di Angelo d’Orsi
Ritornano i 40 mila? Ma quali 40 mila? Non erano in quarantamila il 14
ottobre 1980, non erano in quarantamila il 10 novembre 2018. Al di là
delle cifre, su cui come sempre si assiste a una un po’ risibile
battaglia, il fatto più grave della recente esibizione del “popolo
Sì-Tav”, è stato precisamente l’avere evocato quel precedente (che tale
non era), che segnò la fine dell’ondata progressiva della società
italiana, e l’inizio dell’arretramento del movimento operaio e
studentesco.
La marcia dei capi e capetti Fiat che chiedevano di “poter
lavorare” contro la “scioperomania”, fu un duro colpo al sindacato di
classe, e in generale alla classe operaia, e, per conseguenza, ad ogni
idea di cambiamento sociale, nell’interesse dei ceti subalterni,
deprivilegiati.
Ora, dopo il successo (innegabile, sia pur con numeri decisamente
inferiori: un calcolo attendibile non supera le 10.000 presenze) della
chiamata alle armi fatta da un gruppetto di signore bene di una Torino
inguaribilmente provinciale, richiamare quel lontano episodio di lotta
di classe dall’alto appare un atto di totale irresponsabilità politica.
Che lo faccia una destra becera che, fiutato il vento, è pronta ad
azioni di revanscismo, lo si può capire; ma che il Pd, per bocca di
leader locali e nazionali, abbocchi, è sconcertante: o meglio, è una
ennesima riprova che quel partito non solo è in stato comatoso, ma che
al suo interno si annida uno straordinario “cupio dissolvi”: il
desiderio, quasi la bramosia di scomparire, inghiottito, per quel
pochissimo che ne rimane, nelle spalancate fauci della destra.
E in effetti chi sostiene la linea Tav Torino-Lione, se non la destra? L’entusiasmo con cui il giornale della Fiat, La Stampa,
ha sponsorizzato la cosiddetta “nuova marcia dei 40 mila” è una
inquietante controprova in tal senso. L’indomani il quotidiano ha
dedicato all’episodio una sovracoperta con tanto di fotocolor, dal
titolo impegnativo quanto dèjà vu: “L’altra Italia”, mentre
l’editoriale del direttore, temerariamente, richiama “Una sfida per la
modernità”. Ancora una volta, seguendo un vero e proprio canone definito
precisamente nel decennio iniziato dalla Marcia (quella del 1980), il
dualismo destra/sinistra viene ridisegnato come modernità/conservazione,
e l’etichetta della conservazione viene applicata sulla sinistra,
quella che si ostina a distinguere un conservatorismo dei valori (la
Costituzione e i suoi princìpi, il patrimonio culturale, la salvaguardia
del territorio e dell’ambiente…) dal conservatorismo degli interessi
(il profitto che prevale su tutto, in sintesi). Il punto più alto di
siffatta ideologia fu toccato da Matteo Renzi quando in una prefazione
ad una nuova edizione del celebre libretto di Norberto Bobbio Destra e sinistra
ebbe ad affermare che Bobbio oggi sarebbe d’accordo con lui nel
sostenere che la sfida non è più fra destra e sinistra, ma, appunto, fra
“innovazione” e conservazione. Dove per innovazione si intendevano i
cambiamenti: della Costituzione, delle leggi sul lavoro,
dell’ordinamento scolastico, e così via, tutto all’insegna di un
sciagurato senso del “progresso” inteso come “sviluppo”, cioè, in
sintesi estrema, privatizzazione, vista come segreto dell’efficienza e
della meritocrazia.
La marcia delle orgogliose “madamine” torinesi (che pena! Hanno
persino lanciato l’hashtag: #madamintoo…), in realtà, prima e più che
rivendicare una linea ferroviaria, di cui nulla sanno, esprimeva una
speranza, illusoria, a dire il vero: che quel treno dei sogni impedisse
il declino di Torino, declino attribuito, scorrettamente,
all’Amministrazione 5 Stelle, mentre quel declino viene da molto
lontano, da quando la Fiat, assai prima di Marchionne, decise di
lasciare la città. Una città ostinatamente rimasta sul modello della
one-company-town, di cui tutte le forze politiche e sindacali con minime
variazioni avevano condiviso la logica, semplicemente scontrandosi,
magari, su salari e orari di lavoro per i dipendenti della azienda
automobilistica e delle fabbriche e fabbrichette (le “boite”) il cui
destino era inesorabilmente legato a quello di “Corso Marconi”, come si
diceva al tempo.
