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21/11/2019

Avere vent’anni: CONTROL DENIED – The Fragile Art of Existence

Dopo l’uscita di Symbolic, il tour annesso, il licenziamento di tutti i musicisti della formazione numero infinito, Chuck Schuldiner ha sciolto i Death per qualche tempo; l’idea era concentrare gli sforzi in un nuovo progetto di heavy metal classico dal nome Control Denied, inseguendo il sogno lasciato per troppo tempo nel cassetto di reclutare Ronnie James Dio alla voce. Non so perché né quando abbia cambiato idea ma nel 1998, come se nulla fosse successo, esce un altro disco dei Death, The Sound of Perseverance, accolto da una quantità di recensioni adoranti come mai prima, vendite inversamente proporzionali ai magri incassi totalizzati da tutti i precedenti, Schuldiner assurto a santità dopo un live al Dynamo Festival che pareva l’equivalente di Jimi Hendrix a Woodstock dalle parole di chi c’era (io non c’ero).

La macchina era tornata a pieno regime, fino al fulmine a ciel sereno nell’estate 1999: un comunicato stampa emanato chissà quanti mesi prima, arrivato in differita con la snervante lentezza della trasmissione dati pre-Internet, rivela il tumore al cervello in stadio già avanzato che lo sta mangiando vivo. Nei semestri successivi, il web ormai sul pezzo, aggiornamenti sempre più tempestivi sullo stato di salute dell’uomo, sempre più angosciosi: i cicli di radioterapia, nessuna copertura sanitaria, le decine di migliaia di dollari necessari per la rimozione chirurgica che la famiglia Schuldiner non ha e nessuna etichetta-datore di lavoro è tenuta per legge a coprire dunque sticazzi, i concerti benefit che raccolgono spiccioli, l’intervento quando è ormai troppo tardi (e i falsi scoop, anche su riviste italiane, di interviste mai avvenute in cui Schuldiner proclamava di essere “guarito”), il cancro che torna fuori, aggrapparsi alla medicina alternativa per mancanza di alternative, ovviamente la morte prima del tempo. Nel mezzo del calvario esce The Fragile Art of Existence, iniziato prima e completato in piena consapevolezza della malattia; è, a mia memoria, la prima opera di un morente nella storia del metal. Le precedenti morti celebri – Randy Rhoads, Cliff Burton – si erano consumate nell’arco di pochi secondi, per fatalità, sfiga ed errore umano, quando la maggior parte di noi ancora doveva nascere; qui è diverso: avevamo gli anni e anche troppo tempo per capire che qualcosa di terribile stava accadendo, comunque non abbastanza per arrivare preparati.

The Fragile Art of Existence è un disco importante, perfino formativo, perché mette di fronte all’ineluttabilità della fine in un’età in cui la morte è ancora un concetto vago, perlopiù astratto; è però anche un ascolto sgradevole, estenuante, frustrante, che poco o nulla lascia a parte la fatica negli innumerevoli tentativi di farselo piacere, perché testimonia l’agonia dell’autore e in quanto tale non potrà essere meno di un capolavoro. Non è così: i pezzi, inutilmente ingarbugliati, cervellotici e prolissi oltre ogni soglia di umana sopportazione, punteggiati da interminabili assoli orrendi, non portano da nessuna parte; al posto di Ronnie James Dio, alla voce c’è un clone di Warrel Dane ancora più grottesco dell’originale (come se non bastasse e avanzasse quello che già c’era), le linee vocali diventano così i vaneggiamenti di un attore di avanspettacolo completamente sbronzo; manco mezzo riff che rimanga nella memoria; una maratona di angoscia per le sorti dell’autore che non trova la necessaria catarsi nel corrispettivo musicale, affondando già dal primo pezzo nella melma della noia nera.

I testi sono grida d’aiuto che soltanto infermieri e psicoterapeuti (forse, mah) avrebbero gli strumenti cognitivi per maneggiare, il terrore della fine che si avverte vicina offusca la lucidità necessaria per saper dire l’orrore di quanto ognuno sia solo di fronte alla morte, rimarcando semmai l’abisso che separa il vivere dal descrivere. Globalmente il testamento di un uomo malato, un indigeribile casino inevitabilmente influenzato dal corso degli eventi, uno spettacolo agghiacciante dal quale era impossibile distogliere lo sguardo; certo non la migliore testimonianza del talento di Chuck Schuldiner, compositore prima geniale, poi via via sempre più involuto. Passata l’isteria, elaborato il lutto, il tempo ha riaggiustato gli equilibri come sempre; da un punto di vista personale, ai dischi da Scream Bloody Gore a Human torno regolarmente, fino a Symbolic a dipendere dall’umore, a The Sound of Perseverance e The Fragile Art of Existence mai. (Matteo Cortesi)

Fonte

Pezzo scritto bene, libero dai toni sistematicamente agiografici con cui Schuldiner e i suoi lavori sono descritti da praticamente un ventennio.
Il disco in questione tuttavia lo ricordo poco, quanto meno non a sufficienza per concordare con l'autore che sia una porcata quasi fatta e finita.

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