di Marco Veronese Passarella
Ci riflettevo oggi. Il mio dissenso con la maggioranza degli economisti critici italiani non riguarda, in realtà, la specifica risposta alla questione “Uscita sì? Uscita no?” da Unione Europea e sottoinsiemi. Io stesso non ho una posizione così netta su questo punto, essendo l’uscita semmai una conseguenza (dagli esiti incerti) e non la causa di politiche economiche radicali.
Il mio dissenso è invece legato ad una triplice riduzione o identificazione che gli unionisti fanno e che io trovo invece infondata e fuorviante: quella tra Area Euro e Unione Europea, quella tra Unione Europea ed Europa, e infine quella tra Europa e Bene Assoluto.
Non mi soffermo sulla prima, perché sapete tutti a cosa mi riferisco. Passo dunque alla seconda identificazione, Unione Europea=Europa, che non è solo un’inesattezza sul piano storico, geografico e politico.
Il richiamo emotivo all’Europa (sia esso giocato in positivo, “l’unione dei popoli europei come reazione all’orrore delle guerre mondiali”, ovvero in negativo, “la riproposizione con altri mezzi del Terzo Reich”) impedisce di guardare all’Unione Europea per quello che è: un’area di libera circolazione di merci e capitali dotata di un coordinamento macroeconomico deflazionista – sigillato dall’obbligo di adozione della valuta unica, che vale ad impedire qualsivoglia riallineamento dei tassi di cambio reali attraverso un aggiustamento dei cambi nominali.
Evito, invece, di entrare qui nel merito del rapporto di gemellanza siamese, e sia pure non priva di contraddizioni, tra Unione Europea e dispositivo di difesa atlantico in chiave anti-russa.
Nota a margine per gli amanti del “ce lo impone la globalizzazione”. Non vi è alcuna evidenza empirica che la maggior dimensione geografica si associ a migliori condizioni di vita e di lavoro, o a migliori risposte tecnologiche alle tanto strombazzate sfide globali, essendo i primi paesi in Europa per reddito pro-capite, uguaglianza e innovazioni tutte piccole economie che hanno aderito a condizioni speciali o non aderito affatto all’Unione Europea (Danimarca, Svezia e Norvegia).
D’altra parte, un Green New Deal su scala continentale, o anche solo nazionale, è in questo momento impedito, non incentivato, dalle regole comunitarie. Le quali non sono state fatte per incentivare la collaborazione tra paesi, ma per favorire la centralizzazione-concentrazione di capitali e tecnologie lungo l’asse franco-tedesco.
Ecco perché faremmo meglio a relegare il feticismo della dimensione ad altri e più gratificanti (si spera) ambiti della nostra vita associata.
Venendo alla terza identificazione, Europa=Bene Assoluto, non ho da obiettare se per qualcuno Europa significa, che so, i capolavori della musica classica, l’illuminismo e, perché no, la fondazione della Prima Internazionale. Va da sé che Europa significa anche questo.
Ma “anche questo” non vuol dire “solo questo”. Europa significa altresì deportazione di schiavi, colonialismo e campi di concentramento. Significa bombardamenti su Belgrado, appoggio ai nazisti ucraini contro il nemico r(u)sso e finanziamenti a bande criminali in Turchia e Libia per bloccare i flussi migratori.
Insomma, anche a voler accettare le prime due riduzioni, non vi è alcunché di intrinsecamente positivo (o negativo) nell’essere europei. Così come non vi è nulla di intrinsecamente positivo (o negativo) nell’essere italiani, catalani o tedeschi. A meno di non rispolverare vecchie suggestioni che faremmo bene a lasciare nel dimenticatoio della storia.
Ecco perché se non possiamo non dirci europei, possiamo ed anzi dobbiamo rifuggire ogni retorica europeista. Ma su questo, a quanto pare, sono in pochi a pensarla come me.
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