Il Movimento 5 Stelle sarà presente con una propria lista alle prossime elezioni regionali che si terranno in Calabria e in Emilia Romagna. Questo il dato emerso ieri sera dopo che poco più di 19 mila (contro 8 mila) tra i 125 mila aventi diritto al voto sulla piattaforma Rousseau, hanno espresso la preferenza per il No, preferenza che nella formulazione del quesito – poco lontana da quelli “creativi” visti in occasioni ben più dirimenti, come la riforma costituzionale o la privatizzazione dell’acqua – significava la volontà di partecipare alla campagna elettorale.
Il risultato, si affrettano ad affermare molti quotidiani di oggi, va in direzione opposta alle indicazioni avanzate alla vigilia del voto dal “capo politico” Luigi Di Maio, di fatto esprimendo un’incrinatura evidente nelle relazioni tra la dirigenza del Movimento e la parte di elettorato che ancora rimane fedele all’opzione pentastellata.
Di certo, il dato politico messo in mostra dagli organi di informazione “interessati” alle quotazioni della borsa elettorale è talmente evidente che neanche i diretti interessati possono negarlo. I “non controllo più i miei” oppure i “è vero, siamo in difficoltà” pronunciati da Di Maio, a cui aggiungere i mal di pancia delle basi regionali/ provinciali ecc., sono qui a dimostrarlo.
Ma ciò su cui qui vorremmo soffermarci brevemente sono le ragioni profonde che hanno portato il M5S a questa situazione. Se, di nuovo, il dato è che la formazione che poco più di 20 mesi fa ha ottenuto la maggioranza relativa alle camere, a poche settimane dalle elezioni, non sa se presentare una propria lista in una delle regioni strategiche per la guida del paese, perché non saprebbe come affrontare un’altra batosta come quella rimediata alla tornata umbra, la questione centrale e meno dibattuta altrove è il perché di questo “sconvolgimento”.
Il motivo, paradossalmente, risiede nella stessa logica, non nuova, che da una parte ha portato il Movimento ai risultati del marzo 2018, e dall’altra al declino odierno: l’illusione che la dimensione, dell’onestà sia da sola in grado di offrire un’alternativa credibile al “cattivo” mondo odierno.
Sia ben chiaro, l’illusione non è nel valore dell’onestà in sé, quanto piuttosto nell’ipotesi secondo cui se tutti fossero onesti, il mondo (questo mondo, e in particolare questo paese) funzionerebbe bene. Illusione, appunto perché non riscontrabile nella realtà, che diventa addirittura becera repressione quando le si sovrappone la “logica manettara” del rispetto della legge a prescindere dalla sua “ragionevolezza” – come nei sorrisi compiaciuti del ministro Bonafede all’atterraggio di Battisti dal Brasile o nei Decreti Sicurezza che portano il nome di Salvini – senza porsi la domanda per chi e per quale scopo quella legge è stata pensata.
A ben vedere, l’illusione dell’applicazione amministrativa onesta del già legittimato non è altro che il riflesso dell’ideologia (falsa coscienza per definizione), del “né destra né sinistra” con cui il Movimento ha scalato le vette del consenso; ideologia che peraltro è tutta interna (compatibile) alla narrazione della fine della storia e delle alternative (“Tina”, there is no alternative) con cui abbiamo a che fare da almeno un trentennio a questa parte.
Questo giochino ha funzionato benissimo finché si è trattato di coagulare un sentimento diffuso e reale, quanto legittimo, di rifiuto generale di un arco politico di bassissima lega, incapace e disinteressato a cogliere i bisogni che sopraggiungevano dalla popolazione.
Ma quando si passa dal ruolo destruens a quello costruens, ossia dall’attacco puro a tutto spiano contro le proposte degli avversari alla necessità di prendere decisioni programmatiche, e fare i conti con la materia disponibile a sostenere quelle decisioni, per le sorti economico-politico-sociali di un paese, allora la musica cambia.
Qui, senza un orizzonte di riferimento, un programma più o meno definito, o meglio ancora un’idea chiara e concreta (non illusoria dunque) del mondo che si vuole costruire, si perde la bussola e si finisce col governare con tutto e l’apparente contrario di tutto in poco tempo. Come è successo al Movimento, con il passaggio dal governo giallo-verde a quello giallo-blu (o giallorosa). Se poi il pilastro dell’offerta politica era sempre stata la promessa di non scendere a patti “con nessuno”, allora lo sconvolgimento, come scritto in precedenza, è la sola conseguenza razionale possibile.
La perdita della bussola ora si è trasferita anche all’elettorato, a cui, di fronte alle continue giravolte dei propri rappresentanti, comincia a girare la testa e fa sempre più fatica a riconoscere “i suoi”, fino a sconfessare – e torniamo così alla cronaca di oggi – l’indicazione di voto fornita dal “capo politico” sulla votazione online. Cosa mai accaduta fino ad ora.
A dispetto di quanto ci vogliono far credere, la guida di un paese, a maggior ragione in un contesto di grande incertezza internazionale e con prospettive tutt’altro che rosee, non è mai una questione di “applicazione tecnica” del già esistente, ma è sempre inserito in una visione generale che guida, di volta in volta, le scelte particolari.
Tutt’al più, la tecnicizzazione degli organi decisionali politici è uno strumento funzionale di una di queste visioni; ma i 5 Stelle hanno creduto di poter fare di questo strumento la visione generale su cui basare la propria stabilità elettorale.
Evidentemente, così non può essere, e il Movimento – e con esso tutte quelle persone che avevano in buona fede creduto a questa proposta di cambiamento – è costretto a pagarne il prezzo. Che, se alla vigilia dell’elezione del futuro governatore di una delle regioni più ricche del paese mette in dubbio la tua presenza, comincia a essere molto salato.
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