In una delle ultime interviste rilasciate prima della elezioni del 10 novembre, Mireia Vehí aveva dichiarato che “hanno fatto più due settimane di mobilitazione che due anni di governo”. E invece di chiedere il voto agli elettori, invitava tutti a partecipare alle proteste: “la piazza è l’unica via praticabile. Quello che ora serve più di tutto è stare in piazza e proseguire con la strategia di disobbedienza civile di massa. Questo sì che è utile”.
Una convinzione che si è diffusa in gran parte del movimento indipendentista, impegnato in queste ore in una delle operazioni più ambiziose dispiegate finora: la chiusura dei più importanti collegamenti stradali tra la Spagna e la Francia.
Lunedì mattina è cominciato il blocco stradale sull’autostrada Ap7, appena al di là della frontiera, nel territorio sotto amministrazione francese che conserva profondi legami storici, culturali e linguistici con Catalunya.
La gendarmeria, sorpresa dall’azione dei manifestanti, ha chiuso gli accessi all’autostrada e si è schierata sul versante nord, mentre i Mossos d’Esquadra si sono incaricati del versante sud, in territorio spagnolo.
Dopo aver montato una cucina da campo nel bel mezzo della carreggiata, i manifestanti hanno cominciato ad organizzarsi per resistere alcuni giorni. La Confindustria catalana ha immediatamente chiesto lo sgombero del presidio, preoccupata per “il pregiudizio economico arrecato al tessuto imprenditoriale”, ribadendo una volta di più la propria distanza dal movimento indipendentista e dal progetto di costruzione della nuova Repubblica.
Per tutta la giornata i manifestanti sono arrivati al Pertús, preparati per passare la notte in tenda sull’autostrada, così come chiedeva l’appello di Tsunami Democratic, la piattaforma semiclandestina che ha già coordinato l’occupazione dell’aeroporto di Barcelona nello scorso ottobre.
La gendarmeria francese è rimasta a guardare fino a ieri mattina, quando ha cominciato a sgomberare il presidio ricorrendo ai manganelli e al gas irritante. Il bilancio dell’operazione è di 18 fermati, tutti rilasciati.
Solo nel primo pomeriggio di ieri, dopo trenta ore di blocco stradale, i manifestanti si sono dovuti ritirare per riversarsi di nuovo sull’autostrada Ap7, questa volta all’altezza di Girona. Qui si sono concentrate alcune migliaia di persone e sono sorte alcune rudimentali barricate.
Sorprendente l’apparizione di un vero e proprio palcoscenico sul quale sono saliti, in un concerto improvvisato nel corso della notte, alcuni artisti assai noti tra cui Txarango. Per il momento i Mossos sembrano rinviare lo sgombero al mattino.
Ma l’azione politicamente più rilevante, anche questa convocata da Tsunami Democratic, si è svolta nel tardo pomeriggio a Euskal Herria, dove centinaia di auto hanno imboccato l’autostrada con la Francia a velocità ridotta, in una marcia lenta verso la frontiera di Behobia, che ha provocato il collasso del traffico e che ha decretato per alcune ore l’isolamento della Spagna dal resto del continente.
Nel comunicato di Tsunami Democratic si legge che “il problema non è Catalunya né Euskal Herria, il problema è lo stato spagnolo, incapace di offrire una soluzione democratica al conflitto che ha generato. Una soluzione politica e democratica che passa per rispettare il diritto all’autodeterminazione dei popoli...“.
Contemporaneamente i Comitati di Difesa della Repubblica hanno bloccato un altro importante passo di frontiera con la Francia a Puigcerdà e organizzato blocchi stradali alla Meridiana, la Diagonal e la Gran Via di Barcelona.
Ingovernabili, la parola della d’ordine della CUP per la campagna elettorale appena terminata, sembra essersi tradotta in una sequela di azioni che non si sono ancora concluse e che hanno avuto un forte impatto in tutto il paese. Contemporaneamente il Parlamento catalano ha approvato ieri una mozione presentata dalla Candidatura anticapitalista e indipendentista a favore del diritto all’autodeterminazione, che ha visto il voto contrario di Catalunya en Comú – Podemos.
Una contrarietà che si spiega quando si leggono i punti fondamentali del nuovo accordo che il partito di Pablo Iglesias ha raggiunto proprio ieri con il PSOE: rispetto al tema catalano la coalizione si impegna a cercare il dialogo “sempre dentro la Costituzione”, ovvero escludendo l’esercizio del diritto all’autodeterminazione. Una convergenza con il PSOE che colloca Podemos tra le forze a sostegno del cosiddetto regime del ‘78 e che potrebbe suscitare malessere tra alcuni settori della formazione erede del movimento degli indignados.
La mozione della CUP è stata peraltro immediatamente sospesa dal Tribunale Costituzionale, che già nei giorni scorsi aveva sostenuto l’illegalità dello svolgimento di un dibattito sul diritto all’autodeterminazione.
Pur forti dell’intesa raggiunta, PSOE e Podemos non hanno però una maggioranza sufficiente a formare il nuovo governo e dovranno cercare un accordo con altre forze del Congresso. E i numeri dicono che avranno bisogno quantomeno dell’astensione di Esquerra per poter governare.
Se la CUP ha fatto del no al PSOE e al “regime del ‘78” uno dei leit motiv della propria campagna elettorale, le direzioni di ERC e Junts per Catalunya potrebbero essere tentate da una proposta di dialogo volta a avviare la seconda transizione che, nelle intenzioni dei socialisti e dei settori dell’indipendentismo più moderato, dovrebbe mettere fine al processo di trasformazione sociale e istituzionale rappresentato dalla nascita della repubblica catalana.
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