’Asia e dell’Africa. Quella conferenza ha permesso la formazione di un nuovo fronte anti imperialista, dei paesi non allineati, con la Cina di Mao, l’India di Nehru, l’Egitto di Nasser, l’Indonesia di Sukarno, la Yugoslavia di Tito e i movimenti di liberazione nazionale dell’Africa, con in testa Nkrumah del Ghana. Tutto questo ha permesso di aprire un capitolo storico di conflitti reali con l’imperialismo. In questo conflitto antiimperialista, i sovietici si presentarono come alleati delle nuove potenze non allineate dando il loro appoggio che non era un appoggio disprezzabile. Davano appoggio militare! Gli armamenti e la diplomazia permettevano di neutralizzare le aggressioni dell’imperialismo. Ciò che succede oggi non poteva succedere in quel momento. Ma poneva una sfida reale per i comunisti di quei paesi: che attitudine adottare di fronte ai regimi di quelle società?

E allora siamo passati da un estremo al altro. Nel caso dell’Egitto siamo passati a un accordo con Bandung, nell’aprile del 1955. A giugno di quell’anno, 1955, un documento del PC egiziano denunciava di nuovo il nasserismo... e dopo arriviamo alle nazionalizzazioni del 1956. C’è la minaccia di un’aggressione franco-anglo-israeliana nell’ottobre ’56. Dopo il discorso della nazionalizzazione del Canale di Suez, il 26 luglio 1956, compare il primo documento del PC che fa un autocritica, che letta oggi risulta ingenua, ma è totale. A partire da quel momento, ci fu un anno di avvicinamento fra il PC e il governo nasseriano. Stiamo parlando del 1957. Non durò molto tempo. Perchè il nasserismo e Nasser non potevano tollerare il rischio di essere superati a sinistra dal comunismo egiziano. Allora si arrivò a una brutale repressione. Una repressione, che a suo tempo sembrò “poco comprensibile”. Anche per i comunisti. Non era comprensibile, ne parlo anche nel mio libro.

Lei è un grande critico dell’ideologia eurocentrica e dell’europeismo. Ha perfino scritto dei libri a riguardo (“L’Eurocentrismo. Critica di un’ideologia” Secolo XXI, 1989). È stato influenzato da Frantz Fanon?

No, per niente. Indipendentemente dalla simpatia che posso avere –e che ho – per Fanon e la sua politica. Lui era stato molto influenzato dalla sua provenienza dal Caribe, e dai problemi culturali specifici di quella regione. Il titolo del suo primo libro, “Pelle nera, maschera bianca” (1952) lo indica chiaramente. Fanon era preoccupato dalla questione dell’identità – che, detto fra parentesi, va oggi molto di moda –. Per me, non lo dico solo come individuo, ma per noi, comunisti e nazionalisti di Asia e Africa, quel problema non esiste. Non abbiamo un problema di identità. Un cinese è cinese, un indiano è un indiano, un egiziano è un egiziano. Non ci si è mai domandati “chi ero?” o “chi sono?”. Non è un problema di identità. Non era quello il nostro problema.

La mia critica dell’eurocentrismo è su un altro livello. Si fonda su un altro piano, al livello della storia della formazione dell’ideologia capitalista. Parlo di capitalismo, non parlo mai di “occidente”, non parlo di “mondo occidentale”, io parlo di centro capitalista. E metto enfasi sull’ideologia capitalista in relazione alle radici europee, con il culturalismo europeo che attribuisce agli europei, per ragioni misteriose, una “specificità” del cristianesimo, formulata in termini non molto diversi da quanto fanno Islam, ebraismo, etc.

Allora la sua critica all’ideologia eurocentrica differisce anche dai lavori di Edward Said?

Si, la mia tesi è molto diversa, tanto dalla prospettiva di Fanon come da quella di Said. Anche se il suo libro “Orientalismo” (1978) ha molti spunti interessanti, è scritto molto bene, e la critica che fa alla letteratura europea, è giusta.

La differenza fra la sua critica all’imperialismo e all’eurocentrismo e la critica di Said ha qualcosa a che vedere con la maggiori simpatie di Said verso il postmodernismo?

E’ vero, Said è postmoderno, ma nel senso buono. È fondamentalmente un culturalista. Said ha un problema di identità, lo dice lui stesso nei suoi libri di autobiografia.

Quali sono stati i suoi legami con Paul Baran, Paul Sweezy e Leo Huberman, gli intellettuali riuniti nella rivista di sinistra nordamericana Monthly Review? Quando iniziò a scrivere su quella rivista?

Non ricordo con esattezza, ma credo fosse dopo il 1968. Non ho molte differenze con loro, al contrario! Una delle prime letture che appare nella mia tesi del 1957 è la lettura di un libro di Paul Sweezy, che non era propriamente contemporanea. Era “Teoria dello sviluppo capitalista” (1942). Baran sviluppa successivamente questa teoria con la tesi del 1958 sull’aumento dell’eccedente e della riproduzione per settore, nella tradizione del “Capitale” di Marx. Mi impressionò molto quella teoria. Mi ha convinto e continuo a mantenere quella posizione. Penso che sia un miglioramento qualitativo nell’analisi marxista della trasformazione del capitalismo moderno. In relazione con la teoria classica, cioè con la prima fase di analisi di Lenin sull’imperialismo, l’analisi di Sweezy del 1942 è un passo avanti qualitativo. Questo è il motivo per cui da subito ho mostrato simpatie per Sweezy, Baran e la loro rivista “Monthly Review”.

All’inizio degli anni ’70 lei partecipa a Dakar a uno dei primi incontri internazionali che riunisce scienziati sociali e militanti latinoamericani e africani. Con che finalità si era pensato a quell’evento e in che contesto era stato organizzato?

Ho avuto l’opportunità di essere direttore dell’Istituto Africano di Sviluppo Economico a partire dal 1971. Una delle mie prime preoccupazioni fu di rompere l’isolamento relativo in cui il colonialismo aveva posizionato l’Africa in relazione all’America Latina e all’Asia. Allora organizzai due incontri. Uno fu quello fra africani e latinoamericani. Si svolse a Dakar, Senegal, nel ’71-’72. A quell’incontro parteciparono i latinoamericani Fernando Cardoso, Octavio Ianni, Enrique Oteiza, Pablo Gonzalez Casanova, Theotonio Dos Santos, Ruy Mauro Marini, Maria Concepcion Tavares, fra i molti altri.

Fu una scoperta per entrambe le delegazioni! Fra i latinoamericani e gli africani non c’erano scambi, ne ci si conosceva reciprocamente. Poi, l’anno seguente, organizzai in Madagascar la prima riunione afroasiatica sullo stesso modello dell’incontro con i latinoamericani. Lì abbiamo creato – dico “noi”, al plurale, perché io non lavoravo solo, ma in un insieme di istituzioni per consolidare quel movimento – un’altra istituzione che esiste ancora in Africa. In quegli stessi anni, il 15 aprile 1973, all’epoca di Allende, creammo a Santiago de Chile il Foro per il Terzo Mondo, del quale si è festeggiato da poco quest’anno l’anniversario. Questo era il contesto: l’epoca di Bandung, del Movimento dei Paesi Non-allineati, della Tricontinentale...

Lei ha partecipato alla Conferenza Tricontinentale a La Habana?

No, io non sono stato alla Tricontinentale de La Habana (*) Ma abbiamo seguito da vicino quel processo, il movimento Tricontinentale! Il problema era che, mentre in Asia e Africa il Movimento dei Non Allineati era composto da grandi Partiti, in America Latina non era così. In Asia e Africa esistevano Partiti-Stati: il Partito Comunista Cinese, il Partito del Congresso in India, il Partito di Nasser in Egitto, il Partito del Vietnam.

Ma in America Latina non succedeva lo stesso. Ad esempio, il Movimento dei Non Allineati a febbraio di quell’anno era composto da Asia, Africa e Cuba... non più America Latina. Solo Cuba, come Stato, partecipa a quel Movimento. Allora la Tricontinentale e l’OSPAAL per l’America Latina provarono a riunire i movimenti rivoluzionari dell’America Latina, senza gli Stati. Questa fu una importante differenza politica fra quei tre continenti in quell’epoca.

Note:
* La Tricontinentale è il nome con cui abitualmente ci si riferisce alla Prima Conferenza di Solidarietà dei Popoli d’Asia, d’Africa e dell’America Latina. Si riunì a La Habana, Cuba, nel gennaio 1966. Accorsero rappresentanti di 82 popoli e paesi, fra i quali Partiti al Governo (come il PC cubano, dell’URSS, della Cina e del Vietnam del Nord, fra gli altri) e le organizzazioni rivoluzionarie che affrontavano i propri Governi (nella maggior parte rappresentanti latinoamericani). Politicamente, la Tricontinentale riuscì a riunire i Partiti e organizzazioni marxiste con i diversi movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo.

In questo vasto gruppo, ci furono tre principali assi di influenza: il primo era capeggiato dall’URSS, il secondo dalla Cina, e il terzo, probabilmente il più numeroso, da Cuba e il Vietnam. A questi tre si sommano il blocco arabo, dove confluivano i rappresentanti palestinesi e della Repubblica Araba Unita e, con una posizione relativamente indipendente, l’India.

Fonte

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