Com’è ormai chiaro, ci sono solo due alternative: chiudere definitivamente la fabbrica, rinunciando per sempre alla produzione di acciaio in Italia (ciò che è fuori di Taranto è poca roba...), oppure nazionalizzarla, riconducendo un settore strategico come questo sotto l’unica proprietà che può ragionare in termini di strategia industriale di lungo periodo: quella pubblica.
Neanche questo sarebbe sufficiente, perché la situazione ambientale di Taranto richiede obbligatoriamente una bonifica radicale e un rinnovamento tecnologico degli impianti adeguato a ridurne al minimo l’impatto inquinante futuro. Occorre insomma una quantità di investimenti assolutamente consistente, dai tempi di ammortamento biblici, e una massa di ingegneri e manager al tempo stesso preparati ed onesti. Due qualità da tempo divergenti.
Solo uno Stato nel pieno delle sue funzioni – compresa quella di poter decidere liberamente la propria politica industriale e fiscale – può smuovere le risorse indispensabili per questa ristrutturazione in corsa.
Abbiamo invece una classe dirigente fatta di incompetenti e corrotti, che si divide significativamente in due campoi: quelli che vorrebbero costringere legalmente la multinazionale ArcelorMittal a continuare a produrre e quelli che vorrebbero garantirle lo “scudo penale”, ossia l’impunità per i danni provocati all’ambiente e alla salute di lavoratori e popolazione.
Due masse di idioti senza paragoni. Con i primi che fingono di credere che una multinazionale possa essere obbligata a gestire una fabbrica (sorvolando sul fatto concretissimo che quell’impresa ha decine di altri impianti, nel mondo, e quindi può produrre altrove con margini di profitto maggiore e senza sottostare a nessun obbligo ambientale). E i secondi che confessano la propria corruzione professionale dichiarando che alle imprese – di qualsiasi dimensione e nazionalità – va lasciato fare tutto quello che vogliono. Anche annientare una popolazione.
L’editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza di sabato descrive con grande precisione sia la situazione attuale del mercato dell’acciaio, sia il ruolo devastante dell’Unione Europea (una tecnostruttura di governance, non certo “l’Europa”) sull’involuzione dell’economia continentale.
Mettendo insieme gli elementi, anche chi si muove per cambiare il mondo è obbligato a chiarirsi bene le idee su cosa vuole fare. Se si vuole insomma proporre come forza politica che vuole assumersi il compito del cambiamento reale oppure se preferisce camminare sul sentiero dei sogni.
Detto brutalmente, si cambia il mondo che c’è. Così come si comincia qualsiasi viaggio dal punto in cui ci si trova.
Per cambiare questo mondo occorre una visione generale dei problemi (economici, sociali, ambientali, ecc.) di questo paese, della sua collocazione internazionale, delle risorse (industriali e naturali, oltre che culturali), e una strumentazione adatta a perseguire gli obbiettivi che si scelgono.
Si può distribuire infatti, guardando al futuro, la ricchezza che viene prodotta. Se viene prodotta.
E per produrre ricchezza occorre un sistema industriale (non solo, ma anche). E occorre un sistema industriale ed economico disegnato per realizzare quegli obbiettivi, non il profitto di pochi.
I quali pochi, come si vede ogni giorno e in qualsiasi settore produttivo, vanno dove li porta il portafoglio, senza alcun legame con alcun luogo in particolare (la Fiat, per dirne una, ha lasciato il paese dov’è nata ed è diventata una multinazionale franco-statunitense).
Si tratti di acciaio o di molto altro di egualmente decisivo.
Per questo qualsiasi soluzione verrà data per la crisi Ilva sarà la chiave di volta che deciderà che tipo di paese verrà costruito (o distrutto) nel prossimo futuro. Una questione strategica, non di piccolo cabotaggio per gnomi politici con l’occhio ai sondaggi.
*****
È impossibile competere con bassi salari e libertà di inquinare nell’acciaio e non solo…
Guido Salerno Aletta- Milano Finanza
La questione dell’Ilva di Taranto, tornata prepotentemente alla ribalta, è l’occasione buona per costringere i tanti predicatori dell’europeismo “senza se e senza ma” a tirare finalmente fuori la testa dal secchio: per metterli di fronte alla realtà, per dimostrare come stanno tradendo tutti, ma proprio tutti, i principi che portarono alla creazione della Comunità Europea, iniziando con quella del carbone e dell’acciaio che risale al 1951. Di quei valori e di quegli strumenti non c’è più traccia.
Anche nel settore della siderurgia, altro che telecomunicazioni di quinta generazione ed intelligenza artificiale, l’Europa viene stritolata: se da una parte ci sono le pretese americane e dall’altra c’è lo strapotere produttivo cinese, l’Unione chiude gli occhi e lascia che i più deboli soccombano. Uno dopo l’altro, nel disinteresse più completo.
