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18/11/2019

Un golpe è un golpe

Un pugno di giornate e il susseguirsi d’eventi che ha scosso la Bolivia sembra aver posto momentaneamente fuori gioco una delle esperienze costitutive di quel cambio continentale di regime che avevamo visto sorgere con l’affermazione del chavismo in Venezuela e il costituirsi di un fronte progressista in America Latina. Giorni che paiono secoli (indietro) se è vero, come si legge nella cronaca nostrana, che il vice-presidente del Senato Jeanine Áñez Chavez – approdando al ruolo non grazie all’ormai desueto esercizio della sovranità popolare ma per lunga e sistematica serie di dimissioni nelle fila governative – si è autoproclamata presidente ad interim (esattamente un’autoinvestitura, poiché la seduta parlamentare che l’ha vista salire al soglio governativo sembra sia stata l’unica che abbia potuto fare a meno del conteggio del numero legale di deputati presenti e che questo, naturalmente, non fosse stato raggiunto), sanzionando così la riuscita, almeno provvisoria, del disarcionamento del MAS-IPSP (Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos) e di Morales dal potere e l’ascesa di un’opposizione. Ma cerchiamo di essere più precisi e onesti, diciamo le cose come stanno: di una destra ultrareazionaria, bianca, razzista e organica agli interessi statunitensi al potere dello Stato in Bolivia. Una destra esattamente speculare a quella che in Venezuela tenta ancora di scalfire il processo rivoluzionario e che proprio in questi giorni si riorganizza per sferrare l’ennesimo colpo al governo bolivariano.

È certamente troppo presto per tirare le somme di una fase che sembra terminare sotto i colpi di quel cambio di regime continentale, un fiume di reazione in piena che si abbatte su tutta la compagine politica latino-americana e che trova come unici soggetti decisi a spezzare la corrente Cuba, le masse venezuelane e la resistenza popolare dei singoli stati sud-americani. Adesso, piuttosto, è il momento della solidarietà, che è già scarsa a queste latitudini e occorre mantenere su livelli dignitosi, pena, in caso contrario, la perdita della fiducia di tutti quei compagni, di tutti coloro i quali credono ancora che non tutto è perduto in quella parte del mondo, che il socialismo latino americano è ancora un’esperienza viva e in costruzione e che può contribuire a risollevare le sorti della sinistra di classe nel resto del mondo e in Europa.

Non è il momento di tirare bilanci anche se, pure con quel poco di notizie e informazioni filtrate dal teatro boliviano, alcuni interrogativi già si presentano ed emergono come quesiti non aggirabili. Purtroppo, come ben sappiamo e, anzi, sembriamo aver accettato, il vecchio vizio, la vecchia malattia del fardello dell’uomo bianco, dei “due pesi e due misure”, dell’orientalismo elevato a categoria d’analisi politica, dunque generalizzato e riportato alla sua radice originaria, l’eurocentrismo di vecchio stampo coloniale non sembra aver mai abbandonato la putrescente catena di comando nella vecchia Europa e, scendendo agli ultimi, infimi anelli di questa catena, all’altezza dei così detti “pennivendoli”, troviamo nel pieno della sua operatività, anzi, in una nuova primavera dispensatrice di cazzate questa vecchia abitudine. E allora un pronunciamento militare – ergo una minaccia – diviene “pressione” nel migliore dei casi, quasi fosse un consiglio amichevole, e dunque il concetto di golpe non sembra essere più appropriato a descrivere la “fumosa” situazione boliviana. I pestaggi, le torture, i sequestri, il saccheggio delle abitazioni a opera dell’opposizione nei confronti dei dirigenti e militanti dei partiti vicini al MAS – si, i sequestri , come quello ai danni della sindaca Patricia Arce, proprio rappresentante del MAS, che come i roghi ai danni dei militanti chavisti non sembra essere stato davvero una preoccupazione per lo stuolo di adoratori della Dichiarazione universale dei diritti umani che affollando i corridoi di Bruxelles – non sono di certo il cuore della questione, non ci dicono proprio niente, l’importante è tenere ben presente che tutto quello che si muove fuori dai nostri europeissimi confini, possibilmente a sinistra, è dannatamente autoritario e va ricondotto a ragione in un qualche processo elettorale preferibilmente sotto il vigile occhio di una commissione ad hoc creata appositamente per non pestare i piedi a nessuno, da una parte all’altra dell’oceano.

Insomma, il solito cortocircuito analitico che, con abbondante aiuto da parte del flusso inesauribile di pessima e volutamente distorta informazione, permette di dire che un golpe qui è inaccettabile, ma un golpe lì, forse, non è proprio un golpe. Certo è che, sebbene le sorti del socialismo boliviano non siano definitivamente terminate, hanno subito un duro colpo e chissà se non sia mortale. La ritirata tattica – speriamo non strategica – con cui la compagine del MAS ha affrontato questa fase di offensiva reazionaria ha avuto il risultato di evitare l’esplosione della situazione interna al paese (probabilmente in un momento in cui le forze popolari non sarebbero state in grado di rispondere, certamente in un momento di profonde contraddizioni in seno allo stesso movimento progressista  ma che non riuscirà ad evitare una guerra civile se le cose dovessero peggiorare), ma hanno significato l’estromissione quasi totale e la decapitazione della dirigenza politica del fronte progressista nel paese. Una mossa, quella della rinuncia a una risposta colpo su colpo ai tentativi di disarcionamento dell’autorità legittima che sembra quantomeno di dubbia efficacia, apparentemente compiuta con l’idea che l’imperialismo subisca una sorta di horror vacui, quando invece la politica, al pari dell’imperialismo, non ne ammette. Anzi, ne è vorace.

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