'68-'69, sindacalismo, società italiana
Il ’68 italiano è stato molto diverso da quello europeo e mondiale: l’originalità fu dovuta da quello che, all’epoca, con una certa enfasi abbiamo definito come l’incontro tra operai e studenti “uniti nella lotta” che portò all’apertura di un vero e proprio ciclo politico prolungato nel tempo.
In questa nostra occasione, per evidenti ragioni di economia del discorso, ci occuperemo dell’autunno 1969, l’autunno “caldo” della classe operaia italiana.
Il periodo che si aprì con quell’autunno rimase decisivo per la comprensione della società italiana almeno fino alla svolta degli anni ’80.
Le lotte sociali di quel periodo scatenarono, infatti, tutta una serie di processi che provocarono profonde mutazioni in quasi tutti i settori della realtà sociale.
Cambiarono le istituzioni, furono ridimensionate e riadattate le organizzazioni, si assistette a un vero processo di evoluzione del costume e nella mentalità della società civile attraverso un importante processo di modernizzazione.
L’autunno 1969 rivelò, per il numero e la portata dei conflitti sociali una combattività operaia ineguagliata in Europa; le forme di lotta scelte chiamarono in causa le strutture tradizionali del sindacato; i temi delle lotte, all’interno e all’esterno della fabbrica interpellarono non solo i sindacati ma l’insieme delle forze politiche; l’aspirazione all’unità sindacale, espressa dalla base manifestò una volontà d’espressione politica autonoma della classe operaia.
Debbono essere ricordate, innanzitutto, quelle che erano le nuove domande emergenti in seno alla classe operaia.
Tre di queste riguardavano, più in particolare direttamente o indirettamente, il posto e il ruolo del movimento operaio nel sistema politico.
Si trattava delle domande relative alla democratizzazione delle strutture sindacali, all’unità e al potere politico.
Le risposte a queste domande andarono, necessariamente, ben oltre le funzioni tradizionalmente assolte dai sindacati e ne risultò profondamente modificata la natura dell’insieme dei rapporti sociali mantenuti dalle stesse organizzazioni sindacali.
Gli studi sui conflitti sociali mettono spesso e volentieri l’accento sulla funzione trainante e decisiva svolta da taluni strati sociali tradizionalmente conservatori ma soggetti a un processo di proletarizzazione, o da strati nuovi apparsi con lo sviluppo della società industriale.
L’Italia, a questo proposito, offrì a cavallo del 68-69 una situazione particolare: si verificò infatti una riarticolazione dell’intera società nazionale attorno a tre punti: la crescente importanza dei meridionali nel proletariato non qualificato del Nord, l’impossibile socializzazione di questi meridionali da parte delle forze politiche e la crescente importanza dei tecnici.
Nei quattro anni precedenti all’autunno caldo l’industria aveva creato quasi un milione di posti di lavoro provocando dei veri e propri spostamenti di popolazione dal sud verso il nord, con tutti i problemi che ne seguivano: acculturazione, casa, scuole, sanità, ecc.
Si assistette, dunque, a un gonfiamento e a un ringiovanimento considerevoli della classe operaia: i nuovi arrivati erano per giunta sradicati.
Si costituì così un’inedita “massa critica” nelle grandi metropoli industriali del Nord.
Nel 1969 questa “massa critica” raggiunse dimensioni esplosive.
All’inizio dell’anno la Fiat rese nota la sua intenzione di costruire una nuova fabbrica nella periferia di Torino.
In un anno dovevano essere creati 15.000 nuovi posti di lavoro e si assistette a una nuova, ulteriore ondata migratoria.
A quel punto nacque (dopo tante sporadiche insorgenze specifiche: pensiamo ai fatti di Piazza Statuto, sempre a Torino, nel 1962) un movimento di rivendicazione generalizzato come mai in precedenza.
La popolazione immigrata prese a rivendicare il proprio carattere “nazionale”, esigendo dalle istituzioni un trattamento pari a quello degli altri strati della popolazione a contrasto di latenti forme di razzismo.
I meridionali erano arrivati al Nord sapendo di non poter più fare ritorno a casa, ne era derivato quindi, dopo un periodo di adattamento alle nuove condizioni di vita, un comportamento rivendicativo immediato.
Si pose, insomma, con inedita urgenza il problema della socializzazione della massa immigrata.
Questo compito fu assolto in larga parte dal sindacato e in particolare dalla CISL, attraverso anche un nuovo ruolo assunto dalle ACLI.
Uno degli elementi nuovi e caratterizzanti dello scontro di classe che si verificò in Italia in quel periodo furono le lotte sindacali degli impiegati e dei tecnici che, a partire dal giugno 1968, con gli scioperi della Falck a Milano, avevano interessato più di 30 fabbriche.
Un fenomeno completamente inedito, sia sul piano quantitativo sia sul piano qualitativo nella storia della categoria tradizionalmente condizionata dalle strutture aziendali e dall’ideologia dominante del neocapitalismo.
Il discorso sull’unità sindacale si pose allora come elemento fondante di una ricomposizione sulla base di un’acquisita coscienza di classe, considerato che il peso schiacciante del dominio padronale faceva apparire gli altri tipi di pressione come secondari o derivati.
Il sindacato avrebbe compreso, sul campo, che la sindacalizzazione della categoria dipendeva dalla qualità delle lotte contro il potere padronale e l’organizzazione capitalistica del lavoro.
Angelo Dina scrisse: “La parola d’ordine del controllo operaio non è ormai per il tecnico né una minaccia né un appello a una solidarietà generica, ma una condizione di liberazione”.
Il “lungo” 68-69 italiano aveva, davvero, provocato una svolta d’epoca.
