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12/08/2018

Lotta di classe, mormorò lo spettro

1. Prima notte

Uno spettro si aggirava vicino al kebabbaro in chiusura. Era sbronzo e cantava in francese.

Tre studenti mezzi addormentati e un paio di tunisini lo guardavano incuriositi; gli arabi riconobbero le parole della canzonaccia e risero.

Ordinò un kebab piadina per seccare il Barolo.

— Col piccante?

— Completo. — rispose l’uomo, barba ispida e pelle olivastra da saraceno.

Divorato con ingordigia il pasto notturno, si riscosse. Guardò il nome della via sul cartello all’angolo e fece un sorrisone: gli era venuta un’idea per un bello scherzetto dei suoi.

Diego sentì un dito gelido sfiorargli la fronte e si svegliò di colpo, inorridito da una sensazione irreale. Spalancò gli occhi e vide una figura traslucida di vecchio che lo scrutava al buio, con occhi vividi che lampeggiavano sotto sopracciglia foltissime.

— Bu. — disse placidamente il fantasma, seduto a gambe incrociate a fianco al letto.

Diego urlò tremando e cascò a terra, rattrappendosi contro un angolo della stanza.

— Accipicchia, — balbettò infine con un filo di voce,— sei il fantasma dei Natali passati?

— Ma figuriamoci. Assomiglio un po’ a Babbo Natale ma proprio no: se devo scegliere una festività, sono il fantasma del Primo Maggio. In realtà però sono lo spettro di Karl Marx.

— Maestro! — esclamò Diego gettandosi in ginocchio ai piedi dell’ectoplasma.

— Macché maestro. Sei un asino. Sono venuto a farti vedere un po’ di cose. Torna sul letto, si vola.

Diego obbedì senza fiatare, ancora sbalordito dalla piega sovrannaturale presa dagli eventi. Lo spirito salì in piedi sulle lenzuola con molta dignità e prese il comando, squadrando sarcasticamente il pigiamino color pastello del suo passeggero: allo schiocco delle dita di Marx, la stanza e l’intera casa scomparvero, lasciando il letto fluttuante in mezzo alle stelle. Iniziò un volo impossibile nello spazio e nel tempo, al termine del quale albeggiava già da un pezzo, cento metri sotto di loro, sulle campagne della Puglia.

— Siamo nel 2011, è agosto e ci troviamo a Nardò, in provincia di Lecce. — disse Marx.— Guarda cosa capita in quella masseria.

Decine di africani si erano raggruppati all’ingresso di un edificio basso e squadrato dall’intonaco rosa e grigio bruciato dal sole e scrostato, col tetto piatto come un pueblo messicano. Lì attorno c’erano tende di fortuna e uno striscione era appeso sulla facciata. Alcuni africani bighellonavano ciondolando, altri discutevano tra di loro in modo concitato; quasi tutti, notò Diego via via che il letto volante si avvicinava atterrando infine tra i rami di un grosso pino marittimo, sorridevano compiaciuti.

— Profughi a sbafo? — chiese Diego stropicciandosi gli occhi.

— No. — disse Marx trascinando il giovane per un orecchio.— Guarda meglio: braccianti in sciopero.

Un italiano con un megafono annunciò che si era al terzo giorno consecutivo di blocco del lavoro di raccolta dei pomodori ed espresse solidarietà al capo della protesta, uno studente del Camerun, che aveva ricevuto minacce in stile mafioso dai caporali. Prese poi la parola un ghanese spiegando le rivendicazioni: salario extra se i pomodori vanno divisi per taglia, stop al lavoro in nero, controlli di sicurezza e sanitari nei campi, trattativa diretta tra padroni e lavoratori, con i sindacati e una specie di ufficio di collocamento ma senza la mediazione dei caporali. Un altro chiese la parola e spiegò in un italiano stentato che bisognava anche fare qualcosa contro un grave problema che hanno i braccianti immigrati: i caporali trattengono i documenti come strumento di ricatto, lasciando tenere solo delle fotocopie; senza documenti con la pelle di quel colore sei a rischio ogni momento, la polizia ti può far avere delle grosse grane; anche questo va messo nel documento dello sciopero.

Lotta di classe. — mormorò lo spettro, incantato.

2. Quelli come Diego

Abbiamo tutti un’amica, un compagno, un amante, una parente, un vicino di casa, una collega che fino a pochi anni fa era inequivocabilmente di sinistra, ma da qualche tempo ha la mania di leggere dei blog un po’ ambigui, di seguire pagine Facebook che ci lasciano perplessi, di citare cazzari patentati come se fossero importanti pensatori controcorrente, di fare discorsi che riecheggiano quelli di Salvini ma in versione “comunista”. A volte questa persona siamo noi stessi. Il tema su cui sono iniziate le peggiori sbandate è sempre lo stesso: l’immigrazione.

Analizziamo ora una tipica conversazione che può avvenire con questo nostro conoscente, che per semplicità d’ora in poi chiameremo Diego.

Può capitare che, come prima cosa, Diego ci assicuri di non essere affatto razzista e di odiare i fascisti e la Lega; potrebbe anche, per evidenziare il suo pedigree da compagno, cantarci I morti di Reggio Emilia senza sbagliare un cognome ed elencarci tutte le volte che ha votato come noi o che è andato in un centro sociale insieme a noi o che ha marciato al nostro fianco in un corteo. Questo è garantito: non è diventato fascio.

Tuttavia, si è reso conto che la destra prende piede nel mondo «per colpa nostra». Dice proprio così, empaticamente: «nostra», c’è stato dentro fino al collo anche lui fino a poco tempo fa. Infatti, ci spiega, la sinistra e i compagni hanno finito per reagire alla xenofobia con posizioni «buoniste» e «no border» che sono le posizioni del grande capitale. I padroni secondo Diego hanno bisogno di manodopera straniera a basso costo e per questa ragione sono favorevoli all’immigrazione.

Qui comincia un po’ di battibecco, che a un certo punto Diego prova a risolvere calando il suo asso nella manica: — Anche Carlo Marx — dice Diego, — spiegava che gli immigrati sono l’esercito industriale di riserva!

Secondo Diego l’esercito industriale di riserva sarebbero dei lavoratori sradicati dalla loro terra d’origine e disposti a tutto, che sono usati dai padroni per tenere bassi i salari. Se la conversazione sta avvenendo online, Diego ci manderà un link a uno degli strani blog che ultimamente bazzica, dove si citano i passi di Marx che secondo Diego dimostrano che prendersela coi migranti serve a difendere il proletariato. Se siamo offline, ce lo manderà lo stesso affinché possiamo leggerlo più tardi. Quelli come Diego tengono sempre molto a condividere con altri il verbo che ha aperto loro gli occhi e che li ha fatti andare oltre i luoghi comuni «immigrazionisti» della sinistra radical-chic e globalizzata.

In questo articolo ci occuperemo di smontare due false credenze: che “i veri marxisti di una volta” giustificassero l’ostilità verso i migranti, e che le politiche contro l’immigrazione favoriscano la lotta di classe.

Sentiamo già un’obiezione: ma sono opinioni marginali, di una frangia di provocatori irrilevanti; nessuno di quelli che contano davvero usa Marx per sostenere Salvini!

Purtroppo, non è vero. Questo è l’incipit del documento con cui Matteo Salvini si è candidato alla guida della Lega:


Quella evidenziata è una falsa citazione dal Capitale di Marx.

3. Marx e l’esercito industriale di riserva

Cominciamo dunque da questo benedetto esercito industriale di riserva. Karl Marx ne parla approfonditamente nel capitolo 23 della VII sezione del libro I del Capitale. L’esercito industriale di riserva sono i disoccupati.

Ai tempi di Marx erano diffuse convinzioni semplicistiche secondo cui la disoccupazione fosse dovuta al fatto che gli operai facevano troppi figli; l’espressione più nota e brutale di questa posizione è la teoria sulla sovrappopolazione di Malthus, per il quale la povertà era una conseguenza naturale dell’eccessiva fertilità dei ceti popolari. I malthusiani di oggi, come il nostro Diego, siccome i lavoratori italiani fanno pochi figli, hanno trovato una nuova spiegazione ancora più ottusa: la povertà in Europa è una conseguenza dell’eccessiva fertilità degli africani.

Marx, invece, introduce un’idea più sofisticata: è lo sviluppo stesso del capitale, in un’economia di mercato, a generare automaticamente una sovrappopolazione relativa, ossia una certa quantità di forza-lavoro disponibile a essere impiegata nella produzione ma che è tenuta a riposo. Questa sovrappopolazione relativa, cioè i disoccupati (e gli inoccupati), va a costituire una sorta di “riserva” nell’«esercito» dei proletari usato dalle aziende. Come la riserva di un vero esercito, può essere mobilitata alla bisogna, e questa necessità si verifica periodicamente perché il capitalismo ha un andamento ciclico (espansione-crisi-ripresa) e perché per sua natura continua a rivoluzionare le proprie tecniche produttive e a spostare forza-lavoro tra diversi settori produttivi o verso nuovi settori che si inventa. Se il capitalismo dovesse aspettare la nascita di nuovi operai e il loro raggiungimento dell’età lavorativa ogni volta che ha bisogno di nuove reclute, andrebbe in rovina: deve poterne trovare subito, così come deve molto rapidamente potersi liberare dei salariati in eccesso quando è il caso.

