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21/11/2019

Sardine, what else?


Le piazze riempite in varie città dalle “sardine” hanno come al solito innescato dibattiti e polarizzazioni di punti di vista che meritano di essere discussi e, in qualche modo, messi a valore.

Una volta gettate nelle pattumiera le contumelie e il trash con cui la destra replica alle manifestazioni, proviamo ad avanzare qualche osservazione in materia.

La prima domanda è questa: la paura immobilizza o mobilita?

Indubbiamente, le piazze riempite dalle “sardine” nascono dalla paura che la Lega vinca o stravinca anche in regioni e città dove la destra non aveva mai governato, e che usi queste vittorie elettorali come una clava per insediarsi stabilmente alla guida del governo nazionale.

È una paura palpabile ovunque, in qualche misura anche superiore agli psicodrammi vissuti quando le elezioni le vinceva Berlusconi. Anche in quel caso la risposta fu affidata a movimenti simili, i cosiddetti “girotondi”.

Ovvio, ma non inutile, rammentare che quei movimenti di resistenza civile hanno poi prodotto “mostri” come i governi di centro-sinistra o, peggio ancora, il governo di Monti e Fornero.

In buona sostanza si opponevano al “buio” producendo però il tramonto delle conquiste e dei diritti sociali, in nome della “modernizzazione”, dei conti in ordine nella trimestrale di cassa o del “ce lo chiede l’Europa”.

In questi giorni la paura, piuttosto che immobilizzare, sta producendo come allora mobilitazione nelle piazze. Chi teme la destra al governo ci si riconosce, ci si ritrova, si rassicura reciprocamente incontrandosi tra simili. Anche perché spesso, qualche decina di metri più in là delle piazze riempite, nei bar o alle fermate dell’autobus, tra “l’altra gente”, si sentono invece discorsi diversi, inquietanti, rabbiosi e inascoltabili.

Ma se la paura, invece di immobilizzare, innesca una mobilitazione, il dato non può essere liquidato con qualche battuta.

La seconda domanda è questa: quale natura, obiettivi e “testa” hanno le mobilitazione che in questi anni riempiono le piazze?

Si tratta dei giovani studenti di Friday For Future, delle donne di Non Una di Meno ed ora delle “Sardine”. C’è altro? Al momento non si vede, se non – con numeri assai inferiori – su questioni politiche più specifiche, vere e urgenti come il pane, ma acquisite da settori ancora minoritari: la lotta contro i Decreti Sicurezza, la solidarietà con i curdi (mentre latita quella verso i palestinesi o con i popoli in rivolta in America Latina) e poco altro.

Anche qui non è inutile rammentare che i movimenti ecologisti, femministi e pacifisti/antirazzisti erano i riferimenti dell’ipotesi socialdemocratica – o liberaldemocratica – per il cambiamento e la modernizzazione dei sistemi politico/economici, compatibilizzando quei problemi con il sistema economico vigente.

Sono quindi spesso movimenti mobilitati su questioni vere, ma che in qualche misura “devono” tenere alla larga la contraddizione di classe.

Lo erano negli anni '80, per molti versi lo sono tuttora.

Questa visione dei movimenti che possono portare al cambiamento nasce appunto negli anni ‘80 del XX secolo, quando esistevano margini di spesa per la redistribuzione e il compromesso sociale europeo.

Alla fine del secondo decennio del XXI secolo questi margini non esistono più. Al contrario, c’è una polarizzazione sociale spesso brutale, che ha visto peggiorare le condizioni di vita e le aspettative generali di milioni di persone, anche tra quei ceti medi oggi impoveriti, ma che in passato assicuravano il consenso all’ipotesi social- e liberal-democratica.

Inutile dire che tra i settori popolari il livello di recriminazione, rabbia e frustrazione sociale è ancora più profondo, e molto incattivito, perché il peggioramento è arrivato anche dalle forze che ne avevano a lungo sostenuto gli interessi materiali.

Sarebbe ingeneroso però liquidare così questioni – come ecologia, femminismo, antirazzismo, pacifismo – che invece la contraddizione di classe ce l’hanno dentro, ed anche in modo contundente. Il problema semmai è come portarla allo scoperto e farla diventare coscienza diffusa. Sbaglia stupidamente chi liquida questi movimenti, sbaglia in buona fede chi pensa che la contraddizione di classe sia fattore di coscienza prevalente dentro questi movimenti, affidandogli un valore che non possono avere.

Ma proprio perché i margini redistributivi e la dimensione democratico/rappresentativa oggi sono scomparsi, o si sono assottigliati in modo impressionante, questi movimenti non hanno più a disposizione una sintesi politica. Ragion per cui si autonomizzano e si incrociano tra loro, spesso mobilitando le stesse figure sociali e finanche le stesse persone, ma senza individuare un disegno complessivo che dia la fisionomia necessaria per diventare soggetto di cambiamento.

L’esperienza delle “Sardine” sta dentro questa contraddizione. È evidente come al momento la sola sintesi politica sia la paura di Salvini e la discutibilissima “barriera” rappresentata dal Pd. I quattro ideatori delle Sardine nascono nel vivaio piddino, probabilmente quello più estraneo al fetore “renziano”. Ma sono questo, non altro.

E qui veniamo alla terza ed ultima domanda: i militanti dei movimenti antagonisti, i comunisti con o senza icone, gli attivisti sociali e antifascisti più coerenti, in queste piazze mobilitate dalla paura devono starci dentro o denunciarne le contraddizioni, la pelosità dell’egemonia, la strumentalità elettorale filo Pd?

È da mesi che ci si dibatte in queste discussioni, spesso in modo lacerante.

Per i lettori più grandi – o con maggiore memoria storica – l’esempio più calzante resta ancora quello del Pope Gapon, quel prete messosi alla testa delle manifestazioni popolari in Russia che pretendevano di risvegliare la magnanimità dello Zar – ma da cui furono ripagate a fucilate e sciabolate dei cosacchi. Lì dentro agiva però anche una minoranza rivoluzionaria. Magari “non in prima linea, ma un po’ dietro”, come suggeriva Lenin.

È vero la paura può immobilizzare o mobilitare. La destra usa e strumentalizza entrambe le possibilità. La “sinistra di governo” cerca di fare altrettanto.

I “rivoluzionari” nel XXI Secolo che ruolo scelgono di giocare? Se hanno un minimo di strategia, solidi argomenti e la necessaria duttilità, possono provare a riempire tutti gli spazi offerti dalla “gente che si muove”.

Se “il poco può diventare molto e un vantaggio moltiplicarsi per dieci”, non abbiamo molti dubbi su cosa dire e cosa fare. Oltre le sardine c’è molto altro.

Fonte

Il ragionamento fila liscio fino alla seconda risposta, poi diventa strumentale, perchè all'analisi manca un quesito: qual è la composizione di classe di queste mobilitazioni?
Possiamo sostenere con ragionevole certezza che, tra le sardine pigiate in piazza, siano presenti consistenti pezzi di classe, tanto da scomodare le rivolte popolari nella Russia zarista?
Il dubbio è lecito porselo soprattutto quando si sottolinea la dicotomia derivante dal mobilitarsi "educato" delle sardine rispetto ai discorsi "inascoltabili" che si captano al bar o alla fermata del bus.
Andrebbe dunque considerato il rischio concreto di pescare nell'acquario delle madamin di turno, per altro con un strumenti sempre meno all'altezza dei tempi.

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