di Geraldina Colotti
Il colpo di stato in Bolivia mobilita e fa discutere. Come mai si è
verificato proprio nel paese latinoamericano più lodato per la sua
stabilità economica e per la crescita del Pil? E perché ha potuto
spiazzare e obbligare all’esilio un presidente di provata esperienza
sindacale e un vicepresidente le cui analisi hanno ottenuto
l’ammirazione dei marxisti latinoamericani e non solo? Che fase sta
attraversando l’America Latina? Che riflessioni possiamo trarne?
A trent’anni dal processo di “balcanizzazione”, seguito al terremoto
dell’89, possiamo guardare all’America Latina come a un brulicante
laboratorio di resistenza e sperimentazione, di offensiva e
controffensiva, che si proietta oltre il continente, configurando i
termini della lotta di classe per come si presenta nel quadro globale.
L’America Latina appare oggi come una grande trincea, una sorta di linea
rossa, variamente modulata, che si è opposta al dilagare del pensiero
unico imposto dal gendarme nordamericano e dai suoi cantori, fin dagli
anni immediatamente successivi la caduta del campo socialista.
Due, in estrema sintesi, i poli di resistenza emersi con forza nei
primi anni Novanta e che hanno innescato conseguenze diverse, sia sul
piano politico, sia su quello simbolico, nel continente latinoamericano e
non solo. Due punti di frattura. Il primo, la ribellione
civico-militare guidata da Hugo Chavez, ha avuto luogo in Venezuela il 4
febbraio del 1992 e poi il 27 novembre dello stesso anno. Il secondo si
è verificato due anni dopo in Chiapas, uno stato del Messico
meridionale che confina con il Guatemala e che per essere stato teatro
di una rivolta indigena ha fatto a suo modo storia.
La rivolta degli zapatisti è stata considerata, anche dalle nostre
parti, “il primo grido” contro il neoliberismo dilagante allora in
Messico, e ha influito sull’immaginario dei nuovi movimenti. La
ribellione di Chavez ha messo in moto la grande riscossa delle classi
popolari contro il sistema di alternanza tra centro-destra e
centro-sinistra seguito al patto di Punto Fijo. Si è caratterizzata come
il punto più avanzato della lotta per il potere politico in un paese
governato da una democrazia borghese per tutto il periodo durante il
quale imperversavano le dittature del Cono Sur. Una “democrazia”, messa a
nudo da anni di guerriglia, che ha tuttavia avuto il triste primato di
inaugurare la figura del “desaparecido” prima delle dittature del Cono
Sur.
Fuori dal continente, le due ribellioni civico-militari del ’92 in
Venezuela vennero però presentate come il solito putch latinoamericano
sconfitto dalla democrazia. E anche nel continente latinoamericano, dove
i militari erano ovviamente visti come oppressori e non come
liberatori, la figura di Chavez, benché cresciuta nel solco di Fidel
Castro e della rivoluzione cubana, non venne inquadrata subito nella
giusta angolatura.
Per quanto riguarda l’Italia, in quegli anni – anni di picconamento
sistematico a tutti i paradigmi del comunismo novecentesco – si andava
imponendo la cultura del post-tutto, sempre più distante dalla ricerca
di soluzioni generali intorno all’inaggirabile questione della presa del
potere. Fatte salve alcune lodevoli manifestazioni di resistenza,
prendeva da allora piede un sentimento sempre più diffuso
dell’impossibilità di un’uscita dal capitalismo, e persino di un’ipotesi
riformista, nella progressiva scomparsa della cultura del movimento
operaio su cui quell’ipotesi si era appoggiata.
