Non si fermano le proteste in Iraq. Stamattina i manifestanti anti-governativi hanno bloccato l’entrata del porto di Umm Qasr (vicino a Bassora, sud del Paese)
impedendo ai lavoratori e alle autobotti di entrare. Secondo alcune
fonti locali, al momento le attività sono ferme al 50%, ma, se il blocco
dovesse continuare anche nel pomeriggio, le operazioni saranno
paralizzate del tutto come è già accaduto dal 29 ottobre al 9 novembre
(eccetto una breve ripresa tra il 7 e il 9).
Bloccare Umm Qasr è
un atto molto significativo: è infatti il principale porto del Paese
dove transitano le importazioni di grano, oli vegetali, zucchero.
Beni indispensabili per un Paese che per lo più importa cibo. Non solo:
secondo quanto ha riferito lo scorso mese un portavoce del governo,
l’ultimo blocco costò al Paese 6 miliardi di dollari solo la prima
settimana. Oltre a Nassiriya e Bassora dove i manifestanti hanno
bloccato strade e bruciato pneumatici, cortei di protesta si sono
registrati nel sud anche a Kut, Najaf e Diwaniyah. In queste città le scuole e gli uffici governativi sono rimasti chiusi e le piazze si sono riempite di manifestanti.
Ma le mobilitazioni anti-governative continuano anche a
Baghdad dove ieri gli attivisti hanno occupato un terzo ponte che porta
alla Zone verde (l’area della capitale dove si trovano i ministeri e le ambasciate) nonostante l’ampio uso di gas lacrimogeni, bombe stordenti e pallottole vere da parte delle forze di sicurezza.
Ieri a Baghdad sono confluiti migliaia di attivisti per protestare
contro il governo, la corruzione e la grave situazione economica. In piazza c’erano anche centinaia di studenti che si sono riuniti nella centrale Piazza Tahrir
(il centro nevralgico delle proteste) e hanno esposto uno striscione
che recitava: “No alla politica, no ai partiti, questo è un risveglio
studentesco!”. “Come studenti siamo qui per aiutare gli altri
manifestanti, non faremo nessun passo indietro” ha detto uno di loro
alla Reuters. “Continueremo la nostra protesta e il nostro sciopero
generale insieme a tutti gli altri iracheni finché non costringeremo il
governo a dimettersi”, gli ha fatto eco l’avvocato e militante Hassan
al-Tufan. Cortei e sit-in di protesta si sono registrati anche a Hillah,
a sud di Baghdad: qui gli attivisti si sono radunati di fronte ai
palazzi provinciali.
La conquista ieri del ponte Ahrar fa seguito alla
rioccupazione dei manifestanti del ponte Sinak e di un alto palazzo
nelle sue vicinanze avvenuta sabato a Baghdad. Dal 25 ottobre i dimostranti occupano un terzo ponte pure, quello di Jamhuriya, portando così la loro voce di protesta anche in altre aree della capitale.
La presa del ponte Ahrar ha avuto però come al solito un caro
prezzo umano: ieri, infatti, un manifestante è stato ucciso per una
ferita riportata da un gas lacrimogeno sparato ad altezza uomo. Più di
40 sono stati poi i feriti. Dall’inizio delle proteste, lo
scorso 1 ottobre, le forze di sicurezza hanno ucciso più di 320
dimostranti. Migliaia i feriti. La polizia è da tempo accusata dagli
attivisti e dalle organizzazioni umanitarie locali e internazionali per
l’uso massiccio di pallottole vere (perfino a volte mitragliatrici) e di
lacrimogeni a distanza ravvicinata. La repressione sanguinosa
del governo iracheno è stata ieri criticata anche dal capo uscente della
missione Nato in Iraq, il Maggior Dany Fortin, secondo il quale la
violenza delle autorità in questo mese è “un’assoluta tragedia” e ha
invitato pertanto il governo alla “moderazione”. Ma l’esecutivo
di Abdel Mahdi pare non ascoltare né le critiche internazionali né
soprattutto i manifestanti: le riforme che ha promesso (ma quando
verranno implementate?) sono giudicate dagli attivisti ben poco cosa.
“Quanto proposto è solo oppio per le masse. Né più né meno” ha
sintetizzato così ieri un dimostrante a Baghdad.
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