di Michele Giorgio – Il Manifesto
Può Benyamin Netanyahu,
premier incriminato per corruzione, rimanere alla guida del paese? Non
era mai accaduto in 71 anni e questo interrogativo ieri sera
attraversava tutto lo Stato di Israele dopo la decisione presa dal
procuratore generale, Avichai Mandelblit, di incriminare Benyamin
Netanyahu per corruzione in tre distinti casi.
Primo ministro da oltre dieci anni al potere, il leader della
destra è deciso a non arrendersi. Ma il centro e ciò che resta della
sinistra chiedono a gran voce le sue dimissioni, e subito. Il
partito Blu Bianco, principale forza di opposizione, ieri ha diffuso un
discorso televisivo di 11 anni fa in cui Netanyahu, riferendosi al suo
predecessore Ehud Olmert, sotto inchiesta per corruzione, affermava che
un primo ministro indagato non può svolgere le sue funzioni.
«Ho deciso con cuore pesante ma in piena coscienza. Questo era il mio
dovere di fronte ai cittadini di Israele... ho agito solo in base a
considerazioni legali ed evidenze, nessuna altra motivazione mi ha
influenzato», ha spiegato Mandelblit. Il suo annuncio è giunto
all’indomani della comunicazione dello sfidante di Netanyahu, il leader
di Blu Bianco, Benny Gantz, di rimettere il mandato per la formazione
del governo nelle mani del capo dello Stato, Reuven Rivlin.
Quella rinuncia per Netanyahu, che nell’ultimo mese ha fatto
di tutto pur di impedire al rivale di formare un esecutivo, era stata
una ottima notizia. Israele procede verso nuove elezioni, le
terze in un anno, e Netanyahu ritiene che conservando la carica di primo
ministro fino al voto potrà affrontare meglio i suoi guai giudiziari.
D’altronde la legge israeliana non richiede espressamente che un premier
sotto processo si faccia da parte. Però non potrà formare una
maggioranza.
Netanyahu, come ha sempre fatto, si dice vittima di una caccia alle
streghe e attacca media, polizia, procuratori e sistema giudiziario. E proverà
a tenere duro fino al terzo grado di giudizio. Ieri sera ha evocato il
golpe. «Vogliono farmi cadere», si tratta di «accuse false e
politicamente motivate» ha proclamato il premier parlando alla nazione. E
ha scagliato saette a Mandelblit.
«La decisione del procuratore generale è arrivata nel momento più
sensibile per il sistema politico israeliano», ha affermato con tono
allarmato. In quello stesso momento decine di suoi sostenitori, riuniti
davanti al ministero della giustizia, urlavano la sua innocenza e
lanciavano accuse alla magistratura «venduta» alla sinistra.
Sarebbe un errore credere che Netanyahu sia giunto al capolinea. Ma i margini di manovra per lui si sono ridotti al minimo. Oltre
alle pressioni del centrosinistra, dovrà parare i colpi che gli
arriveranno anche dal suo partito, il Likud – il suo avversario interno
più temibile, Gideon Saar, chiede con forza le primarie prima del voto
nel tentativo di metterlo da parte – e i partiti della destra
nazionalista e religiosa, che da dieci anni compongono la sua
coalizione, saranno tentati di sganciarsi da un leader alla sbarra per
corruzione. Senza dimenticare che la Corte Suprema, se sollecitata ad
intervenire, potrebbe richiedere che il premier si faccia da parte per
ragioni di correttezza politica.
Le accuse sono serie. Le indagini sono tre. Il “Caso 4000” risale al
2015 e vede Netanyahu accusato di aver adottato decisioni normative a
beneficio di Shaul Elovitch, l’azionista di maggioranza del gruppo di
telecomunicazioni Bezeq in cambio di una copertura favorevole sul sito
di notizie Walla, di proprietà di Elovitch. Poi c’è il “Caso
1000”. Netanyahu e sua moglie Sara avrebbero illecitamente ricevuto doni
(champagne e sigari) da Arnon Milchan, un produttore di Hollywood e
cittadino israeliano, e dal miliardario australiano James Packer.
Infine
c’è il “Caso 2000”. Il premier avrebbe cercato di negoziare un accordo con Arnon Mozes, proprietario del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, per una migliore copertura in cambio di una riforma di legge che avrebbe ostacolato la crescita del quotidiano concorrente Israel Hayom.
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