Negli anni in cui la figura del militante si diluiva nel volontario,
nell’operatore delle ong e, in fin dei conti, nel “pompiere” del
conflitto di classe votato al “piccolo è bello”, i paesi in cui
sopravvivevano le “grandi narrazioni” non erano di alcuno stimolo. Più
consoni all’”esodo”, al “sottrarsi”, al “cambiare il mondo senza
prendere il potere” (ma all’occorrenza conquistando qualche seggio nelle
circoscrizioni), apparivano paesi come il Messico, naturalmente il
Chiapas (i curdi, allora, erano considerati “terroristi”), e
rivendicazioni ritenute “simpatiche” come le manifestazioni dei popoli
indigeni e poi quelle contro la privatizzazione dell’acqua e del gas in
Bolivia.
Il tutto scodellato in salsa “trasversale” (cortei pacifisti con le
magliette del Che Guevara, occultamento della contraddizione
capitale-lavoro, scomparsa dell’antimperialismo come rivendicazione di
piazza, elogio del tradimento e dell’emergenza...), anomica (il Novecento
come peso e piombo da cui liberarsi), pronta al superamento della
“coppia amico-nemico” (“i ragazzi di Salò”, “destra e sinistra, stessa
cosa” eccetera eccetera).
Quanto più avanzavano la dismissione dello Stato dalle politiche
pubbliche e il cosiddetto Terzo Settore assumeva una funzione di
supplenza nei paesi capitalisti, anche nel sud globale diventava
pervasiva la filosofia del “capitalismo filantropico” portata avanti da
un esercito di fondazioni e organizzazioni “non governative” di matrice
occidentale. Una pletora di vere e proprie cinghie di trasmissione e
sacche di burocrazie amministrative (si veda la situazione di Haiti) di
una filosofia votata alla conservazione del mondo diviso in classi, a
frammentare le società per impedire la formazione di movimenti uniti nel
conflitto da obiettivi comuni.
Quello dell’”umanitarismo” è oggi un enorme business calcolato in
circa 150 miliardi di dollari l’anno. In America Latina – uno dei
continenti con il maggior tasso di disuguaglianza al mondo – ong e
fondazioni sono circa un milione. Le grandi multinazionali
dell’umanitarismo influenzano, in modo diretto o indiretto, le politiche
e l’opinione pubblica. Alcune fondazioni, i cui bilanci superano quello
di molti paesi messi insieme, disegnano la politica nazionale e
internazionale fuori dal controllo democratico.
Lo si è visto in Brasile, paese dove il numero di queste fondazioni
pilotate dalla Cia è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi dieci
anni. Lo si vede nell’influenza che hanno certi rapporti annuali (di
Amnesty International, di Human Right Watch e consimili) nelle sanzioni
decise dagli USA contro i paesi che non si inginocchiano ai suoi voleri.
Lo si vede anche nella situazione attuale nei vari paesi dell’America
Latina. Come ai tempi dell’Unione Sovietica, la retorica sui “diritti
umani” vale a senso unico: lancia strali solo contro quei paesi che non
si muovono nell’orbita di Washington, mentre volge lo sguardo altrove
quando repressione e torture si perpetrano in paesi come Cile, Colombia,
Honduras, o quando si verificano colpi di Stato, classici o di nuovo
tipo.
Nel 2009, in Honduras, ha fatto la sua comparsa il golpe blando o
golpe istituzionale. Il presidente legittimo, Manuel Zelaya, un liberale
che aveva manifestato l’intenzione di indire un referendum per aderire
all’Alba, venne impacchettato ancora in pigiama e deportato all’estero.
La stessa forma eversiva venne ripetuta poi tre anni dopo contro
Fernando Lugo, disarcionato dal suo vice Francisco Franco che gli fece
mancare il quorum. E ha assunto l’aspetto di golpe giudiziario in
Brasile nel 2016, inaugurando la stagione dei magistrati-Torquemada
contro presidenti e governi sgraditi a Washington.
Il passaggio successivo si presenta nella forma
dell’autoproclamazione di “presidenti a interim” non votati dalle urne
ma unti dal Pentagono, e di istituzioni artificiali che li riconoscono e
che mirano a disattivare nei fatti le istituzioni internazionali frutti
di regole e accordi previ. La crisi strutturale del capitalismo, la
profonda crisi di egemonia dell’imperialismo nordamericano che il
complesso militare-industriale cerca come sempre di volgere a proprio
vantaggio, connotano la guerra ibrida scatenata nel continente
latinoamericano a vari livelli di intensità.
Alcuni paesi traboccanti di risorse strategiche, come il Venezuela, o
considerati strategici nello scacchiere internazionale, come il
Nicaragua, si trovano al centro di uno scontro per la ridefinizione di
nuovi assetti geopolitici di campi contrapposti: da un lato
l’imperialismo USA e i suoi satelliti, dall’altro gli attori di un mondo
multicentrico e multipolare, che orientano in modo diverso i propri
interessi internazionali.
Contro Cuba, contro il Nicaragua, erede dall’ultima rivoluzione del
secolo scorso, si rinnova l’ossessione degli USA per il “pericolo
rosso”, attivata anche contro quei governi che si richiamano al
Socialismo del XXI secolo, variamente declinato. Un’ossessione
dichiarata con l’arrivo di Trump, che ha riesumato personaggi che
quell’ossessione l’hanno praticata nell’America Latina del secolo
scorso, o che hanno agito per la balcanizzazione del mondo dopo la
caduta dell’Unione Sovietica.
L’America Latina risulta un interessante laboratorio per comprendere
sia le tecniche di repressione del conflitto che l’imperialismo utilizza
a livello mondiale, sia le nuove modalità di quella che una volta
avremmo chiamato “controrivoluzione preventiva”. Una guerra ibrida che
combina gli schemi “classici” con i nuovi meccanismi dispiegati a
livello planetario nella gigantesca guerra contro i poveri della società
disciplinare.
La globalizzazione capitalista, com’è noto, si è strutturata e si
struttura nella profonda trasformazione produttiva delle economie
nazionali, subordinate ai circuiti multinazionali. Le grandi
corporazioni internazionali centralizzano la produzione e generano in
diversi punti del mondo i singoli componenti di un prodotto finale, per
minimizzare i costi di produzione. Di conseguenza, circolano nel mondo
prodotti in via di definizione, trasferiti da un’impresa all’altra fino
alla loro elaborazione finale in un determinato paese.
Queste imprese, però, sono semplici filiali delle grandi
corporazioni. Quelle che avvengono non sono transazioni tra acquirenti e
venditori con interessi distinti, ma operazioni di una grande catena
produttiva i cui prezzi sono amministrati dalla grande corporation per
ottenere il massimo del profitto. Le strategie economiche degli Stati
nazionali che non si attengano ai dettami del Fondo Monetario
Internazionale – l’organismo sovranazionale che amministra le politiche
per conto del capitale subordinando l’indipendenza nazionale degli Stati
– risultano perciò sgradite.
L’imposizione di piani di aggiustamento strutturale, permettono
all’FMI di sostituirsi agli Stati sovrani, elaborare politiche fiscali,
monetarie e finanziarie, politiche sociali e anche salariali, e
politiche ambientali. Gli Stati come il Venezuela, che lottano per la
propria indipendenza come parte di un progetto più generale di
trasformazione, diventano allora un “cattivo esempio” da evitare. E da
sanzionare con un nuovo “plan Condor” economico-finanziario, basato sui
meccanismi della globalizzazione capitalista.
Uno dei motivi dell’isolamento del Venezuela da quelle aree di
movimento che, in Italia, dovrebbero essere più attente agli avanzati
esperimenti di potere popolare, di autogestione – di “autonomia di
classe”, si potrebbe dire – esistenti nella Repubblica bolivariana,
poggia sicuramente nella teoria secondo la quale, in un sistema-mondo in
cui il potere diventa sovranazionale e le frontiere “inesistenti”, la
lotta per l’indipendenza nazionale è questione da dinosauri.