L’idea di Marx che nel capitalismo ci sia una disoccupazione fisiologica, che non c’entra con l’andamento demografico, è nel frattempo diventata mainstream e anche gli economisti borghesi parlano di disoccupazione naturale e disoccupazione ciclica.

Secondo Marx, l’esercito industriale di riserva ha tre componenti: fluida, stagnante e latente:

- La sovrappopolazione fluida sono i licenziati: espulsi dalla produzione, cercano di rientrarvi da un’altra parte; talvolta, dice Marx, emigrano. Ai tempi di Marx la disoccupazione giovanile non era un problema serio, per cui lui pensava soprattutto a operai adulti sostituiti da giovani o addirittura bambini; oggi invece metteremmo in questa sottocategoria anche molti giovani inoccupati (che non hanno ancora trovato il primo lavoro).

- La sovrappopolazione stagnante sono i precari: ebbene sì, contrariamente a quanto spesso si pensa, il precariato esisteva anche ai tempi di Marx ed Engels. Dal precariato che è occupato in modo discontinuo o parziale il capitale attinge nuovi lavoratori full-time se ha bisogno di aumentare la forza lavoro utilizzata.

- La sovrappopolazione latente è costituita dalla popolazione rurale in via di inurbamento. Molti immigrati da Paesi poco industrializzati fanno parte di questa sottocategoria; la maggior parte degli stranieri in Italia però proviene probabilmente da qualche città.

Come si vede, a parte la sovrappopolazione latente, che si è pressoché esaurita in Occidente, le altre categorie non richiedono che il capitale attinga a fonti esterne per rimpolpare l’esercito dei disoccupati: gli basta creare delle divisioni di condizione occupazionale all’interno della classe lavoratrice già disponibile. Che sia proprio così è dimostrato molto bene dall’andamento della disoccupazione in Italia nell’ultimo secolo: c’era anche prima delle recenti ondate migratorie e non è aumentata o diminuita a seconda dell’importazione o dell’esportazione di manodopera.

Un esempio ancora più eclatante è il Mezzogiorno: tantissime persone emigrano dal Sud Italia eppure questo non ha creato penuria di lavoratori, al contrario la disoccupazione è più alta proprio nelle zone di massima emigrazione; può capirlo anche Diego che se crediamo che l’immigrazione crei disoccupazione, dovremmo credere anche che l’emigrazione crei occupazione: ma ciò non succede.

Che effetto hanno i disoccupati sui salari secondo Marx (e secondo praticamente chiunque)? Li abbassano. Ovviamente, la concorrenza tra proletari abbassa il prezzo della manodopera. Questo è uno dei vantaggi dell’esercito industriale di riserva, per i padroni, e la principale fregatura per i salariati occupati. In assenza di altri fattori a bilanciare quella spinta (fattori che per fortuna però esistono!), l’esistenza di una disoccupazione fisiologica spingerebbe i salari a stabilizzarsi sempre al livello di sussistenza.

Come si vede, Marx non pensava che il capitalismo avesse bisogno di un aiutino dall’Africa per rendere sfruttati i lavoratori europei: bastavano le sue dinamiche interne. Ma Marx non era neanche fatalista: riteneva che si potesse contrastare la tendenza del capitale a trasformare i proletari in miserabili che riescono appena a sopravvivere; ci credeva così tanto che ha dedicato tutta la sua vita a provarci.

Cosa proponeva di fare Marx con l’esercito industriale di riserva?

Di certo non di fargli la guerra. Proponeva, pensate un po’, di integrarli nelle lotte della classe operaia e possibilmente di cercare di farli riassorbire nella classe stessa: per esempio, riducendo l’orario di lavoro per ridistribuire i posti disponibili tra tutti, quindi riducendo la disoccupazione e la possibilità per i padroni di strumentalizzarla; per esempio, unificando la condizione della sovrappopolazione stagnante con quella di tutti gli altri impedendo alle aziende di usare manodopera in modo precario.

Non troverete appelli di Marx ed Engels ad interrompere il processo di inurbamento dei contadini, del cui carattere brutale e alienante hanno pure spesso parlato, ma semmai toni positivi verso l’effetto progressista di queste migrazioni di sfruttati. Ecco come descrivono l’azione della borghesia in questo senso:
«Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rurale. (Manifesto del Partito Comunista, cap. 1)»
4. Seconda notte

Diego era insonne. Quello della notte prima era stato solo un brutto sogno? O era uno spirito? Cosa avrebbe detto Hegel? Forse avrebbe cercato di studiare la fenomenologia dello spirito! Ah, ah, ah! No, non fa ridere. Anche il suo senso dell’umorismo era scemato.

E se avesse avuto ragione il fantasma di Marx? In fondo, i libri che Diego citava così spesso non è che li avesse letti proprio con meticolosità filologica. Alcuni non li aveva letti proprio. Ma tanto, nel XXI secolo, in Italia, chi è che si va a leggere davvero Marx? Era una specie di omaggio, citarli. La polpa era mettere in guardia contro il turbomondialismo immigrazionista...

La porta si spalancò.

— Forza, ché si riparte! Hurry up! — urlò allegro lo spettro barbuto, irrompendo nella stanza.

— Per Giove! E dove andiamo? — chiese atterrito il giovane, che per evitarsi un’altra notte al gelo in pigiama era già corso a mettersi le scarpe e un paltò.

— Oggi si va in Emilia. Ho un paio di storie da farti conoscere.

Diego fece spazio sul letto al redivivo celeberrimo filosofo, economista e dirigente rivoluzionario tedesco Karl Marx. Quest’ultimo schioccò la lingua: — Mica andiamo anche stanotte con questo catorcio: ho portato il mio jet, salta su.

— Un aviogetto! — esclamò Diego stupito e preoccupato, mentre docilmente un misterioso caccia tutto rosso atterrava senza pilota nella strada sottostante, spaventando un gatto randagio.

— Ti avverto, — disse Marx dopo pochi minuti di viaggio — siamo quasi arrivati e non sarà bello quello che vedrai. Stai muto e impara qualcosa.

Il caccia fu fatto atterrare in mezzo a un campo. Era notte. Da un capannone lì vicino arrivavano frasi concitate e rumori di motori; dalla parte opposta, un lungo viadotto sovrastava l’orizzonte. Le due figure umane camminarono rapidamente nel buio; l’anziano faceva strada e arrivati vicini ai cancelli della ditta fece cenno all’altro di fare silenzio e osservare.

C’erano diversi passaggi per i TIR, tutti tenuti d’occhio da alcune decine di persone malvestite. Dalla lingua che parlavano tra loro, sembravano in maggioranza arabi. Sembravano abbastanza tranquilli ma vigili. Alcuni agitavano bandiere rosse davanti al muso dei camion bianchi fermi in mezzo alla strada. Sulla fiancata dei bestioni a motore, tre lettere: «GLS». Un ragazzo con un megafono lo aveva messo nella modalità sirena e lo lasciava ululare nella notte. C’erano alcune auto della polizia.

Un camion era parcheggiato in corrispondenza di un angolo della cancellata del magazzino. A un certo punto partì di slanciò, svoltando a destra per forzare il blocco. Il blocco in quel momento quasi non c’era, gli scioperanti si erano diradati ed era rimasto in mezzo alla strada solo un uomo stempiato sulla cinquantina, con un cappellino del sindacato e la faccia da bravo cristo.

L’uomo vide il camion, si allarmò, gli corse davanti urlando e mostrando i palmi delle mani. L’autista non cedette al braccio di ferro e tirò dritto; forse era convinto che il facchino si sarebbe scansato, forse era irritato dal blocco e dalla necessità di sottostare, lui italiano, alle pretese di questi nordafricani, forse era stato incitato dai suoi superiori a usare la forza. Fatto sta che il camion colpì frontalmente il facchino, lo sbatté violentemente a terra e solo a quel punto frenò di colpo.

I compagni dell’investito accorsero subito, gridando disperati e furibondi. Mentre alcuni attorniavano il corpo a terra, cercando di capire cosa fare, invocando aiuto, altri volevano prendere l’autista assassino e linciarlo. La polizia intervenne a fermarli; dal magazzino uscì un uomo con la camicia bianca, un dirigente.

Diego era impallidito.

— Andiamocene. — disse lo spettro, cupo. — Quell’egiziano era un dirigente sindacale; morirà. Si chiamava Abd El Salam Ahmed El Danf. — spiegò mentre l’aereo rosso decollava nuovamente, invisibile agli occhi dei facchini che piangevano il loro compagno.

Marx pilotava. Diego guardava scorrere rapidissime, sotto di loro, le campagne emiliane, l’autostrada del Sole, le fabbriche, la stazione strampalata per i treni veloci in mezzo al nulla, e poi ancora e ovunque, uno dopo l’altro, capannoni orrendi e squadrati. Lo spirito del vecchio spinse in avanti la cloche e l’aereo scese quasi raso terra, rallentando.

— Atterriamo?

— No, per stanotte basta così, voglio solo mostrarti una tenda. Eccola!

La tenda, addobbata di bandiere rosse, era a pochi passi dal cancello di un ennesimo capannone. Quel capannone sembrava molto moderno: listelle di metallo bianche orizzontali su tutte le facciate, vetri a specchio, quasi un laboratorio di analisi chimiche e invece ci lavorano carne di maiale. Dall’edificio principale sembrava emergere un altro mezzo parallelepipedo, una sorta di torre bassa a base triangolare appoggiata sulla facciata. In cima alla torretta, l’insegna: «CASTELFRIGO».

Davanti alla tenda, attorno a un bidone con del fuoco, alcune facce stanche ma allegre di stranieri: un est-europeo, un africano, due cinesi.

Il caccia sfrecciò sopra di loro e proseguì il suo volo.

Mesi di sciopero a oltranza, compreso quello della fame, per il cambio di contratto di operai che lavorano per false cooperative e per la fine delle pratiche abusive delle cooperative di facchinaggio che fanno intermediazione di manodopera nel comparto carni. Crumiraggio organizzato dalla CISL, repressione da parte della polizia, intrighi di ogni tipo da parte di burocrati sindacali. Ora ti domando: ti sembrano «schiavi sradicati» disposti a farsi sfruttare?

Diego tentennò. — Sradicati lo sono...

— Se le stanno piantando da soli, le nuove radici... — replicò il fantasma; poi gli tirò un coppino.— ...Pirla!

5. Marx e il buonismo

Karl Marx è vissuto per molti anni in Inghilterra, come Friedrich Engels. In Inghilterra a quei tempi esistevano sia il razzismo vero e proprio contro gli asiatici e gli africani delle colonie britanniche sia la xenofobia generica contro altri popoli europei; in particolare il posto da cui provenivano più migranti era l’Irlanda, che all’epoca era ancora parte del Regno Unito.

Marx ed Engels scrissero molto sul tema, spiegando le condizioni miserabili in cui vivevano i lavoratori irlandesi e come fossero foriere di conflitti etnici e sociali le differenze clamorose che, essendo in gran parte ex braccianti o contadini da zone poverissime, avevano rispetto alla classe operaia inglese che si era già ben acclimatata al capitalismo industriale. Non lesinarono critiche neppure alla dirigenza politica del nazionalismo irlandese.

Diego ci dice che i fondatori del socialismo scientifico non erano certo dei buonisti. Saremmo costretti a dargli ragione se trovassimo tra gli scritti di Marx una cosa di questo tipo:
«E ora la cosa più importante! In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime lo standard of life.
Il proletario inglese si sente di fronte all’irlandese come parte di una nazione oppressa, sottoposta a un’invasione; gli invasori stranieri si trasformano in strumento degli aristocratici e dei capitalisti inglesi, che consolidano così il proprio dominio. L’operaio inglese difende giustamente le proprie tradizioni religiose, sociali e nazionali contro quelle irlandesi. Egli si comporta all’incirca come gli indiani d’America che cercavano di difendersi dall’invasione dei bianchi per evitare di finire nelle riserve: come biasimarlo?
Questo antagonismo viene sopito artificialmente e tenuto a bada dalla stampa mondialista, dalle prediche “tolleranti” dei preti, dalla satira di sinistra che sparge buoni sentimenti e pietà verso i “poveri irlandesi”, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti e dei suoi servi sciocchi. Il “buonismo” è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalista. E quest’ultima lo sa benissimo.»
Dove ha scritto Marx queste righe? Da nessuna fottuta parte. Il primo capoverso è suo, ma tutto il resto me lo sono inventato. Questo non è Marx: è il Marx immaginario di Diego. Andiamo a leggerci invece il vero Marx, nella lettera a Sigfried Mayer e a August Vogt del 9 aprile 1870:
«E ora la cosa più importante! In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime lo standard of life.
Egli si sente di fronte a quest’ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l’Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese. Egli si comporta all’incirca come i poor whites verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’unione americana. L’irlandese pays him back with interest in his own money. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda.
Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo.»
Cosa abbiamo appena letto? Proprio quello che sembra. Marx vedeva la realtà e sapeva benissimo che tra operai inglesi e irlandesi non correva buon sangue. Quando nel Manifesto scrive che «gli operai non hanno patria», descrive la condizione che oggettivamente avrebbe senso per loro e alla quale sono spinti dallo sviluppo dell’economia mondiale, ma naturalmente sa che sono ancora intrisi di pregiudizi etnici, religiosi ecc. Secondo Marx tuttavia questo sentimento tipicamente popolare di rivalità con proletari di altre nazionalità fa comodo ai padroni e i padroni stessi lo fomentano continuamente.

Marx non sostiene mai che i capitalisti favoriscano il buonismo e la tolleranza verso gli immigrati; Marx sostiene che ciò che in modo più o meno subdolo fa la classe dominante è proprio diffondere la xenofobia e il razzismo.

Interessante notare che anche i giornali umoristici razzisti sono citati tra gli strumenti pericolosi in mano alla classe dominante; oggi diremmo: sono strumenti del padronato anche i vignettisti anti-immigrati come Marione o Krancic, cantanti di destra come Povia (che tra l’altro in una canzone orrenda sostiene proprio la bestialità che «Carletto Marx» fosse d’accordo con lui), quelli che creano i memi xenofobi su Facebook e via dicendo.

In sostanza, Marx dice che i lavoratori che ragionano come Diego sono come i crumiri: si fanno turlupinare dalla borghesia e dividono la loro classe. E aggiunge che questo vale anche per gli immigrati che odiano gli autoctoni, anche se naturalmente dedica a questo problema derivato minore preoccupazione.

Ma questa lettera ci dice molto di più. In generale, le migrazioni di forza-lavoro non sono un complotto della borghesia: esse avvengono spontaneamente e per iniziativa degli stessi migranti, a cui va riconosciuta la capacità di decidere del proprio destino e valutare cosa gli conviene. Il capitalismo crea automaticamente le condizioni di disparità economica che alimentano i flussi migratori; la borghesia se ne avvantaggia a posteriori per i propri interessi economici e politici, come fa del resto con qualsiasi cosa.

In questo caso specifico tuttavia Marx è proprio convinto che una specie di cospirazione capitalista veramente ci sia: dopo tutto, l’Irlanda è una colonia interna della Gran Bretagna che determina la sua politica agricola, spingendo allo spopolamento delle campagne dell’isola. Parla infatti di «emigrazione forzata». Nonostante questo, Marx non propone che i comunisti rivendichino misure di blocco dell’immigrazione. Anzi, vede in questa mescolanza etnica un’opportunità per la Prima Internazionale da lui fondata.

L’organizzazione operaia scompagina i piani del capitale e trasforma in progressista ciò che, lasciato a sé stesso (ovvero lasciato ai padroni), sarebbe reazionario. La merce forza-lavoro è una merce speciale e tra le sue particolarità c’è il fatto che non è inerte. I lavoratori sono esseri umani con una coscienza che può svilupparsi. Tutto il marxismo è permeato dalla consapevolezza che la lotta di classe, ossia l’impossibilità di considerare i lavoratori come semplici fattori produttivi, plasma il mondo.

In chiusura della lettera, dopo aver spiegato l’importanza di conquistare la simpatia degli operai irlandesi difendendo la liberazione dell’Irlanda dal giogo imperialista, parla con ammirazione dell’azione svolta da sua figlia Jenny nel portare a conoscenza del grande pubblico i temi della questione irlandese. Conclude dicendo che per l’Internazionale è decisivo rafforzare la collaborazione tra operai irlandesi e di altre nazionalità, non solo in Gran Bretagna ma anche in America, dove le divisioni nazionali hanno da sempre frammentato il movimento operaio in modo particolarmente dannoso.

OK, ci sembrava ovvio ma a quanto pare non lo è e conviene dirlo esplicitamente: secondo i fondatori della Prima Internazionale, bisognava unire i lavoratori di varie nazionalità, sia creando legami tra la classe operaia di un Paese e di un altro, sia, all’interno di ciascun Paese, tra autoctoni e immigrati. Ecco perché si chiamava Internazionale dei Lavoratori. Bisognava promuovere la fraternità di classe.

Sicuramente gli xenofobi al giorno d’oggi li chiamerebbero buonisti.
«È necessario che i nostri scopi siano inclusivi verso ogni forma di azione della classe lavoratrice. Aver dato loro un carattere particolare sarebbe stato un adattamento ai bisogni di una sola sezione – di una sola nazione di lavoratori. Ma come potremmo chiedere a tutti di unirsi per portare avanti gli obiettivi di pochi?»
Questo risponde anche a un’altra cialtronata che si legge spesso, e cioè che per Marx ogni nazione doveva fare la sua lotta separata, fraintendimento che nasce da un passo del Manifesto che comunque dice esattamente il contrario («La lotta del proletariato contro la borghesia è all’inizio nazionale, ma per la forma, non per il contenuto»)... ma sorvoliamo.