Gli Stati, d’altra parte, non hanno più poteri: sono stati trasferiti a Bruxelles. I governi annaspano, mentre monta il livore.
La vicenda dell’ILVA di Taranto è di cruciale importanza per l’Italia: se per un verso la sua straordinaria complessità deriva dal porsi all’intersezione di molteplici e contrastanti dinamiche internazionali, per l’altro ci obbliga ad affrontare il tema dell’insicurezza giuridica, che penalizza chiunque abbia interessi in Italia, tra il volteggiare delle normative che si susseguono senza sosta in ogni settore e la sistematica sostituzione della Magistratura ai mancati controlli ed alle omesse determinazioni della Pubblica amministrazione.
In primo luogo, però, si deve chiarire quale è il contesto concorrenziale dell’acciaio, in un assetto caratterizzato da ben quattro fattori critici: una contrazione generalizzata della domanda a fronte di un eccesso di capacità produttiva, laddove la Cina da sola ne ha installata per la metà del mondo intero; un restringimento del mercato di sbocco negli Usa, visto che l’Amministrazione Trump ha imposto, a tutela della sicurezza nazionale, un dazio generalizzato del 10% sulle importazioni, elevandolo nei confronti della Turchia per via della svalutazione della lira e minacciando di portare la tariffa al 50% dopo l’ingresso delle truppe di Ankara in Siria; una differenziazione enorme dei fattori di costo negli stabilimenti dei diversi Paesi, per via delle molteplici cautele imposte alla produzione per la tutela ambientale, la salvaguardia della salute umana e la sicurezza dei lavoratori; le fusioni industriali tra operatori europei ed indiani, come Arcelor/Mittal e TyssenKrupp/TataSteel, che non militano a favore di una decisa azione della Unione europea nella trattazione del dumping ambientale.
È una sorta di colonizzazione a parti invertite.
Siamo di fronte ad una situazione di insostenibile disparità di costi rispetto a cui i Protocolli di Kyoto e le roboanti promesse di un Green New Deal non pongono alcun rimedio concreto. Nella operatività quotidiana degli operatori multinazionali, in un contesto di eccesso di offerta, ad essere sacrificati sono gli investimenti di rinnovo degli impianti e quelli volti all’adeguamento a fini di tutela ambientale e del lavoro. Tutto ciò che è arrivato a fine ciclo va dismesso.
Abbattere i salari, anche azzerandoli, non basta. Si ferma la produzione di acciaio a Rothbury ed a Indiana Harbour negli Usa; non riprenderà più a Florange, in Francia, dove era già ferma dal 2012. A Trieste si spegne la ferriera, e così pure a Cracovia in Polonia ed a Baia Saldanha in Sudafrica. Cronache di questi giorni.
Si misura qui, ed è il punto di crisi ulteriore, la assoluta inconsistenza della politica monetaria cosiddetta espansiva, in particolare quella della Bce che ha imposto tassi negativi sui depositi bancari ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria, che sarebbe stata volta ad indurre l'erogazione di credito piuttosto che trattenere inoperosamente la liquidità e quella dei rifinanziamenti (L-tro) a tre anni.
In un periodo così breve si rimborsano a malapena i finanziamenti erogati per comprare uno smartphone.
Tutto, nell’Unione Europa, ha ormai tradito l’eredità della CECA. Tutto è stato fatto all’insegna del liberismo puro e duro: anche le quote sulle importazioni di prodotti siderurgici da taluni Paesi terzi, che pure sono state introdotte da poco più di un anno, non riescono affatto a colmare i baratri tra i costi di produzione.
La stessa Carbon Tax sui prodotti siderurgici, che pure è stata ipotizzata per penalizzare le produzioni dei Paesi che non adottano livelli restrittivi in tema di inquinamento, è appena una nuvola che appare e scompare sui cieli di Bruxelles.
I prezzi internazionali dell’acciaio, come quelli di tanti altri prodotti, non tengono conto del differenziale dei maggiori costi di produzione nei Paesi che meglio cercano di tutelare maggiormente l’ambiente e la salute umana.
In Europa, sparita la Ceca, sono finite pure le linee di credito funzionali a questi investimenti. Suonano irridenti le parole del suo Trattato istitutivo: Art. 53 – “L’Alta Autorità può facilitare la realizzazione di programmi di investimento accordando prestiti alle imprese o dando la propria garanzia ad altri prestiti che esse contraggano”. Ed ancora, art.55 – “... deve incoraggiare le ricerche tecniche ed economiche concernenti... la sicurezza del lavoro in dette industrie”.