Per anni – scrive Julio Escalona, ex guerrigliero comunista venezuelano, nel suo libro Geopolitica de la liberación
– “dappertutto, il mondo accademico, compreso naturalmente quello
venezuelano, si è riempito di ‘teorici’ tanto tronfi di pedanteria
quanto genuflessi, che con un forte appoggio mediatico hanno cominciato a
scrivere contro la sovranità e le frontiere nazionali. Abilmente hanno
presentato il loro discorso come novità e, con l’appoggio
internazionale, hanno definito antiquati i difensori della sovranità,
delle identità regionali e nazionali, dei valori solidali, eccetera”.
Contemporaneamente, dice ancora Escalona, i media di propaganda, le
scuole e i centri educativi in generale, gli eserciti, le polizie, gli
organismi della sicurezza e di intelligence, alcune chiese, la
cosiddetta industria culturale, movimenti e gruppi di opinione, le
diverse mode, la cosiddetta pubblicità commerciale, esaltavano per farne
mercato ogni tipo di diversità culturale, etnica, politica, eccetera,
mentre si dedicavano a distruggere popoli, culture ed ecosistemi.
Sappiamo che, anche in Italia, la critica alle “grandi narrazioni”
novecentesche ha confinato lotte settoriali legittime e anche radicali,
al contesto locale, e che alcune suggestioni provenienti dall’America
Latina negli anni dei movimenti “altermondialisti”, come quella del
“bilancio partecipato” hanno prodotto lo stesso effetto. Al contrario,
inserito in un concetto di trasformazione generale della società e dei
rapporti di produzione, il concetto di democrazia partecipativa (che
implica il bilancio partecipato), profondamente declinato nella
Costituzione bolivariana, porta una critica profonda ai meccanismi della
democrazia borghese, che appare in crisi conclamata in tutti i paesi
capitalisti, dove i popoli votano, ma non decidono.
Fuori da una visione d’insieme capace di articolare il particolare e
l’universale, anche concetti benintenzionati e “basisti” servono la
logica ipocrita del capitalismo filantropico, che parla di pace ma
prepara la guerra, militarizza le relazioni internazionali, fa carta
straccia di quei diritti che proclama di difendere, impone insomma una
evidente tendenza totalitaria e disciplinare che chiude il conflitto nel
recinto delle compatibilità capitaliste.
“La sovranità – scrive il poeta Escalona – non è un semplice attributo
dei popoli e delle nazioni. È una caratteristica della natura, della
vita tutta, delle piante, degli animali, di ogni essere umano. Un
albero, qualunque esso sia, è sovrano, racchiude in sé un ecosistema,
però solo può crescere come albero in una relazione complementare, di
interdipendenza, di cooperazione, con i passeri, con la terra, con la
pioggia, con il vento, con tutte le energie dell’universo. Questo può
accadere perché l’albero esiste come tale”.
In termini tutt’altro che poetici ma espliciti, il rapporto del
Comando Sur illustra le azioni contro i popoli che hanno deciso di
essere sovrani. S’intitola “guerra totale in tempo di globalizzazione”.
Mostra come siano cambiate le strategie belliche degli USA e il suo
sistema di difesa dopo la guerra in Afghanistan. Si definiscono tre
livelli di conflitto che implicano azioni di guerra convenzionale e non
convenzionale.
Queste possono essere imposte da uno stato contro un altro oppure in
forma indiretta, mediante organizzazioni criminali, bande paramilitari
che contendono il territorio al potere popolare e al governo socialista.
In questo modo, lo impegnano in un conflitto che, nell’intento di
difendere la sicurezza dei settori popolari, lo porta a concentrarsi
sulla sicurezza, alienandosi così le simpatie di quella parte di
popolazione proveniente dai settori più emarginati e dei movimenti
libertari.
Non è, questa, una questione da poco, considerando che il blocco
sociale riunito dal socialismo bolivariano, oltre agli operai, ai
contadini, agli studenti, comprende anche quegli ultimi della catena,
quei “dannati della terra” considerati nella IV Repubblica come gli
scarti della società opulenta. Una massa fluttuante a cui cerca di
attingere l’estrema destra, comprandone i corpi e le coscienze, quando
il passaggio alla consapevolezza, all’impegno politico e
all’organizzazione non si è ancora realizzato. Lo si è visto durante le
violenze contro il governo – le guarimbas.