Nell’intervista, Marx prosegue:
«Per fare un esempio, una delle forme più comuni del movimento di emancipazione è quello degli scioperi. In precedenza, quando uno sciopero aveva luogo in un Paese veniva sconfitto dall’importazione di lavoratori da un altro. L’Internazionale ha quasi fermato tutto questo. Riceve informazioni sullo sciopero che si intende fare, diffonde l’informazione tra i suoi membri, che subito capiscono che per loro la sede dello sciopero deve essere una zona proibita. I padroni così sono lasciati da soli a fare i conti coi propri uomini [...] Con questi mezzi, l’altro giorno uno sciopero dei produttori di sigari di Barcellona è stato condotto a un esito vittorioso.»
Come molti di questi scritti, se lo leggesse Diego senza capirci un granché potrebbe facilmente eccitarsi: in effetti Marx qui dice che l’Internazionale fermava l’importazione di crumiri stranieri. Ma è il come che conta: l’Internazionale fermava il crumiraggio straniero organizzando i lavoratori stranieri, coinvolgendoli nella lotta comune. Sarebbe risultato inconcepibile per gli internazionalisti chiedere allo Stato, cioè alla polizia, di fermare i crumiri alzando barriere alla frontiera. Semmai la polizia, da che mondo è mondo, scorta i crumiri al di là dei picchetti.

Il punto più profondo però è un altro: bisogna sempre rivolgersi ai lavoratori stranieri, che il padronato vorrebbe usare come merci a più buon mercato per abbassare il costo di altre merci, come esseri umani che vanno considerati, convinti, coinvolti. Nella retorica di Diego, invece, gli immigrati sono cose, nel caso migliore «schiavi» da compatire. È la stessa retorica dei loro sfruttatori.

6. Terza notte

Ormai aveva preso un po’ di confidenza. Si era fatto già trovare per strada, appoggiato a un muro.

— Bravo! Arrampicati — urlò il fantasma di Marx, gettando una scala di corda lunghissima da un puntino lontano nel cielo. La scala si srotolò fino quasi a toccare terra. Ondeggiava placidamente davanti al naso di Diego.

— Muovi il culo! — gridò la voce tonante da lassù. Il giovane era terrorizzato ma, un passo tremante alla volta, salì tra i palazzi, sopra la nebbia, verso le stelle, fino alle prime nubi. Ogni istante temeva di precipitare ma non osò disobbedire al famoso filosofo morto nel 1883.

Finalmente, scavalcò il parapetto della navicella di vimini e vide Marx manovrare le corde e la fiamma della mongolfiera per partire.

— OK. Questa volta niente jet, dobbiamo viaggiare di giorno e guarderemo da lontano. Puoi usare quel cannocchiale, ha un buono zoom.

Diego non si trattenne: — Egregio lemure, maestro, ma perché lo chiami «jet», quando c’è una bellissima parola italiana, «aviogetto»? E poi perché «zoom»? «Ingrandimento»! E anche «OK»...

Marx si irrigidì di colpo. Strizzò gli occhi sotto le sopracciglia folte e digrignò i denti. Lasciò la guida dell’aeromobile.

— Primo: lemure lo dici a tua sorella.

— Ma vuol dire spirito notturno! Dal latino.

— Lo so! Ma su Google trovi solo scimmiette ormai. La lingua si evolve, bestia.

— Capisco.

— E questa cavolata di non usare parole straniere da dove nasce? Cos’è, la difesa linguistica della patria? Gli operai non hanno patria. E se hai letto mezza pagina mia, metto una parola straniera ogni due righe. Se è in inglese, ci metto il francese. Se è in tedesco, ci metto l’inglese. Se è in francese, ci metto il tedesco. Ma si può essere un uomo di cultura nel secolo decimonono senza essere un po’ cosmopolita? E tu sei del ventunesimo e mi fai queste manfrine! Ma vatti a nascondere!

— Scusami.

— Scusato. Ora riprendo in mano questo trabiccolo e tu non mi rompi le balle. OK?

— Va bene.

— No! Devi dire «OK».

— Ma... ti prego... non riesco.

— Dillo!

— O… K.

— Alright.

Il pallone era di un tessuto rosso scuro su cui campeggiava in eleganti caratteri ottocenteschi color oro la scritta pubblicitaria «ERMEN & ENGELS».

— Non chiedermi niente. — borbottò il lemure.

Prima dell’alba, le luci assonnate di una metropoli resero facile l’orientamento: — Ma quella è Roma! — disse emozionato Diego. Lo spettro sbadigliò e tenne la rotta, lasciando scorrere la capitale alla sinistra.

Un paio d’ore dopo, superati altri centri più piccoli, si cominciò a riconoscere in lontananza una città importante, dal piano regolare, in mezzo a un collage di rettangoli di varie tonalità di verde: campi di frutta e verdura.

— Riconosco anche quella: è Littoria!

Marx lo fulminò con lo sguardo.

— Latina! Volevo dire Latina... — si corresse subito Diego.

— Sai chi sono i Sikh? — domandò il vecchio.

— Un credo esotico.

— Esotico non vuol dire niente. Per te sarebbe esotica anche la Corsica. È una religione originaria dell’India. Ci sono più di ventimila sikh che lavorano nell’Agro Pontino, in condizioni pessime, anche 12 ore al giorno, per una paga ridicola. Gli stessi capi o capetti forniscono droghe per sostenere i ritmi nei campi e nelle serre: Engels mi raccontava che ai nostri tempi i capitalisti a volte usavano metodi simili nelle fabbriche inglesi.

— Questo è l’effetto dell’immigrazione clandestina.

— E come al solito ti sbagli. Sono quasi tutti immigrati regolari. La legge Bossi-Fini stabilisce che l’entrata regolare del migrante in Italia possa avvenire dentro i flussi prestabiliti a condizione che l’immigrato abbia già un contratto di lavoro pronto prima di partire. Di solito è una farsa perché questo è praticamente impossibile; ma le farse possono diventare tragedie. Ci sono dei reclutatori che vanno nei villaggi del Punjab e vendono a credito dei pacchetti completi: contatto col datore di lavoro, viaggio, alloggio. I migranti si indebitano per 4-8mila euro, e a quel punto sono in balia dei mediatori di manodopera, che possono obbligarli ad accettare qualsiasi lavoro per ripagare il debito. Questi reclutatori sono collegati con le mafie che spadroneggiano nel mercato di Fondi e coi caporali, che trattengono una parte del salario. E i padroni, che li cacciano all’istante se osano protestare, trattengono altre migliaia di euro in cambio della stipula del contratto che serve ad avere e rinnovare il permesso.

— Sì, è terribile. Però, senti: perché loro lo accettano?

— Proprio perché i flussi sono regolati! Ecco a cosa serve ai padroni avere la distinzione tra immigrati regolari e clandestini: si forma una gerarchia. E per stare a galla e avere i permessi diventi ricattabile. Ma poi, chi te lo ha detto che lo accettano? Guarda giù.

Erano arrivati nel 2016. La mongolfiera si era fermata sopra una piazza di Latina. Riconoscere un edificio squadrato di architettura fascista diede un brivido di piacere a Diego. Prese il cannocchiale per riconoscere la massa umana che si addensava nella piazza.

Dovevano essere circa quattromila persone. Tanto per cambiare, un tripudio di bandiere rosse. Ascoltavano molto ordinatamente i comizi in una lingua asiatica (Diego pensò: esotica) che venivano fatti salendo sopra una di quelle grandi “vele” pubblicitarie montate su un camioncino. Erano quasi tutti uomini dal viso olivastro, parecchi con barbe importanti e scurissime; molti avevano il cappellino del sindacato, altri dei turbanti di vari colori. Chissà se avevano addosso il kirpan, il pugnale che ogni sikh è obbligato dalla sua fede a portare.

Stanno scioperando. Otterranno un aumento del salario a un livello più dignitoso.

— Quanto? — chiese Diego restando incollato al cannocchiale.

— Cinque euro all’ora. — rispose il fantasma.

7. Lenin No Border

Marx ed Engels dedicarono la loro vita alla costruzione di partiti, movimenti e organizzazioni internazionali di ispirazione, indovinate un po’, marxista. Tuttavia, non ebbero mai cariche pubbliche, non erano neanche consiglieri di condominio. Il primo marxista che conquistò il potere politico alla testa di una rivoluzione per più di qualche giorno fu Lenin. Da questo punto di vista, le sue opinioni sul tema dell’immigrazione sembrano più rilevanti per capire come mettere in pratica l’internazionalismo su questo tema in termini di programma politico.

Siccome il nostro amico Diego bazzica i “sovranisti” (quelli “di sinistra”, si capisce!) e siccome i sovranisti amano non solo la patria italiana ma soprattutto quella russa, guidata dal presidentissimo Putin, di solito in quell’ambiente si vorrebbe fare bingo arruolando nelle file anti-immigrati anche l’anello di congiunzione per antonomasia tra la Russia e il marxismo: Lenin in persona. Sarebbe una tombola, perché si potrebbe avere un Giano bifronte, russissimo, da schierare in qualunque discussione: sei di destra? Bèccati Putin, omofobo e anti-immigrati; sei di sinistra? Bèccati Lenin, che è circa uguale.

Ci tocca porre un piccolo ostacolo a questo progetto: la realtà storica.

