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20/11/2019

Bolivia, il golpe postumo

“La crisi dei diritti umani che sta attraversando la Bolivia dopo le elezioni del 20 ottobre si è aggravata con l’intervento delle forze armate. Qualsiasi messaggio che favorisca l’impunità è gravissimo.

I nefasti precedenti storici nella regione per quanto riguarda il ruolo dei militari, devono essere tenuti nella massima considerazione così come massimo dev’essere l’impegno al rispetto e alla protezione dei diritti umani”.

(Dichiarazione rilasciata da Erika Guevara-Rosas, direttrice per le Americhe di Amnesty International)

La velocità folle degli eventi che hanno capovolto l’assetto politico e sociale della Bolivia – mantenuto pressoché inalterato per 13 anni da Evo Morales e Álvaro García Linera, che oltretutto hanno consolidato le riforme nell’ultimo periodo – è tutt’altro che una coincidenza.

È passato un mese esatto da quella maledetta domenica, quando la conta dei voti si fermò misteriosamente, per riprendere 24 ore dopo e decretare la vittoria al primo turno del presidente in carica. Da quel momento Carlos Mesa, il capo dell’opposizione, vedendosi negato l’accesso al secondo turno di dicembre, scatenò i primi tumulti per le strade, che coinvolsero oltre alla capitale La Paz, le città-chiave di Cochabamba e Santa Cruz nel sud del Paese, dove Mesa aveva ottenuto i consensi maggiori, in assenza dell’etnia Aymara, il pueblo andino più rappresentativo della Bolivia a cui appartiene Evo Morales, concentrato a La Paz e nella frazione di El Alto.

https://www.lavanguardia.com/internacional/20191115/471610411682/indigenas-bolivia-evo-morales-golpe-estado-etnia-aimara.html

Ci furono due vittime durante gli scontri tra opposte fazioni, a simboleggiare un equilibrio sostanziale tra i sostenitori di Mesa e quelli che invece erano rimasti fedeli a Evo. In quei giorni, la delegazione OAS (Organizzazione degli Stati Americani con sede a Washington D.C.), il cui intervento era stato comunque richiesto dal ministro degli Interni del vecchio governo, assunse un atteggiamento ambiguo: all’inizio dichiarò che, pur avendo riscontrato notevoli anomalie nella procedura di voto, tuttavia non aveva raccolto prove che attestassero una frode elettorale. Pochi giorni dopo, affermò il contrario, chiedendo al governo in carica di ripetere il primo turno di votazioni, richiesta che venne accolta da Morales.

Nel frattempo la polizia, rimasta neutrale durante i primi disordini, si ammutinò, chiedendo le dimissioni immediate di Morales. A dar man forte intervenne l'esercito, che minacciò di arrestarlo, se non avesse rimesso il mandato e lasciato il Paese, “per evitare una guerra civile”.

Evo Morales, insieme a Linera e l’intero staff presidenziale, diede infine le dimissioni e il 12 dicembre parti per il Messico, il cui governo si era offerto di dargli asilo politico.

Subito dopo, la presidentessa ad interim Jeanine Áñez, dichiarò che “avrebbe ripristinato la democrazia” e “pacificato la nazione”, definendo Morales “un tiranno al quale non sarà più permesso di candidarsi alle prossime elezioni” anche se gli fosse consentito l’eventuale ritorno in patria.

Peccato però che quello che sta succedendo in queste ore non abbia niente a che vedere con la democrazia: innanzitutto, il nuovo Parlamento ricomposto ex novo mercoledì scorso, non ha neanche un indigeno tra i suoi nuovi membri, pur a fronte di una nazione composta per oltre il 45% di etnie indios con ben 36 differenti ceppi linguistici.

I ministri che formano il gabinetto del governo provvisorio, sono stati tutti scelti pescando nell’élite che controlla Santa Cruz, la seconda città della Bolivia, da sempre rivale di La Paz, che è a maggioranza Aymara e Quechua.

Morales è accusato anche di aver favorito divisioni etniche, e ciò viene usato ora come pretesto per attaccare lo Stato Plurinazionale, fondamento del socialismo andino, concetto voluto fortemente dall’ex presidente e inserito nell’ordinamento costituzionale nel 2009 con lo scopo di preservare l’identità indigena e difenderne i diritti. Come segno del cambio di tendenza, gli oppositori del presidente in esilio hanno bruciato un po’ ovunque la bandiera multicolore Wiphala, che è il simbolo dei nativi delle Ande, a cui Morales è legato per tradizione millenaria.

Aldilà della mancanza di rispetto per tradizioni e simboli, il New Deal anti-indigenista ha rafforzato l’arroganza degli alti gradi militari, i quali hanno dato corso al loro personale colpo di Stato, facendo varare il 14 novembre un decreto speciale, n° 4078, che assicura all’esercito impunità assoluta in caso di repressione di manifestazioni anti-governative.

Per “festeggiare” la nuova legge, ieri la polizia ha attaccato nuovamente i dimostranti con gas lacrimogeni.

Finora il bilancio delle vittime negli scontri registra 23 caduti, di cui 21 dopo la partenza di Morales.

A tal riguardo, Amnesty ha rilasciato un ulteriore comunicato, che trascrivo qui di seguito, integralmente:

“L’altissima tensione sociale non può essere una scusa perché le forze armate agiscano in modo contrario agli standard internazionali sui diritti umani o per fomentare un’ondata di odio e discriminazione razziale che è già emersa con forza negli ultimi giorni. Jeanine Añez, che si è proclamata presidente ad interim, ha l’obbligo di fermare immediatamente le violazioni dei diritti umani e di rendere conto di fronte ai meccanismi nazionali e internazionali su tali violazioni”.

Le prossime ore ci mostreranno se questo appello verrà accolto dal nuovo governo, oppure se sarà ignorato, come io credo.

Al momento sembra che non esistano le condizioni per una tregua.

Il conflitto in corso fra ciò che resta del MAS (Movimento per il Socialismo) e la restaurazione dell’ancien régime appoggiato dai militari e dalla minoranza bianca di origine europea, si concluderà solo con la sconfitta di uno dei due contendenti.

Non c’è più spazio per ripensamenti.

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