Un’azione resa più facile dalle conseguenze di una guerra economica
che, in questi vent’anni dalla vittoria elettorale di Chavez, e in
particolar modo con il governo di Nicolas Maduro, ha cercato con ogni
mezzo di strangolare l’economia venezuelana per obbligare il popolo a
rovesciare il governo. Il primo livello di conflitto illustrato dal
Comando Sur, oltre all’impiego di “attori non statali” nella
preparazione del colpo di Stato, contiene infatti altre due principali
forme di attacco: la destabilizzazione economica e l’attacco alla
moneta.
Il Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) sta usando il
rapporto del Comando Sur come materia di analisi e di formazione,
diffusa nei Bollettini del partito insieme alle linee organizzative
discusse in centinaia di assemblee e confermate dai diversi congressi
internazionali che si sono svolti a partire dal Foro di Sao Paolo.
Documenti in cui si mettono a fuoco i punti di forza e di debolezza
del processo bolivariano, che oppone la democrazia “partecipata e
protagonista” al mito “dell’alternanza” che guida la democrazia
borghese. In assenza della dittatura del proletariato, ovvero della
messa fuori legge della borghesia, questo implica un certo livello di
lotta di classe – e anche di forzature – all’interno delle istituzioni:
condotto sì in punta di diritto, ma soprattutto in forza delle necessità
e della volontà popolare.
Battaglie che, non a caso, hanno fatto arricciare il naso e la
tastiera a tanti democratici procedurali di casa nostra, pronti a
feticizzare i meccanismi della democrazia borghese, ma a non muovere un
dito e tantomeno una piazza quando l’imperialismo si mette quelle regole
sotto i piedi, forzando a proprio vantaggio il quadro istituzionale.
La “moda” delle autoproclamazioni, la costruzione di governi
paralleli “di fatto” per distorcere le costituzioni e l’ordine giuridico
interno, fanno parte della guerra multifattoriale dell’imperialismo. La
costruzione di organismi artificiali privi di legittimità
internazionale serve a saccheggiare le risorse dei paesi non subalterni
con la complicità delle banche europee. Mira a fare dell’anarchia del
capitalismo un dato acquisito e digerito, debitamente preparato dalla
propaganda dei media e dalle grandi agenzie dell’umanitarismo.
L’atteggiamento di Luis Almagro come segretario generale
dell’Organizzazione degli Stati Americani, e anche quello di Michelle
Bachelet come Alta Commissaria ONU per diritti umani contro il
Venezuela, e la loro passività di fronte alla repressione in Cile, ad
Haiti, al golpe in Bolivia e ai sistematici massacri in Colombia,
mostrano peraltro l’inconsistenza di quelli che dovrebbero essere i
contrappesi delle istituzioni “ufficiali”.
La situazione dovrebbe inquietare tanti “sinceri democratici”
europei, che invece si affannano ad appoggiare gli USA nel loro Far West
di sanzioni, ricatti e regole occulte che violano tutti – ma proprio
tutti – i diritti umani che pretendono di imporre con le bombe o con la
fame.
Per i rivoluzionari, per chi non si rassegna a vivere nel recinto,
dovrebbe valere ancora la famosa affermazione di Mao: “Grande è il
disordine sotto il cielo, la situazione dunque è eccellente”. Guardare
all’America Latina, guardare a quel che accade in Venezuela, a quel che è
accaduto in Brasile e in Bolivia, serve a rimettere in moto la memoria
della lotta di classe e delle rivoluzioni.
Prima del golpe in Bolivia, agli economisti venezuelani veniva
chiesto spesso perché nel loro paese ci fosse una inflazione stellare e
un arresto della crescita, mentre la Bolivia sembrava un piccolo
gioiello economico, lodato anche nei paesi capitalisti benché retto dal
“socialismo andino”. Si dimenticava che, nel conto generale del
continente, il Pil della Bolivia e anche il suo ruolo geopolitico erano
poca cosa. E adesso, tutti si fiondano sulle ceneri della democrazia
boliviana come avvoltoi sul cadavere.