Come dovrebbe essere noto, Lenin fece parte della Seconda Internazionale (la Prima si era sciolta nel 1876-’77), all’interno della quale rappresentò l’ala più a sinistra. Si scontrò con la linea dominante nell’organizzazione fino a rompere completamente con i maggiori partiti che ne facevano parte e che distrussero l’Internazionale allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. La ragione fondamentale della rottura potrebbe essere descritta, in termini odierni, così: la gran parte dei partiti socialisti assunse posizioni sovraniste, di appoggio alla propria borghesia nazionale contro le altre nella Grande Guerra.

Contro questo che Lenin vedeva come un tradimento dell’internazionalismo marxista, venne in seguito fondata la Terza Internazionale ovvero l’Internazionale Comunista con sede a Mosca.

Molto prima di questa rottura, nell’agosto del 1907, la Seconda Internazionale tenne un suo congresso mondiale a Stoccarda. Lenin scrisse un rapporto dal congresso nel quale si intravedono i prodromi della futura degenerazione sovranista dei grandi partiti socialisti. Per esempio, Lenin criticò con indignazione il tentativo, da parte di alcuni socialisti dei Paesi imperialisti più rapaci, di approvare una mozione che potesse giustificare qualsiasi forma di colonialismo (fosse pure “colonialismo socialista”). Il tentativo fu sconfitto ma come sintomo preoccupò parecchio Lenin:
«Questo voto sulla questione coloniale è di grandissima importanza. In primo luogo, ha mostrato in modo impressionante l’opportunismo socialista, che soccombe alle blandizie borghesi. In secondo luogo, ha rivelato una caratteristica negativa nel movimento operaio, la quale può fare non poco danno alla causa proletaria e che per questa ragione va presa molto sul serio.»
Un’altra discussione in cui emersero posizioni confuse, in questo caso sconfitte a larghissima maggioranza, fu quella sulla questione femminile e in particolare sul diritto di voto: una posizione minoritaria sosteneva, sulla base di sofismi tattici, che bisognasse prima combattere per il suffragio maschile e poi per quello universale. Va citata per ricordare che nella storia del movimento socialista e comunista non si è mai disdegnata la lotta per i cosiddetti diritti civili, la cui denigrazione è invece un cavallo di battaglia di Diego.

Ma c’è un passaggio interessante nel rapporto di Lenin che riguarda proprio le migrazioni di lavoratori. Infatti, dal Partito Socialista Americano (che ci aveva già provato in combutta con gli australiani e gli olandesi al congresso precedente) era giunta una proposta di questo tenore:
«Combattere con tutti i mezzi a propria disposizione l’importazione premeditata di manodopera straniera a basso costo, calcolata per distruggere le organizzazioni dei lavoratori, per abbassare il tenore di vita della classe operaia e per ritardare la realizzazione finale del socialismo.»
Il delegato americano Hillquit difese la proposta di restrizioni all’immigrazione prendendosela in particolare coi cinesi e altri popoli poco industrializzati «che non sono in grado di assimilarsi ai lavoratori del Paese di adozione». Sono le stesse fesserie che sentiamo dire oggi sugli africani o sui musulmani che non possono “integrarsi”. Questa proposta orripilante fu sconfitta. Ecco cosa ne scrisse Lenin:
«Qualche parola sulla mozione su emigrazione ed immigrazione. Anche qui, in Commissione c’è stato un tentativo di difendere ristretti interessi di bottega, di proibire l’immigrazione di lavoratori da Paesi arretrati (i coolie – dalla Cina ecc.). Questo è lo stesso spirito di aristocratismo che si trova tra i lavoratori in alcuni dei Paesi “civilizzati”, che traggono certi vantaggi dalla propria posizione privilegiata e sono, quindi, propensi a dimenticare la necessità della solidarietà di classe internazionale. Nessuno però al Congresso ha difeso questa ristrettezza di vedute corporativa e piccolo-borghese. La mozione approvata riflette appieno le rivendicazioni della socialdemocrazia rivoluzionaria.»
Ops! Ma questo è esattamente il contrario di quello che ci dice Diego, secondo cui la «sinistra petalosa e mondialista» è piccolo-borghese e distante dal proletariato e per questo motivo difende gli immigrati! Secondo Lenin erano proprio quelli che volevano bandire l’immigrazione a essere succubi dell’ideologia e degli interessi borghesi. Di più: secondo Lenin, anche il fatto che tra alcuni operai in Occidente si diffondesse la richiesta di fermare l’immigrazione era indicativo del fatto che la borghesia avesse “comprato” uno strato privilegiato della classe operaia.

La polemica con i socialisti americani non si placò negli anni successivi. Nonostante Stoccarda e nonostante le proteste dei socialisti nipponici, il Partito Socialista Americano insistette su una linea di “xenofobia di sinistra”. In una lettera a un altro gruppo di compagni americani, nel 1915, Lenin scrive:
«Nella nostra lotta per il vero internazionalismo e contro il “jingo-socialismo” citiamo sempre nella nostra stampa l’esempio dei leader opportunisti del P.S. in America, che sono a favore di restrizioni sull’immigrazione di lavoratori cinesi e giapponesi (specialmente dopo il Congresso di Stoccarda del 1907 e contro le decisioni di Stoccarda). Pensiamo che non si possa essere internazionalisti e allo stesso tempo a favore di queste restrizioni. E affermiamo che i socialisti in America, specialmente i socialisti inglesi, che appartengono alla nazione dominante e degli oppressori, che non sono contrari a qualunque limitazione dell’immigrazione, contro il possesso delle colonie (Hawaii) e per l’integrale libertà delle colonie, ebbene tali socialisti sono in verità dei jingoisti.»
Per «jingoismo» si intendeva una forma di nazionalismo feroce e guerrafondaio. I «jingo-socialisti» oggi li chiameremmo rossobruni.

Lenin torna più di una volta sul tema nei suoi scritti. Nel 1913 scrive un breve articolo concentrato soprattutto sull’immigrazione in America, ma che parla delle migrazioni di lavoratori in generale. Un’argomentazione spesso usata dagli xenofobi è che la sinistra anticapitalista non si rende conto che è proprio il capitalismo oggi a causare e organizzare le migrazioni. Ovviamente, ce ne rendiamo conto; il punto è che questo non è sufficiente a decidere come schierarsi. Ecco come invece pone la questione Lenin:
«Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei Paesi.
[...] Non c’è dubbio che solo l’estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli. La liberazione dall’oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l’arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell’America, della Germania, ecc.»
Senz’altro è un pensiero più complesso dei meme razzisti e dei post di Salvini: è un pensiero dialettico.

Lenin dice al tempo stesso che emigrare è tremendo, che l’immigrazione è un’occasione di business schifoso per i padroni, eppure ritiene che le migrazioni abbiano un significato progressista e addirittura rivoluzionario. E come chiama quelli che rifiutano quest’ultima verità? Reazionari. Cioè, diremmo oggi, fascisti o qualcosa del genere.

Tra i siti e le pagine Facebook che diffondono veleno xenofobo appiccicando alle fiale etichette “marxiste”, particolarmente odiosa è «Ufficio Sinistri», pagina gestita da tale Vallepiano, autore anche di un omonimo libro. Ogni giorno, con grande zelo, Vallepiano si industria a fornire pezze d’appoggio “di sinistra” a ogni mossa di Matteo Salvini e alle campagne d’odio della Lega. Il 14 giugno scorso ha pubblicato – ovviamente senza citare alcuna fonte – un presunto discorso di Samora Machel (1933-1986) in cui il leader anticoloniale mozambicano si scagliava contro l’emigrazione dall’Africa e la descriveva come una prassi controrivoluzionaria.

Nella discussione in calce al post, qualcuno che conosce bene pensiero e biografia di Machel (che era stato a sua volta un emigrante) ha chiesto le fonti; a brevissimo giro si è capito che stralcio e discorso erano inventati di sana pianta. Dopo molti solleciti, Vallepiano ha buttato lì il titolo di un libro, una raccolta di discorsi e scritti di Machel di difficile reperibilità, ma Lorenzo Vianini del gruppo Nicoletta Bourbaki lo ha reperito il giorno stesso e ha controllato. Nessuna frase minimamente somigliante, anzi: contenuti del tutto opposti.

Sono questi i metodi dei rossobruni. Si era già visto con il meme finto-pasoliniano «Vedi, caro Alberto…», nato e diffuso negli stessi ambienti per attaccare l’antifascismo.

En passant, notiamo anche che per Lenin il capitalismo determina le migrazioni, ma non sotto forma di un complotto internazionale, ingannando gli emigranti che se solo “sapessero la verità” resterebbero a casa loro: semplicemente la differenza salariale spinge masse di proletari a spostarsi da un Paese a un altro secondo un calcolo razionale.

E che dire delle frontiere nazionali? Questo argomento da guardie doganali sembra appassionare molto quelli come Diego. Non vorrete mica dirci che Lenin era un fricchettone “no border”, un cosmopolita, per cui i confini sono solo linee immaginarie senza importanza? Non proprio, ma ci andiamo vicini:
«La borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un’altra, cercando di dividerli. Gli operai coscienti, comprendendo l’inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati.»
Il finale può sembrare un po’ paternalistico verso i lavoratori dei Paesi più poveri, ma in realtà solo poche righe più sopra lo stesso autore spiega come talvolta siano proprio gli immigrati a dare agli autoctoni lezioni preziose di lotta di classe:
«Gli operai che avevano vissuto scioperi di ogni tipo in Russia, hanno portato anche in America lo spirito degli scioperi di massa, più coraggiosi e offensivi.»
Questo risuona molto bene con l’esperienza degli ultimi anni in Italia, dove da un lato gli stranieri sono stati integrati in modo crescente nel sindacato e nelle lotte dei lavoratori italiani, dall’altro hanno in una serie di circostanze (e in particolare nell’agricoltura e nella logistica) rappresentato una punta avanzata di lotte particolarmente audaci ed esplosive.

