di Sandro Moiso
Daria Addabbo (fotografie) – Gino Castaldo (testi), This Hard Land. Sulle strade di Springsteen, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 50,00 euro
Non ho nessuna difficoltà a confessare, fin da subito, che ritengo la
musica di Bruce Springsteen da annoverare tra quanto di più ripetitivo e
ridondante la musica americana abbia prodotto da molti anni a questa
parte. Sia nella sua versione da stadio che nella sua dimensione
acustica.
Dalla metà degli anni Settanta quando, forse anche grazie al suo lancio
da parte di John Hammond Sr. che aveva precedentemente scoperto Bob
Dylan, il Boss aveva letteralmente travolto il mercato della musica rock
con il suo album Born To Run, la sua musica non si è più
sostanzialmente rinnovata; ripetendo un cliché fatto di rock’n’roll e
soul delle periferie urbane, fusi in un blue collar sound fatto di
muscoli e sudore che non ha più saputo andare oltre un’immagine pubblica
da rockstar, suburbana ma pur sempre tale, che l’artista sembra non
essere più riuscito a togliersi di dosso. Mentre la componente acustica
della sua opera non solo non ha aggiunto nulla di nuovo ai suoni della
musica folk americana, ma è talvolta riuscita a banalizzare, in una
sorta di dance party casereccio, il suo più intimo patrimonio, così come
è avvenuto per le “Pete Seeger’s Sessions” (sia in studio che live).
Ma, allora, dove sta la forza, che non intendo affatto rinnegare, delle sue canzoni?
Nei testi e, naturalmente, nelle storie narrate dagli stessi.
In quei testi che hanno fatto dire a Ennio Morricone, nell’introduzione
ad una traduzione italiana delle canzoni di Springsteen, che proprio tra
quelle sue parole cantate occorre cercare l’espressione più vera del
“grande romanzo americano”1.
Quei testi che esplorano, come afferma Gino Castaldo2
nello scritto che accompagna le bellissime foto di Daria Addabbo nel
libro di grande formato appena edito da Jaca Book, soprattutto la notte
americana con i suoi sogni, i suoi demoni, i suoi incubi, le sue
violenze e i suoi amori consumati in fretta, magari sui sedili di
un’auto truccata per le scommesse e le corse selvagge sulle strade
infuocate delle periferie.
Un mondo eminentemente notturno, quello a cui Springsteen ha dedicato forse il suo disco più significativo, Darkness on the Edge of Town
(1978), fatto anche di lavoratori che si alzano prima dell’alba per
raggiungere le fabbriche oppure altri infimi luoghi di lavoro, che Daria
Addabbo3,
con le fotografie che costituiscono il vero “cuore” del libro, ha
saputo perfettamente catturare e riprodurre. Immergendo coloro che le
osservano nell’anima più vera di quella marginalità urbana e provinciale
di cui il rocker originario del New Jersey è stato il più autentico
cantore.
Le fotografie della Addabbo, scattate principalmente nei luoghi in
cui il cantautore americano è nato e si è formato (New Jersey, Atlantic
City, Asbury Park, New York) oppure, ma in misura minore com’è giusto,
lungo le strade che conducono all’Ovest (New Mexico, Arizona, Texas,
Nevada) verso la California (mito di un’età dell’oro che non è davvero
mai esistita e trasformata oggi in una La La Land in cui si aggirano
decine di migliaia di senza tetto), sottolineano con grazia, distacco e,
allo stesso tempo, sorpresa la profonda connessione che esiste tra
quegli ambienti e il mondo cantato dal musicista cresciuto nelle grandi
periferie proletarie e sottoproletarie dell’impero americano.
Periferie fatte di lavoro, locali dove si beve e si suona, di strade
notturne illuminate dalle insegne al neon, di piccole bische o grandi
case da gioco in cui i perdenti possono continuare a perdere i già pochi
risparmi e gli infimi sogni che la vita e il lavoro, sempre più
incerto, hanno loro riservato.
Ma anche di piccole sorprese come i cerbiatti fotografati di notte sul
limitare di case di periferia, quasi a testimoniare quell’innocenza
perduta e mai ritrovata che agita spesso i testi e i sogni del
cantautore nato a Long Branch il 23 settembre del 1949.
Un autentico working class hero che ha sempre portato con sé
il sogno di diventare un vero rock’n’roller, ma che ha dovuto
accontentarsi di diventare una rockstar internazionale, come ha egli
stesso affermato.
Una nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere, ma che non è stato che
sembra accompagnare tante sue canzoni e che si riverbera nelle
fotografie del libro. Mai ridondanti, mai a caccia del mito, ma soltanto
della realtà profonda di una notte, quella americana, in cui tutti i
miti hanno cessato di essere tali per diventare soltanto i frammenti di
una realtà composita e dura che non trova la sua rappresentazione nella
bandiera a stelle e strisce, ma soltanto nelle fiere di provincia, nella
solitudine degli individui, nelle fabbriche avviate alla chiusura o
nelle armi impugnate nell’inutile ricerca di una sicurezza sociale ed
economica che, forse, per la maggior parte degli americani cantati da
Springsteen non è mai esistita.
Una trama che è possibile leggere in quella che per me rimane la sua canzone più bella, Seeds,
contenuta nel suo quintuplo album live del 1986, che nella ricerca
ostinata e sfortunata di una nuova occasione di vita e lavoro sa
concentrare tutta la poetica dell’autore americano. Spesso lontano dai
grandi spazi, tipici del mito americano, recuperati soltanto per
l’ultimo album Western Stars (2019).
Un’immagine dell’America e del suo mito ormai sbiadito di cui i testi
di Castaldo e le belle fotografie della Addabbo costituiscono una
perfetta e, talvolta, poetica sintesi.
Fonte
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