L’illusione che il TAV possa interrompere quel declino è a dir poco
patetica. I cartelli inalberati da qualche intraprendente marciatore
che invocava la TAV per raggiungere “più in fretta” (la modernità,
eccola!) Lione e Parigi, magari mostrando durate inferiori in termini di
ore di viaggi analoghi in Europa, erano falsi e ingannevoli. Il TAV non
è più un’opinione, e quando Sergio Chiamparino propone,
incredibilmente, un referendum tra i piemontesi davvero finisce in un
terreno fangoso: il TAV, innanzi tutto, dopo innumerevoli cambiamenti di
percorso, di motivazione, di bilancio, oggi non è più una linea per
persone ma essenzialmente per merci, e in ogni caso, tutti, dicansi
tutti, gli studi indipendenti (per esempio del Politecnico di Torino)
hanno inequivocabilmente dimostrato che non solo non sussiste alcuna
necessità di questa “grande opera”, il cui percorso è già coperto da una
linea esistente e enormemente sottoutilizzata; ma hanno dimostrato
altresì che i costi dell’opera (pubblici), esosi, e i benefici (privati)
minimi; che il lavoro innescato non compenserebbe gli investimenti; che
il danno ambientale, paesaggistico e idrogeologico avrebbe conseguenze,
tanto sulla stabilità del territorio, quanto sul turismo, gravissime.
Ha fatto abbastanza specie vedere questo unanimismo dell’imbroglio e
dell’ignoranza, per cui qualche cattedratico con pochi impegni e
giornalisti pronti a scrivere ciò che il padrone comanda, hanno
ripetuto, psittacisticamente, le parole della “madamine” in piazza,
compreso l’elogio a quella piccola parte della magistratura locale che
ha perseguitato, accanitamente, i No-Tav come “terroristi”.
Ma lo slogan più grottesco, e quindi più reiterato, a voce e sui
cartelli e sulla stampa, è stato quello richiamato nell’intitolazione
della marcia e che alludeva al “Sì”: ma Sì a che cosa? Alla devastazione
di una delle più belle valli d’Italia? Alla corruzione (compagna fedele
di ogni “grande opera”)? Ai profitti immensi per qualcuno e agli
spiccioli concessi a pochi altri? Al dispendio di denaro pubblico? E ciò
accadeva nei giorni in cui larga parte del nostro territorio, dalla
Sicilia al Friuli, dalla Liguria alla Calabria, pagava un prezzo, ahinoi
anche in termini di vite umane, a seguito di “eventi estremi”, certo
favoriti dal cambio climatico, ma davanti ai quali poco o nulla si è
potuto, perché governi centrali e amministrazioni locali continuano a
cianciare di “grandi opere”, mentre il territorio nazionale va a pezzi.
Ha fatto specie davvero leggere, nel commento (sulla Stampa) di un
osservatore serio come Vladimiro Zagrebelsky, l’elogio di quella piazza,
che sarebbe stata formata da “cittadini con il senso del dovere”. E gli
altri, no? Quelli che per un quarto di secolo si sono battuti contro il
TAV avendo il sostegno di ricercatori e scienziati, studiando,
raccogliendo dati? Gli altri non hanno il senso del dovere civico? Gli
altri cittadini che consumavano risorse di tempo, denaro, e intelletto
per studiare quell’opera arrivando appunto alla conclusione che essa era
superflua e insieme dannosa, mentre una larga parte della cittadinanza,
passiva e indifferente, si affidava alle decisioni degli
amministratori? I No-Tav sono estranei alla polis e i Sì-Tav sono interni? Che svarione, per un giurista, per giunta.
Al contrario, la piazza così lodata da larga parte degli ambienti
politici e mediatici, e da qualche intellettuale, era precisamente la
piazza di chi allora come oggi non si preoccupa di informarsi, e oggi
come allora si lascia trascinare da venditori di false notizie, che
l’hanno persuasa che quel treno salverà l’occupazione per loro e i loro
figli (come ripetono le interviste alla “gente” in piazza Castello il 10
novembre) e che, addirittura, con il loro benessere assicurerà quello
della città subalpina.
Probabilmente, la risposta che quella città darà l’8 dicembre
prossimo, con la marcia dei No-Tav, in una sfida che ha dovuto per forza
di cose essere raccolta, non sarà sufficiente a dire la parola fine a
25 anni e oltre di dispute, di prove, di studi e pseudo-studi, di
cantieri aperti e chiusi, di lotte coraggiose, di repressioni pesanti.
Certo, visto che molti osservatori invitano ad “ascoltare la piazza”,
gli stessi che quando la piazza è avversa ai poteri a cui essi si
ispirano (per così dire), tuonano contro il “populismo”, bisognerà
mettersi a contare i partecipanti alla marcia di risposta. Aspettiamoci
che quei media e quei politici che hanno garantito i 40.000 il 10
novembre, si appresteranno a contare “qualche centinaio” di partecipanti
l’8 dicembre, sottolineando che si tratta di “militanti dei Centri
sociali”. Ossia, coloro che a differenza dei pensionati e delle madamine
in piazza il mese prima, non possono trovare spazio nella comunità e
che sono animati solo dalla “voglia di dire no”.
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