Perché Evo Morales è improvvisamente passato dall’immagine benevola
di “primo presidente indio” a quella di dittatore avvezzo alle frodi? Di
sicuro, questo cambio di immagine è stato preparato bene:
dall’oligarchia boliviana, appoggiata dall’imperialismo nordamericano e
dai centri del potere finanziario. Con la complicità dell’Osa, il
“ministero delle colonie” presieduto da Almagro, il governo Trump vuole
mettere la mano sulle risorse della Bolivia – gas e litio in primis – e d
esportare il “modello” a tutta la regione: per picconare pezzo per pezzo
l’integrazione latinoamericana e impedire che il socialismo torni a
essere una speranza concreta per il Latinoamerica, e per il pianeta.
Washington ci ha lavorato fin da subito, in base alla strategia della
“guerra globale in tempi di globalizzazione”, che prevede il ruolo dei
grandi media nella sistematica demolizione dell’immagine dei governanti
non graditi. L’ultimo discorso pronunciato da Morales all’ONU contro
Trump dev’essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso del
Pentagono.
Il golpe in Bolivia può però anche essere letto come una strategia di
distrazione e un forte avvertimento a un continente che vede due grandi
paesi come il Messico e l’Argentina affidarsi nuovamente a governi
progressisti, e un generale risveglio della lotta di classe in altre
roccaforti dell’imperialismo come il Cile e la Colombia.
Di sicuro, l’attacco del nemico agisce sui punti deboli della lotta
di classe, facendo deflagrare contraddizioni e divisioni. In Bolivia, è
evidentemente mancata la forza cosciente e organizzata di un partito,
non solo non si è costruita quella unione civico-militare, architrave
della rivoluzione bolivariana, ma nemmeno è evidentemente stata pensata
quella strategia di “difesa integrale” che, in Venezuela, fa parte del
corredo di ogni militante.
Ovviamente, ogni contesto ha la sua storia e – come dicono i
venezuelani – una rivoluzione non è “né calco né copia”. Le cose, poi,
si complicano ulteriormente quando si tratti di definire come
“rivoluzioni” quei processi progressisti seguiti alla vittoria di Chavez
in America Latina che non hanno messo in causa profondamente i rapporti
di produzione.
Tuttavia, pur senza voler pontificare dietro una tastiera, dal
golpe contro Allende in Cile a quello contro Chavez nel 2002, dal golpe
giudiziario in Brasile al tradimento di Moreno in Ecuador, si sarebbero
potute trarre alcune lezioni. Una delle più evidenti ingenuità di Evo
Morales è sicuramente stata quella di mettere la volpe a guardia del
pollaio, invitando “il ministero delle colonie” come garante del
processo elettorale.
Ma forse, proprio la fragilità dimostrata dall’Ecuador, e per altri
versi anche dalla Bolivia, mostrano l’inadeguatezza delle alleanze che
hanno dato la vittoria ai governi progressisti, e la necessità di
assumere un più alto livello dello scontro qualora si intenda portare
più a fondo la trasformazione strutturale del modello produttivo.
Il MAS, la formazione che appoggia Morales, non ha evidentemente le
caratteristiche del PSUV, un partito di massa e di quadri che confida
sull’attivazione permanente del potere popolare, del potere costituente.
Per commentare il rapporto del Comando Sur, il Bollettino N. 150 del
PSUV si serve delle analisi di Ho Chi Min, ricalibrandole al contesto di
una “rivoluzione pacifica, ma armata” come Chavez ha definito il
processo bolivariano. “Se l’imperialismo USA ci attacca – dice spesso
Maduro – il Venezuela si trasformerà per loro in un nuovo Vietnam”. Come
dire: il “socialismo del XXI secolo” ha ancora da imparare dal grande
Novecento. Vale anche dalle nostre parti.
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