Un pugno di giornate e il susseguirsi d’eventi che ha scosso la
Bolivia sembra aver posto momentaneamente fuori gioco una delle
esperienze costitutive di quel cambio continentale di regime che avevamo
visto sorgere con l’affermazione del chavismo in Venezuela e il
costituirsi di un fronte progressista in America Latina. Giorni che
paiono secoli (indietro) se è vero, come si legge nella cronaca
nostrana, che il vice-presidente del Senato Jeanine Áñez Chavez –
approdando al ruolo non grazie all’ormai desueto esercizio della
sovranità popolare ma per lunga e sistematica serie di dimissioni nelle
fila governative – si è autoproclamata presidente ad interim
(esattamente un’autoinvestitura, poiché la seduta parlamentare che l’ha
vista salire al soglio governativo sembra sia stata l’unica che abbia
potuto fare a meno del conteggio del numero legale di deputati presenti e
che questo, naturalmente, non fosse stato raggiunto), sanzionando così
la riuscita, almeno provvisoria, del disarcionamento del MAS-IPSP (Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos)
e di Morales dal potere e l’ascesa di un’opposizione. Ma cerchiamo di
essere più precisi e onesti, diciamo le cose come stanno: di una destra
ultrareazionaria, bianca, razzista e organica agli interessi
statunitensi al potere dello Stato in Bolivia. Una destra esattamente
speculare a quella che in Venezuela tenta ancora di scalfire il processo
rivoluzionario e che proprio in questi giorni si riorganizza per
sferrare l’ennesimo colpo al governo bolivariano.
È certamente troppo presto per tirare le somme di una fase che
sembra terminare sotto i colpi di quel cambio di regime continentale, un
fiume di reazione in piena che si abbatte su tutta la compagine
politica latino-americana e che trova come unici soggetti decisi a
spezzare la corrente Cuba, le masse venezuelane e la resistenza popolare
dei singoli stati sud-americani. Adesso, piuttosto, è il momento della
solidarietà, che è già scarsa a queste latitudini e occorre mantenere su
livelli dignitosi, pena, in caso contrario, la perdita della fiducia di
tutti quei compagni, di tutti coloro i quali credono ancora che non
tutto è perduto in quella parte del mondo, che il socialismo latino
americano è ancora un’esperienza viva e in costruzione e che può
contribuire a risollevare le sorti della sinistra di classe nel resto
del mondo e in Europa.
Non è il momento di tirare bilanci anche se, pure con quel poco di
notizie e informazioni filtrate dal teatro boliviano, alcuni
interrogativi già si presentano ed emergono come quesiti non aggirabili.
Purtroppo, come ben sappiamo e, anzi, sembriamo aver accettato, il
vecchio vizio, la vecchia malattia del fardello dell’uomo bianco, dei
“due pesi e due misure”, dell’orientalismo elevato a categoria d’analisi
politica, dunque generalizzato e riportato alla sua radice originaria,
l’eurocentrismo di vecchio stampo coloniale non sembra aver mai
abbandonato la putrescente catena di comando nella vecchia Europa e,
scendendo agli ultimi, infimi anelli di questa catena, all’altezza dei
così detti “pennivendoli”, troviamo nel pieno della sua operatività,
anzi, in una nuova primavera dispensatrice di cazzate questa vecchia
abitudine. E allora un pronunciamento militare – ergo una minaccia –
diviene “pressione” nel migliore dei casi, quasi fosse un consiglio
amichevole, e dunque il concetto di golpe non sembra essere più
appropriato a descrivere la “fumosa” situazione boliviana. I pestaggi,
le torture, i sequestri, il saccheggio delle abitazioni a opera
dell’opposizione nei confronti dei dirigenti e militanti dei partiti
vicini al MAS – si, i sequestri , come quello ai danni della sindaca
Patricia Arce, proprio rappresentante del MAS, che come i roghi ai danni
dei militanti chavisti non sembra essere stato davvero una
preoccupazione per lo stuolo di adoratori della Dichiarazione universale
dei diritti umani che affollando i corridoi di Bruxelles – non sono di
certo il cuore della questione, non ci dicono proprio niente,
l’importante è tenere ben presente che tutto quello che si muove fuori
dai nostri europeissimi confini, possibilmente a sinistra, è
dannatamente autoritario e va ricondotto a ragione in un qualche
processo elettorale preferibilmente sotto il vigile occhio di una
commissione ad hoc creata appositamente per non pestare i piedi a
nessuno, da una parte all’altra dell’oceano.
Insomma, il solito cortocircuito analitico che, con abbondante aiuto da
parte del flusso inesauribile di pessima e volutamente distorta
informazione, permette di dire che un golpe qui è inaccettabile, ma un
golpe lì, forse, non è proprio un golpe. Certo è che, sebbene le sorti
del socialismo boliviano non siano definitivamente terminate, hanno
subito un duro colpo e chissà se non sia mortale. La ritirata tattica –
speriamo non strategica – con cui la compagine del MAS ha affrontato
questa fase di offensiva reazionaria ha avuto il risultato di evitare
l’esplosione della situazione interna al paese (probabilmente in un
momento in cui le forze popolari non sarebbero state in grado di
rispondere, certamente in un momento di profonde contraddizioni in seno
allo stesso movimento progressista ma che non riuscirà ad evitare una
guerra civile se le cose dovessero peggiorare), ma hanno significato
l’estromissione quasi totale e la decapitazione della dirigenza politica
del fronte progressista nel paese. Una mossa, quella della rinuncia a
una risposta colpo su colpo ai tentativi di disarcionamento
dell’autorità legittima che sembra quantomeno di dubbia efficacia,
apparentemente compiuta con l’idea che l’imperialismo subisca una sorta
di horror vacui, quando invece la politica, al pari dell’imperialismo, non ne ammette. Anzi, ne è vorace.
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