“Nella DDR c’erano 71mila cittadini controllati dai servizi segreti della BDR. […] Dal 1956 al 2012 sono stato sottoposto a sorveglianza dai servizi della Repubblica Federale tedesca. Ho intentato una causa contro il governo federale per avere accesso agli atti che mi riguardavano, ma questo accesso mi è stato negato […]. Quelli che ho chiesto sono considerati atti che potrebbero mettere in pericolo la sicurezza dello stato federale, quindi io non ho diritto di sapere cosa abbiano fatto nei miei confronti. Questo, però, sta a testimoniare una cosa importante: che la lotta di classe è tuttora in atto. I servizi segreti di ieri sono gli stessi di oggi, dunque la lotta di classe non è per niente finita“.
Così Hans Modrow, ultimo Premier della Repubblica democratica tedesca (DDR), in una sala stracolma di gente, qualche giorno fa, a Milano.
Ascoltavo la sua versione dei fatti – che difficilmente vi capiterà di sentire – i suoi ricordi di uomo dell’Est e le sue valutazioni sulla Perestroika di Michail Gorbacev (l’ultimo segretario del Partito comunista sovietico. Personalmente lo ricordo immortalato in una pubblicità di Luis Vuitton mentre percorre in auto il muro di Berlino; accanto a lui, sul sedile, l’irrinunciabile borsa del noto marchio. Che razza di fine. D’altronde, aveva già vinto il Nobel per la Pace).
Be’, mentre lo ascoltavo ripensavo a film come “Ninotchka” o “Le vite degli altri” – dai più vecchi ai più recenti – e a tutti i racconti del terrore che dall’asilo alla laurea mi sono stati propinati sulla vita Oltrecortina. Da piccola me l’immaginavo come un mondo dalle tonalità grigio-seppia, con file interminabili anche per bere un caffè al bar, dove praticamente non esisteva l’estate e dove venivi spiato perfino dalle tue mutande. Insomma: un incubo orwelliano infeltrito e monocromatico, che d’altronde Orwell – anticomunista col turbo – aveva creato proprio pensando alla raccapricciante Unione Sovietica.
(È poi un dettaglio che se da un lato ci indottrinavano a odiare la parola “comunismo”, dall’altro venivamo colonizzati dalla fluorescente, morbidissima cultura statunitense: dai telefilm agli hamburger, era tutto uno sprizzare gioia e ottimismo, un’esplosione di bene che vince sul male e di godimento inesauribile e senza controindicazioni. Chi l’avrebbe mai detto, che dopo le abbuffate degli anni '80 sarebbero arrivati i co.co.co, le partite iva a 800 euro al mese e la caparra dell’affitto pagata con la pensione di nonna?)
Be’, insomma: chissà che direbbe oggi, Orwell, del mondo in cui viviamo, del trionfo di libertà e democrazia in cui nuotiamo. Chissà che direbbe, della narrazione dei fatti bidimensionale propagandata nelle scuole, di ogni ordine e grado; della superficialità e ignoranza degli editorialisti, delle immense porzioni di etere concesse a pennivendoli e storici da strapazzo, che sulla Caduta del Muro di Berlino si sono avventati come avvoltoi inferociti. Chissà che direbbe di intere generazioni di giovani sacrificati al dio consumo, che aspirano al massimo a comprare l’ultimo iphone al centro commerciale costruito sotto casa cinque anni fa.
Probabilmente gli piacerebbe il “mondo libero”, che ha vinto sulla rivoluzione socialista. Anche se – ironia del caso – questo “mondo libero” somiglia sempre più al suo 1984.
Io credo che la vera forza di un totalitarismo stia nella sua normalità; nella capacità di plasmare i pensieri, i desideri, i ricordi – perfino i significati delle parole – con un’azione delicata ma costante, quotidiana, incessante. Una pressione leggera, una specie di goccia in testa. Sulla testa di persone che mentre la goccia scava continuano a sentirsi il capo asciutto, intatto.
Chi vive dentro un totalitarismo – insomma – non sa di viverci. Fossimo noi, quegli sventurati?
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