Basta scorrere, poi, i poteri che erano stati attribuiti alla Ceca in materia di quote di produzione nazionale nel caso di una contrazione della domanda, e addirittura quelli di compensazione economica a favore dei lavoratori nel caso di un abbassamento dei salari a fini concorrenziali: “Quando l’Alta Autorità constata che un ribasso dei salari, mentre provoca un abbassamento del tenore di vita della mano d’opera, è anche impiegato come mezzo di adeguamento economico permanente delle imprese o di concorrenza fra imprese, essa rivolge all’impresa, o al Governo interessato, sentito il parere del Comitato Consultivo, una raccomandazione al fine di assicurare alla mano d’opera, a carico delle imprese, dei benefici che compensino tale ribasso”.
La deflazione salariale, che da anni viene imposta dalla Commissione come strumento volto ad assicurare la competitività mercantilista, è una politica diametralmente opposta rispetto ai valori su cui si fondava alle origini la Comunità europea.
All’Art 1, si stabiliva che fosse suo compito “promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della mano d’opera, consentendone la parificazione verso l’alto”. Testuale.
Il mondo, si sa, corre. In un anno, gli effetti dei dazi americani sulle importazioni di acciaio sono stati consistenti, nell’ordine del 13,5%: nei dodici mesi terminati a settembre scorso, sono scese a 20,5 milioni di tonnellate, rispetto ai 23,7 milioni del periodo precedente; in valore, si sono contratte da 22,7 a 19 miliardi di dollari. Per alcuni prodotti, come le lamiere, l’import americano è crollato del 24,3%.
Non ci sono retroazioni: l’export di acciaio della Turchia, che si è più che dimezzato verso gli Usa nel corso dell’anno, si è ridiretto verso l’UE, ed in particolare verso l’Italia che ne è diventata la principale acquirente. Ciò anche per una sorta di triangolazione dei rottami di ferro che, in uscita dall’Unione per essere rigenerati negli impianti turchi, vengono reimportati in Italia a prezzi vantaggiosi, visti i minori oneri ambientali in quel Paese.
L’America, a modo suo, con i dazi sull’acciaio e l’alluminio sta cercando di proteggere quel poco di Old Economy che le è rimasta. Recede formalmente anche dalla partecipazione agli Accordi di Parigi sul clima, pur di non aumentare ancora i costi interni di produzione che già la penalizzano nel commercio internazionale.
Anche qui, tornano le lezioni del passato: fu la violenta stretta monetaria della Fed all’inizio degli anni '80 a determinare la prima ondata di deindustrializzazione americana, con gli impianti delocalizzati in Messico, appena oltre la frontiera, dove i costi del lavoro e di ogni altro fattore normativo erano enormemente più bassi.
Il ribaltamento di segno dei tassi di interesse reale, che passarono repentinamente da negativi a positivi, colpì in modo ancora più drammatico l’Italia: saltò per aria l’equilibrio finanziario dei colossali piani di investimento a lungo termine delle Partecipazioni statali, tra cui quelli del polo siderurgico di Bagnoli. Il nuovo treno di laminazione a caldo, appena installato, fu smontato per cederlo agli indiani: roba di quasi quarant’anni fa.
Con i nuovi tassi, il debito era divenuto, per ciò solo, incontrollabile. Da lì, la china inarrestabile che portò agli accordi Andreatta-Van Miert sul divieto di sostegni da parte dello Stato e poi alla liquidazione dell’azionariato pubblico. Si congelarono anche gli investimenti produttivi dei privati a favore degli impieghi in titoli di Stato, che rendevano alle aziende assai più di ogni roseo profitto operativo. Il cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia portò alla esplosione del debito pubblico.
Oggi sono ancora una volta i differenziali di costo che bloccano gli investimenti a lungo termine, e che portano alla chiusura degli impianti: non sono più gli oneri finanziari che fecero sballare i conti negli anni '80, ma quelli derivanti dalla maggior tutela ambientale della vita umana e del lavoro.
La precarizzazione e la svalutazione salariale, pure insieme alla contrazione delle tutele sociali, non bastano a colmare il divario dei costi: se dal piano industriale dell’Ilva di Taranto se ne scorporassero quelli relativi all’adeguamento ambientale e quelli imposti direttamente dalla magistratura per la sicurezza del lavoro, forse ci troveremmo di fronte ad una revoca del recesso.
A nessuno mai verrebbe in mente una ipotesi così balzana. Ma, se i prezzi dei beni prodotti inquinando liberamente sono comparati sul mercato a quelli dei prodotti che vengono realizzati rispettando vincoli severi, davvero non c’è partita. Se si chiude a Taranto, sarà un altro deserto, come a Bagnoli. Non basta piangere, né pregare: l’Amazzonia che brucia è qui, siamo noi.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento