di Michele Giorgio – Il Manifesto
Mercoledì Benyamin Netanyahu, dopo aver appreso della sua incriminazione per corruzione, frode e abuso d’ufficio, aveva
sparato a zero su magistratura e polizia, denunciato il «complotto»
dei media e della sinistra e persino alluso a un «golpe». Ieri ha fatto retromarcia, in parte,
per attenuare l’attacco senza precedenti rivolto da un premier alle
istituzioni israeliane. «Tutto questo processo sarà alla fine deciso in
tribunale. Accetteremo la decisione e su questo non c’è dubbio. Abbiamo
sempre agito, dall’inizio alla fine, in accordo con la legge», ha
scritto su Facebook. Quindi ha indicato la direzione agli israeliani: le
elezioni, le terze in un anno. «In definitiva chi deciderà chi sarà il
primo ministro siete voi cittadini... Abbiamo davanti a noi opportunità
storiche come l’annessione (a Israele) della Valle del Giordano, il
rafforzamento della nostra sicurezza, la costruzione di alleanze con i
nostri vicini e molte altre cose da non perdere», ha proclamato come se
fosse già in campagna elettorale.
Netanyahu non si dimette – la legge glielo impone solo se colpevole al terzo grado di giudizio – e punta a tenere duro fino al nuovo voto, praticamente certo.
Nessuno crede che un membro della Knesset sia in grado, entro l’11
dicembre, di formare la maggioranza di governo mancata prima da
Netanyahu e poi dal suo avversario Benny Gantz, leader del partito
centrista Blu Bianco. E non è detto che Netanyahu non riesca nel frattempo ad ottenere l’immunità dal parlamento.
Inoltre se vincerà le votazioni, presentandosi agli elettori come
«martire», e riuscirà a formare un governo, avrà ancora più forza per
affrontare un processo che durerà due forse tre anni.
Dovrà però combattere battaglie all’ultimo sangue con i suoi avversari politici.
Gantz e il suo partito ieri hanno chiesto formalmente le sue dimissioni
da tutti gli incarichi ministeriali che detiene. E tutti i partiti
del centrosinistra insistono affinché lasci subito la poltrona di primo
ministro. Si prevede inoltre che ong e associazioni, oltre ai partiti di
opposizione, chiederanno alla Corte Suprema di imporre le dimissioni al
primo premier in carica incriminato in via definitiva.
Le insidie maggiori per Netanyahu tuttavia potrebbero
arrivare proprio dal suo partito, il Likud, e dal blocco delle destre
che guida da dieci anni. Dopo l’annuncio dell’incriminazione,
quasi tutti i dirigenti e ministri del Likud si sono affannati a
proclamare l’innocenza di Netanyahu e a mostrarsi vicini al loro capo. E
altrettanto hanno fatto un po’ tutti i leader degli altri partiti di
destra. Questo atto di fedeltà non può nascondere le fibrillazioni
interne. Il rivale più accanito di Netanyahu nel Likud, Gideon Saar, che due giorni fa aveva chiesto le primarie prima del voto, ieri ha apertamente sfidato il capo del partito assicurando di essere in grado di assemblare una coalizione di governo.
Un altro pezzo da novanta, il ministro degli esteri Israel Katz, è
rimasto per diverse ore in silenzio prima di esprimere solidarietà al
premier incriminato.
«Sono convinto che Netanyahu debba guardarsi da possibili
colpi bassi dei suoi compagni di partito più che dalle iniziative
politiche e legali che avvierà il centrosinistra», ci diceva ieri
l’analista Eytan Gilboa, del Centro Besa di Tel Aviv, «il primo
ministro farà il possibile per tenere compatto il Likud e il blocco
delle destre ma non è detto che ci riesca. In questa situazione una
piccola fessura può trasformarsi in una lacerazione ampia».
Secondo
Gilboa alcuni dirigenti e quadri del Likud «stanno alla finestra
cercando di capire cosa accadrà nelle prossime settimane.
Conosco personalmente diversi membri (del Likud) favorevoli all’uscita
di scena di Netanyahu ma non possono dirlo perché sarebbero accusati di
tradimento dai fedelissimi del premier. Ma in politica, si sa, tutto può
cambiare in un momento».
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento