Dopo l’uscita di Symbolic, il tour annesso, il licenziamento di tutti i musicisti della formazione numero infinito, Chuck Schuldiner ha sciolto i Death per qualche tempo; l’idea era concentrare gli sforzi in un nuovo progetto di heavy metal classico dal nome Control Denied, inseguendo il sogno lasciato per troppo tempo nel cassetto di reclutare Ronnie James Dio
alla voce. Non so perché né quando abbia cambiato idea ma nel 1998,
come se nulla fosse successo, esce un altro disco dei Death, The Sound of Perseverance,
accolto da una quantità di recensioni adoranti come mai prima, vendite
inversamente proporzionali ai magri incassi totalizzati da tutti i
precedenti, Schuldiner assurto a santità dopo un live al Dynamo Festival
che pareva l’equivalente di Jimi Hendrix a Woodstock dalle parole di
chi c’era (io non c’ero).
La macchina era tornata a pieno regime, fino al fulmine a ciel sereno
nell’estate 1999: un comunicato stampa emanato chissà quanti mesi
prima, arrivato in differita con la snervante lentezza della
trasmissione dati pre-Internet, rivela il tumore al cervello in stadio
già avanzato che lo sta mangiando vivo. Nei semestri successivi, il web
ormai sul pezzo, aggiornamenti sempre più tempestivi sullo stato di
salute dell’uomo, sempre più angosciosi: i cicli di radioterapia,
nessuna copertura sanitaria, le decine di migliaia di dollari necessari
per la rimozione chirurgica che la famiglia Schuldiner non ha e nessuna
etichetta-datore di lavoro è tenuta per legge a coprire dunque sticazzi,
i concerti benefit che raccolgono spiccioli, l’intervento quando è
ormai troppo tardi (e i falsi scoop, anche su riviste italiane, di
interviste mai avvenute in cui Schuldiner proclamava di essere
“guarito”), il cancro che torna fuori, aggrapparsi alla medicina
alternativa per mancanza di alternative, ovviamente la morte prima del
tempo. Nel mezzo del calvario esce The Fragile Art of Existence,
iniziato prima e completato in piena consapevolezza della malattia; è, a
mia memoria, la prima opera di un morente nella storia del metal. Le
precedenti morti celebri – Randy Rhoads, Cliff Burton – si erano
consumate nell’arco di pochi secondi, per fatalità, sfiga ed errore
umano, quando la maggior parte di noi ancora doveva nascere; qui è
diverso: avevamo gli anni e anche troppo tempo per capire che qualcosa
di terribile stava accadendo, comunque non abbastanza per arrivare
preparati.
The Fragile Art of Existence è un disco importante, perfino
formativo, perché mette di fronte all’ineluttabilità della fine in
un’età in cui la morte è ancora un concetto vago, perlopiù astratto; è
però anche un ascolto sgradevole, estenuante, frustrante, che poco o
nulla lascia a parte la fatica negli innumerevoli tentativi di farselo piacere,
perché testimonia l’agonia dell’autore e in quanto tale non potrà
essere meno di un capolavoro. Non è così: i pezzi, inutilmente
ingarbugliati, cervellotici e prolissi oltre ogni soglia di umana
sopportazione, punteggiati da interminabili assoli orrendi, non portano
da nessuna parte; al posto di Ronnie James Dio, alla voce c’è un clone
di Warrel Dane
ancora più grottesco dell’originale (come se non bastasse e avanzasse
quello che già c’era), le linee vocali diventano così i vaneggiamenti di
un attore di avanspettacolo completamente sbronzo; manco mezzo riff che
rimanga nella memoria; una maratona di angoscia per le sorti
dell’autore che non trova la necessaria catarsi nel corrispettivo
musicale, affondando già dal primo pezzo nella melma della noia nera.
I testi sono grida d’aiuto che soltanto infermieri e psicoterapeuti
(forse, mah) avrebbero gli strumenti cognitivi per maneggiare, il
terrore della fine che si avverte vicina offusca la lucidità necessaria
per saper dire l’orrore di quanto ognuno sia solo di fronte alla morte,
rimarcando semmai l’abisso che separa il vivere dal descrivere.
Globalmente il testamento di un uomo malato, un indigeribile casino
inevitabilmente influenzato dal corso degli eventi, uno spettacolo
agghiacciante dal quale era impossibile distogliere lo sguardo; certo
non la migliore testimonianza del talento di Chuck Schuldiner,
compositore prima geniale, poi via via sempre più involuto. Passata
l’isteria, elaborato il lutto, il tempo ha riaggiustato gli equilibri
come sempre; da un punto di vista personale, ai dischi da Scream Bloody Gore a Human torno regolarmente, fino a Symbolic a dipendere dall’umore, a The Sound of Perseverance e The Fragile Art of Existence mai. (Matteo Cortesi)
Fonte
Pezzo scritto bene, libero dai toni sistematicamente agiografici con cui Schuldiner e i suoi lavori sono descritti da praticamente un ventennio.
Il disco in questione tuttavia lo ricordo poco, quanto meno non a sufficienza per concordare con l'autore che sia una porcata quasi fatta e finita.
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