Lenin torna sul tema nel 1916, quando scrive uno dei suoi capolavori ovvero L’imperialismo fase suprema del capitalismo. Nel testo afferma che se nella fase precedente del capitalismo le migrazioni di forza-lavoro (escludendo la tratta degli schiavi) avvenivano soprattutto a partire dall’Europa, nella sua fase imperialista diventa sempre più rilevante l’importazione di manodopera dalle colonie e dai Paesi più poveri. L’imperialismo esporta capitale e truppe nelle colonie, e ne importa materie prime e lavoratori:
«Una delle particolarità dell’imperialismo, collegata all’accennata cerchia di fenomeni, è la diminuzione dell’emigrazione dai paesi imperialisti e l’aumento dell’immigrazione in essi di individui provenienti da paesi più arretrati, con salari inferiori [...] In Francia i lavoratori delle miniere sono “in gran parte” stranieri: polacchi, italiani, spagnoli. Negli Stati Uniti gli immigrati dall’Europa orientale e meridionale coprono i posti peggio pagati, mentre i lavoratori americani danno la maggior percentuale di candidati ai posti di sorveglianza e ai posti meglio pagati. L’imperialismo tende a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari.»
Lenin usa una critica invertita rispetto a quella, che spesso ascoltiamo, secondo cui l’immigrazione ha creato uno strato di quasi-schiavi staccato dalla massa dei lavoratori. Dice invece che il fenomeno di cui preoccuparsi è la formazione di uno strato privilegiato di lavoratori autoctoni che guarda dall’alto in basso gli altri, tra cui gli immigrati. Ai giorni nostri, questa analisi va fortemente ridimensionata grazie alla decolonizzazione, alla grande crescita numerica del proletariato occidentale, alla proletarizzazione dei ceti medi e impiegatizi. Resta però indicativa dell’approccio leninista: il problema non sono gli immigrati e gli strati bassi della classe, il problema è il distacco degli strati alti e chi tenta di dargli politicamente voce.

L’anno dopo la pubblicazione del testo sull’imperialismo è il 1917, l’anno delle due rivoluzioni. Lenin inizia il 1917 da esule e lo finisce da capo del governo della Russia sovietica. È l’occasione per vedere concretamente come le sue idee sull’immigrazione siano state calate nella realtà.

Naturalmente, la Russia dopo la Rivoluzione d’Ottobre, sconvolta dalla guerra e poi dalla guerra civile, immersa in intrighi controrivoluzionari di ogni tipo e in giganteschi problemi economici, non era proprio l’obiettivo di grandi flussi migratori. Semmai, erano moltissimi gli emigranti: esponenti dell’aristocrazia e della grande borghesia in fuga dalla rivoluzione, prigionieri di guerra liberati, oppositori politici e migranti economici di varia estrazione. Tuttavia, fatta eccezione per le esigenze politico-militari, l’atteggiamento nei primi anni — cioè prima dello stalinismo — fu quello di realizzare il programma bolscevico di abolizione dei controlli dei passaporti sia interni (una delle caratteristiche più odiate del regime zarista, reintrodotta da Stalin nel 1932) sia esterni.

La Costituzione della Repubblica Socialista Federale Sovietica Russa del 1918 è, oltre e forse più che un riferimento giuridico, un documento politico che esprime gli intenti a lungo termine e i principî generali del nuovo regime. Sul tema dell’immigrazione esprime posizioni di radicale apertura dei confini:
«Art. 20. In forza della solidarietà dei lavoratori di tutte le nazioni, la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa accorda tutti i diritti politici dei cittadini russi agli stranieri che risiedano sul territorio della Repubblica Russa per ragioni di lavoro e che appartengano alla classe operaia oppure ai contadini che non si avvalgano di lavoro altrui, e riconosce ai Soviet locali il diritto di accordare a tali stranieri i diritti della cittadinanza russa senza ulteriori difficoltose formalità.

Art. 21. La Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa concede diritto di asilo a tutti gli stranieri perseguitati per reati politici e religiosi.

Art. 22. Riconoscendo uguali diritti ai cittadini indipendentemente dalla loro razza o nazionalità, la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa dichiara incompatibile con le leggi fondamentali della Repubblica la costituzione o la tolleranza di privilegi o di preferenze di qualsiasi genere attribuiti in base alla razza o alla nazionalità, come pure qualunque oppressione di minoranze nazionali o la limitazione della loro uguaglianza giuridica.»
Quindi: all’articolo 20 immigrazione libera e cittadinanza per tutti, all’articolo 21 accoglienza per tutti i profughi, all’articolo 22 divieto assoluto di discriminazioni razziste o etniche. Un partito di sinistra così leninista da avere nel suo programma questi punti sarebbe senz’altro accusato da Diego di essere al servizio del capitalismo globalizzato. Quante rivoluzioni ha fatto Diego? Nessuna? Ah, ecco: allora meglio fidarsi dell’Ottobre.

8. L’ultima notte

Sperava in un elicottero, in un idrovolante, in un’astronave. Ma quella quarta notte il fantasma di Karl Marx non arrivò più. Diego tornò di sopra, un po’ deluso, e dormì tutta la notte.

La mattina era ancora un po’ scosso. Gli era venuta voglia di rileggere qualche testo, di studiare. Forse era il momento di cambiare.

Il ricordo del fantasma però stava già svanendo. Tutto quello che era avvenuto gli sembrava irreale e inspiegabile. Non poteva essere successo davvero, né i viaggi con lo spirito di Marx né tutte quelle lotte fatte da allogeni, da turboschiavi sradicati, da marionette del cosmopolitismo borghese; e poi, cosa ci facevano lì in mezzo, nei campi e nelle officine, le bandiere della sinistra petalosa che pensa solo ai gay e ai diritti civili? Implausibile, onirico, falso.

Pensò però di controllare su Internet una per una le storie, per vedere se fossero vere, cosa ci fosse sotto, cosa fosse successo dopo; per cercare sui giornali se ne succedessero altre, in altri settori economici, con altre rivendicazioni, e che legami avessero con gli italiani, chi se ne stesse occupando.

Ma successe un’altra cosa: ricevette un messaggio sul telefonino, da un certo «Adriano CasaPound». Diceva: «Vista la storia del negro a Rozzano? Facci un pezzo per il Primato, daje».

Prendendo il telefono dal comodino, vide che era appoggiato su un pacco di bollette da pagare: della luce, del gas, della Linea Asimmetrica di Sottoscrizione Digitale... Il contratto con l’università dei ciellini scadeva a settembre.

Rispose: «Lo scrivo in giornata.»

«Bene, camerata. Nobis!», rispose Adriano.

Diego scosse la testa per scacciar via i pensieri fastidiosi.

Un lemure, era solo un lemure.

9. La «bella sinistra di una volta» vi schifava uguale

Sarebbe impossibile esplorare l’intera storia della sinistra mondiale, lungo tutti i suoi vari gradi di coerenza e di anticapitalismo, per scoprire dove e quando sia stata egemone in qualche partito o sindacato o movimento una posizione analoga a quella di Diego sull’immigrazione.

Sembra, dalla disamina fatta, che si possa escludere che questo sia il caso per Marx, Lenin e i loro più stretti sodali. Nella parte su Lenin abbiamo però visto che posizioni degeneri anti-immigrati emergevano eccome, qua e là, nel movimento socialista-comunista mondiale, costringendo gli altri a una battaglia teorica per difendere le idee fondamentali dell’internazionalismo. Anche la Terza Internazionale fondata da Lenin e Trotskij, cui aderirono dall’Italia Gramsci e Bordiga, ebbe a questo proposito le sue gatte da pelare. Al suo IV congresso, nel 1922, i terzinternazionalisti discutono la «questione orientale», espressione con cui all’epoca si intendeva ciò che potremmo definire «questione coloniale» o «questione del Terzo Mondo».

Come anni prima si era visto ai congressi della Seconda Internazionale, i Paesi in cui la sinistra era maggiormente infetta dal virus xenofobo erano i Paesi più ricchi affacciati sugli oceani: Gran Bretagna, Canada, USA, Australia, Giappone. Per motivi sociali, culturali, storici e anche banalmente geografici – sono più vistose le navi che solcano l’oceano, come oggi i barconi e le navi di soccorso nel Mediterraneo, rispetto alle migrazioni terrestri, e portano persone da luoghi più remoti – in questi Paesi il sindacato e la sinistra più incline al riformismo proponevano varie forme di regolamentazione o blocco dell’immigrazione, magari selettivamente contro alcuni Paesi più “barbari”.

Il tema è toccato con forza nella sezione «I compiti del proletariato nel Pacifico»:
«In vista del pericolo che si avvicina, i Partiti Comunisti dei Paesi imperialisti (America, Giappone, Gran Bretagna, Australia e Canada) non devono semplicemente diffondere propaganda contro la guerra, ma devono fare tutto il possibile per eliminare i fattori che disorganizzano il movimento operaio nei loro Paesi e che rendono più facile per i capitalisti lo sfruttamento degli antagonismi nazionali e razziali.
Questi fattori sono la questione dell’immigrazione e della manodopera di colore a basso costo.
La maggior parte dei lavoratori di colore portati dalla Cina e dall’India per lavorare nelle piantagioni di zucchero nella parte meridionale del Pacifico sono ancora reclutati sotto il sistema della servitù debitoria. Questo fatto ha portato i lavoratori nei Paesi imperialisti a rivendicare l’introduzione di leggi contro l’immigrazione e la manodopera di colore, sia in America sia in Australia. Queste leggi restrittive approfondiscono l’antagonismo tra lavoratori di colore e bianchi, il che divide e indebolisce l’unità del movimento operaio.
I Partiti Comunisti d’America, del Canada e dell’Australia devono condurre una campagna vigorosa contro le leggi restrittive sull’immigrazione e devono spiegare alle masse proletarie in questi Paesi che tali leggi, accendendo l’odio razziale, alla lunga si ripercuoteranno su di loro.
I capitalisti sono contro leggi restrittive negli interessi della libera importazione di manodopera di colore a basso costo per ottenere, per suo tramite, l’abbassamento dei salari dei lavoratori bianchi. L’intenzione dei capitalisti di andare all’offensiva può essere affrontata solo in un modo: i lavoratori immigrati devono unirsi ai ranghi dei sindacati esistenti dei lavoratori bianchi. Simultaneamente, si deve avanzare la richiesta che la paga dei lavoratori di colore sia innalzata allo stesso livello di quella dei lavoratori bianchi. Una mossa di questo tipo da parte dei Partiti Comunisti metterà allo scoperto le intenzioni dei capitalisti e allo stesso tempo dimostrerà platealmente ai lavoratori di colore che il proletariato internazionale non ha pregiudizi razziali.»
Il sistema della servitù debitoria è molto simile ai debiti che gli immigrati Sikh dell’Agro Pontino fanno coi mediatori di manodopera (in odor di mafia e caporalato), non cento anni fa ma ai giorni nostri. Eh, chissà se Diego ne ha mai sentito parlare...

Dalla fine degli anni Venti ci sono stati lo stalinismo, i fronti popolari, le “democrazie popolari”, la decolonizzazione, il maoismo, movimenti rivoluzionari più o meno eclettici, la trasformazione di molti partiti comunisti da avanguardie rivoluzionarie leniniste in partiti di massa più accomodanti col capitalismo... Nella sinistra si è allentato il rigore teorico che abbiamo trovato negli esempi fatti finora. Ciò non toglie che in linea di massima non sono mai state assunte le posizioni anti-immigrati oggi difese dai sovranisti sedicenti marxisti come Diego.

A puro titolo di esempio, introduciamo la figura di Paolo Cinanni (1916-1988). Combattente nella Guerra di Liberazione, dirigente di lotte contadine dopo la guerra, Cinanni fu un intellettuale del PCI la cui militanza fu segnata da un rapporto problematico col partito. Fondò con Carlo Levi la Federazione Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglie. Nell’ambito della FILEF nacque il suo lavoro teorico più importante, Emigrazione e imperialismo. Siamo arrivati a Cinanni perché un amico di Diego, che ne aveva letto in un commento su un blog no euro, ce l’ha tirato fuori in una polemica di bassa lega su Twitter.

Alla base dell’uso strumentale di questo autore, come di molti altri, per sostenere la chiusura delle frontiere, ecco all’opera una modalità davvero puerile: si prende un pezzo di analisi e si lascia intendere che ne consegua una prassi simile a quella... di Salvini.

Questo approccio è particolarmente irritante e irrispettoso nel caso di autori militanti, come questo, che hanno lasciato scritto chiaro e tondo quali prassi politiche secondo loro andassero tratte dalle proprie analisi. Per esempio solo con molto pelo sullo stomaco un sovranista potrebbe citare questo brano come se fosse a proprio sostegno:
«L’emigrazione genera, invero, decadenza, e questa provoca nuova emigrazione, in un processo a spirale che lascia le nostre regioni dell’esodo senza fiato. L’unica merce che esse continuano a produrre è la forza-lavoro, ma con la sua partenza esse non perdono soltanto le spese sostenute per la sua formazione – sempre più qualificata e, perciò, sempre più onerosa –, ma perdono soprattutto il plusvalore da essa prodotto nelle regioni e nei paesi ove viene impiegata, a condizioni di particolare sfruttamento.»
— Visto? Visto?! — si eccita Diego,— Cinanni dice che l’emigrazione è una brutta cosa e che genera sfruttamento.

Diamo una camomilla a Diego e spieghiamogli che non serviva ce lo dicesse Cinanni, con rispetto parlando: abbiamo tutti parenti che sono emigrati e di norma avrebbero preferito risparmiarselo. Ma soprattutto abbiamo tutti davanti agli occhi lo stato miserando delle province italiane di grande emigrazione (interna o internazionale), specie meridionali e insulari.

Quello che dice Cinanni è che l’emigrazione impoverisce i Paesi di partenza a vantaggio dei Paesi di destinazione, ovvero, nel caso odierno, sposta risorse economiche dai Paesi di provenienza degli immigrati a vantaggio del padronato italiano. Cinanni sostiene, cioè, che l’immigrazione sia un vantaggio economico per i Paesi più ricchi, cioè proprio il contrario di quanto dicono oggi gli xenofobi per cui gli immigrati impoverirebbero l’Italia. Addirittura arriva a rivendicare che i Paesi di arrivo dei migranti dovrebbero compensare economicamente quelli di partenza, cosa che secondo lui le rimesse non fanno.

L’analisi di Cinanni è anche incompatibile con la teoria per cui gli immigrati generano disoccupazione; infatti Cinanni spiega che semmai sono gli emigrati a farlo, a dimostrazione che il numero di occupati (e quello dei disoccupati) nel capitalismo non è una grandezza fissa bensì dinamica, proprio come pensava Marx.

Ma se l’emigrazione per il comunista Cinanni è un male capitalista (Il male dell’emigrazione si intitola un suo testo), non sta dicendo che il blocco dell’immigrazione è un bene socialista? No. Lo spiega lui stesso benissimo:
«Le migrazioni per motivi di lavoro così come avvengono oggi creano concorrenze e contrasti in seno alla stessa classe operaia; nonostante sia da tutti risaputo che l’immigrazione consente di dare maggior respiro al processo produttivo, di allargare il ventaglio dei settori della produzione, accelerando lo sviluppo complessivo del paese d’immigrazione, non è raro che il lavoratore straniero si senta dire che egli porta via il lavoro ed il pane al lavoratore locale.
Sono le stesse classi dirigenti che da una parte promuovono l’immigrazione e dall’altra hanno paura dell’unità dei lavoratori locali con gli immigrati, le quali suscitano le stesse campagne xenofobe, prendendo lo spunto dalle vicende e dai fatti occasionali più diversi.
È così che all’interno della stessa Italia, il quotidiano della Fiat conduce, a Torino, una sistematica campagna antimeridionalista: come in Svizzera, è l’industriale Schwarzenbach, che è a capo del partito anti-stranieri, che conduce la forsennata campagna xenofoba, che suggestiona sino al delitto i più ingenui e sprovveduti operai locali, seminando vittime innocenti fra i lavoratori immigrati.»
Per Cinanni, come per noi, la xenofobia è un’arma dei padroni che non si contrappone alle politiche migratorie capitaliste, ma al contrario le complementa.

Ancora una volta siamo di fronte a un pensiero dialettico, che richiede uno sforzo di comprensione delle contraddizioni. Se è vero che il padronato tenta di dividere i lavoratori per sfruttarli meglio, è vero anche che di per sé l’immigrazione non genera problemi economici generali perché tendenzialmente produce, in prima approssimazione, una crescita dell’economia proporzionale alla crescita della popolazione:
«Proporzionalmente alla massa di lavoratori immigrati, aumenta quindi la produzione in tutti i settori; aumenta sul mercato la domanda di beni di consumo, senza che ciò porti – ove non ci sia illecita speculazione – turbamento alcuno nell’economia del paese, in quanto l’emigrato produce sempre più di quanto consuma, e ciò rappresenta la miglior garanzia antinflazionistica.»
Si tratta dunque non di difendere l’economia nazionale dalla minaccia di un’invasione catastrofica, giacché tale minaccia non esiste e l’economia nazionale probabilmente si gioverà dell’apporto di forzalavoro immigrata, ma semmai di difendere il tenore di vita degli operai, degli impiegati e degli altri salariati, ovvero di strappare fette più grandi di reddito dalle mani dei padroni. Come farlo? In primo luogo Cinanni smonta lo slogan «Prima gli italiani!» (o prima i tedeschi, o prima i belgi, o, come nel suo esempio, prima gli europei comunitari):
«Ogni forza lavoro immigrata, deve, secondo noi, “costare” all’economia che impiega quanto costa la forza-lavoro locale. Ogni preferenza gioca in effetti in senso contrario, ed ogni differenza di trattamento mette in concorrenza i lavoratori fra di loro, spezzando l’unità del mercato del lavoro, e minando, con l’unità di classe, ogni prospettiva di avanzamento sociale.
L’emigrazione non deve diventare il moderno “esercito di riserva”, col quale si ricatta la classe operaia locale; se le forze-lavoro immigrate costano di meno e consentono al capitale un profitto più elevato, oggettivamente – anche a loro insaputa – esse fanno concorrenza ai lavoratori locali, sollevando tutte le furie della discriminazione, dell’ostracismo civile e della xenofobia.
Ciò è da evitare, e di tale esigenza devono rendersi soprattutto conto la classe operaia e le sue organizzazioni, imponendo un’effettiva “parità di costo” del lavoro.»
Secondo Cinanni, gli immigrati non sono un esercito industriale di riserva perché hanno tassi di occupazione simili agli autoctoni. Sarebbe proprio la messa in pratica di slogan come «Prima gli italiani!» a rischiare di renderli tali: tutti disoccupati, quindi separati economicamente dalla classe lavoratrice indigena e pronti a esercitare una pressione al ribasso sui salari. Viceversa, una necessità vitale per il movimento operaio diventa quella di parificare il costo del lavoro immigrato e del lavoro autoctono, cioè alzare i salari degli immigrati fino all’uguaglianza.

Ci si risponderà che è utopistico, perché gli immigrati sono dei poveracci che vivono in baracche, sono sottoproletariato, non possono mettersi a pari. Ebbene, in Italia, oggi, questo è falso. Lo dimostra la distribuzione dei redditi:


Non è immediato leggere questi dati, ma ciò che dicono è che metà degli extracomunitari sono più poveri di tre quarti degli italiani. Quindi, l’altra metà guadagna di più del quarto più povero degli italiani. Lo stesso vale anche per gli stranieri comunitari (tra cui si trova la minoranza più grande: i rumeni). Questa è una buona notizia: ci dice che tutto sommato, anche se gli immigrati guadagnano nettamente meno in media, non c’è una stratificazione etnica come se ci fosse l’apartheid: i proletari stranieri fanno parte della stessa classe dei proletari italiani, a cui sono abbastanza mescolati dal punto di vista retributivo.

Divide et impera? Ci provano, ma ce l’hanno fatta solo un po’. L’uguaglianza non è fuori portata, ma bisogna lottare: conviene a tutti (tranne che ai padroni).

E che dice Cinanni proprio di quelli come Diego, degli xenofobi “di sinistra” che vorrebbero correggere la linea “buonista” dei partiti di sinistra e dei sindacati introducendo slogan contro l’immigrazione? Be’, non ci va giù leggero:
«Oggi, in tanti paesi, sembrano raggiunte dalla lebbra xenofoba anche grandi organizzazioni operaie; certi sindacati si chiudono addirittura nel più cieco corporativismo, senza riuscire, per altro, a garantire i fondamentali interessi della classe operaia locale, in nome della quale affermano di schierarsi con la discriminazione antistranieri. In verità, c’è da dubitare della stessa buona fede di certi dirigenti sindacali, che pur sapendo che sul piano economico l’immigrazione accelera e dà più ampio respiro allo sviluppo economico del paese; pur sapendo, altresì, che sul piano sindacale l’apporto dei lavoratori immigrati potrebbe rappresentare un contributo decisivo al rafforzamento del potere contrattuale dell’intera classe operaia; e che sul piano politico stesso, l’unità di tutta la classe operaia può rappresentare – in Svizzera, per esempio – un solido baluardo contro ogni involuzione anti-democratica e sociale; pur sapendo tutto ciò, certi dirigenti sindacali fingono, tuttavia, di credere essi stessi alla favola dell’immigrato che “ruba il pane” al lavoratore indigeno, e sottoscrivono anche loro – come è avvenuto in Svizzera – il referendum antistranieri.»
Cinanni scrive in una interessante terra di mezzo, che è l’Europa occidentale degli anni Settanta: uno spazio economico dove convivono regioni di forte emigrazione, come il nostro Mezzogiorno, regioni di forte immigrazione e infine regioni sempre più miste, come è diventata oggi l’Italia, al tempo stesso terra di emigranti (la «fuga dei cervelli» che in realtà è soprattutto fuga di braccia italiane in Germania, Francia, Inghilterra, Canada) e destinazione di grandi flussi migratori dall’Est Europa, dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina.

Cinanni si pone giustamente il problema di come frenare il processo distruttivo dell’emigrazione, che sta soffocando il Sud e che lui vede come prosecuzione in epoca post-coloniale della politica imperialista di dominio e rapina sui Paesi poveri e sulle regioni arretrate. Scarta subito l’idea reazionaria del blocco dell’emigrazione e del rimpatrio dei migranti, che definisce inutile e anzi controproducente. Si appella invece al superamento del capitalismo, al socialismo e alla lotta sociale e politica, certo, nei Paesi di origine, ma anche in quelli di destinazione:
«Solo in una economia equilibrata, pianificata secondo i bisogni sociali, le forze produttive si sviluppano insieme e con lo stesso ritmo del sistema economico, e in questo caso non ci sarà più bisogno né dell’emigrazione, né dell’immigrazione. Ma sotto il dominio del capitale, con l’aggravarsi dell’ineguale sviluppo e degli squilibri territoriali, si aggrava anche il drenaggio di forze-lavoro per cui la sola prospettiva e la sola lotta per il ritorno non ci sembra sufficiente: essa, infatti, pone le sue rivendicazioni e rivolge la sua azione solo nei confronti del governo del paese d’origine, ma lascia disarmata l’emigrazione nei confronti del sistema che quotidianamente la sfrutta e della politica imperialista che genera lo stesso sottosviluppo dei paesi dell’esodo.
Pertanto, alla prospettiva del “ritorno”, cui è particolarmente sensibile ogni emigrato, occorre affiancare quella del cosiddetto “compenso”, ossia della effettiva parità di costo – per la economia che le impiega – della forza-lavoro immigrate e di quella locale.
Ciò scaturisce dalla più rigorosa analisi del fenomeno, ma rappresenta soprattutto un’esigenza fondamentale per mantenere l’unità del movimento operaio.»
Nel 2016 Rodolfo Ricci ha curato la pubblicazione di una raccolta di scritti di Cinanni che è veramente una miniera di analisi molto preziose per comprendere come la questione fosse posta all’inizio degli anni Settanta. Questa pubblicazione può essere scaricata online liberamente.

Si può ben dire, dopo questa pur rapidissima carrellata, che nella seconda metà dell’Ottocento, come nella prima metà e nella seconda metà del Novecento, tutti i pensatori comunisti più acuti hanno sempre tenuto una linea simile sul problema dell’immigrazione.

Questa linea è il contrario esatto di quanto predicano quelli come Diego.

Questa linea è sempre stata antirazzista, no border, internazionalista, a favore dell’unità della classe lavoratrice.

Se a qualcuno non va giù, il problema è tutto suo, ma perlomeno speriamo che dopo questo articolo smetta di giocare a nascondino.

10. Poscritto

In questo testo abbiamo parlato dei migranti in generale, non dei cosiddetti profughi. I migranti che vivono in Italia sono in larga parte immigrati regolari (l’8% della popolazione).

Una minoranza rilevante (un immigrato su dieci) è costituita dai clandestini, cioè dai migranti che non hanno documenti. Molti di loro prima o poi riusciranno a ottenerli e diventeranno immigrati regolari, e viceversa i migranti regolari potrebbero perdere il diritto legale a stare in Italia e diventare clandestini.

I clandestini non fanno parte di una razza speciale: sono solo persone trattate come reietti da ingiuste (e inapplicabili) regole burocratiche. I “profughi” sono un gruppo ancora più piccolo — meno dell’1% della popolazione — di cui si parla in maniera sproporzionata per motivi politici.

Diego fa spesso confusione tra queste categorie e pensa che in Italia milioni di migranti siano messi «negli hotel» a 35 euro al giorno. Cerchiamo di non essere fessi come Diego.

Karl Marx era un migrante e un profugo di origini tedesche, olandesi ed ebraiche. Emigrò nel 1843 in Francia, da dove fu espulso su pressione della Prussia nel 1845, rifugiandosi in Belgio. Fu arrestato ed espulso dal Belgio nel 1848. Tornato in Francia e poi nella Germania scossa dalla rivoluzione, fu espulso nuovamente nel 1849 verso la Francia, ma neppure la Francia gli diede asilo. Finì dunque profugo a Londra.

Vladimir Ilic Ulyanov, detto Lenin, era un migrante e un profugo di origini (pare) russe, tedesche, svedesi ed ebraiche. Nel 1900 emigrò in Svizzera e poi in Germania. Nel 1902 sfuggì alla polizia bavarese spostandosi a Londra. Tornato in Russia dopo la rivoluzione del 1905, ne dovette fuggire da profugo nel 1907, tornando in Svizzera e poi in Francia e per un breve periodo a Londra. Durante la Grande Guerra visse da immigrato in una regione oggi polacca dell’Austria-Ungheria e in Svizzera, senza poter rientrare in Russia, come è noto, fino al 1917.

Fonti: 1 e 2

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