Nuove esigenze di democrazia
Il 1968 e il 1969 furono gli anni in cui apparvero forme diverse di democrazia nella gestione delle lotte.
L’analisi di queste forme di lotta ci indica le caratteristiche comuni, sia di lotte interne o esterne alla fabbrica, sia di rappresentazione di un bisogno di partecipazione collettiva alle decisioni, sia di costante ricerca con altri gruppi sociali, al fine di associarli ai conflitti, trasformare i temi, allargare le basi della contestazione.
Si moltiplicarono i cortei in fabbrica, nei quartieri, i comitati, gli interventi nelle piazze, le assemblee.
Si manifestò un intenso bisogno di partecipazione democratica.
I due “prodotti” più importanti della “mobilitazione partecipante” di quegli anni furono le assemblee e i delegati.
Le prime assemblee apparvero nel 1968 in due luoghi diversi: dapprima nelle università e nelle scuole, dove la mancanza di una struttura organizzativa preesistente non poteva che favorire la generalizzazione di queste nuove istanze decisionali; in seguito nelle aziende, con le lotte degli impiegati e dei tecnici.
Le assemblee furono rapidamente istituzionalizzate, anche dallo “Statuto dei Lavoratori”, votato dal Parlamento il 20 Maggio 1970, che all’articolo 20 specificava: “i lavoratori hanno diritto di riunirsi, nell’unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori dall’orario di lavoro, nonché durante l’orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le quali sarà corrisposta la normale retribuzione”.
I delegati apparvero nel 1968 in diversi luoghi di lavoro, generalizzandosi nel 1969 con procedure e funzioni differenziate.
Possiamo rintracciare, riferendoci all’epoca, quattro tipi di delegati: il delegato designato con un accordo aziendale dopo i conflitti verificatisi sui problemi del lavoro a cottimo; il delegato voluto dal sindacato, fuori dai momenti di lotta, per consolidare la sua presenza nell’azienda; il delegato politicizzato eletto nei reparti in momenti di lotta particolarmente duri, per il valore del suo impegno nel conflitto; il delegato eletto dall’assemblea nei momenti di lotta, per dirigere i dibattiti, organizzare gli scioperi, assicurare i collegamenti con i sindacati.
Una delle caratteristiche fondamentali del periodo che si era aperto con il 1969 risiedeva nell’elasticità delle soluzioni adottate un po’ ovunque e nell’intenso dibattito che, proprio sul tema della democrazia operaia, coinvolgeva le varie organizzazioni.
Già dal 1970 le federazioni dei metallurgici si schierarono a favore di una concezione assai ampia del ruolo e dei compiti del delegato, cercando di portare sullo stesso terreno le confederazioni.
Nuovi equilibri nelle strutture sindacali e il dibattito sull’unità
Alla fine di questo periodo molto intenso e tumultuoso che possiamo definire come quello dell’emergere della nuova classe operaia e dell’affermazione del sindacato dei consigli, ci si trova davanti ad un sindacato sostanzialmente squilibrato le cui strutture variavano a seconda delle federazioni, delle regioni, delle città: talvolta le nuove strutture sostituivano quelle vecchie, in altri casi non era stato possibile insediare le nuove, in altri casi ancora le vecchie e le nuove coesistevano.
Nelle lotte del 1969 si era innanzitutto posta un’esigenza di potere: potere dell’organizzazione (con la gestione delle lotte), potere in fabbrica (con il controllo delle condizioni di lavoro), potere nella società (con la spinta per le riforme).
Il potere del lavoratore poteva però esistere solo se egli era in grado di controllare le sue organizzazioni. Ma occorreva anche che queste ultime fossero forti, ossia unite. Da qui la domanda di unità, costantemente presente fin dal '68.
Come reagirono allora gli apparati di fronte ai nuovi comportamenti unitari apparsi alla base nel 68-69?
Numerose furono, infatti, in questo periodo le richieste d’adesione a tutti e tre i sindacati, o addirittura le richieste d’adesione sindacale in genere, che cioè non indicavano espressamente una preferenza per l’una o l’altra confederazione.
Questi comportamenti andavano contro le tradizioni partitiche di numerosi dirigenti confederali.
Il dibattito sull’unità, dunque, si sarebbe sviluppato a due livelli, e con contenuti diversi, alla base e al vertice delle organizzazioni, oltre tra quelli che, a distanza di anni, potremmo definire come i dirigenti politici del sindacato (leader che cercavano di attuare una politica sindacale autonoma) e i dirigenti-uomini di partito (leader che continuavano a dipendere dai rispettivi partiti).
Il problema dell’unità di base si manifestò, prima di tutto, nell’azione rivendicativa dell’“autunno caldo”, più in particolare nelle grandi aziende.
L’accumulo delle pressioni sul sistema sociale provocò, come si è visto, delle rivolte.
Gli obiettivi immediati di quelle rivolte si potevano trovare, in questo caso, nelle condizioni che, secondo Max Weber favoriscono “l’attività organizzata delle classi”.
Esistevano, infatti, le possibilità di concentrare l’azione in una sfera in cui il conflitto di interessi acquistava un’importanza vitale, si ravvisava l’esistenza di uno “statuto di classe” identico per le grandi masse; l’opportunità, anche sul piano tecnico, per i membri della classe di riunirsi facilmente nelle grandi fabbriche con forte concentrazione di manodopera; l’utilizzo di una leadership orientata verso obiettivi facilmente comprensibili.
Tutto ciò si ripercuoteva sugli apparati che non potevano più eludere il problema.
Quale unità costruire?
Si trattava di sciogliere le centrali esistenti e costruire il sindacato unico a partire dalla strutture di base (delegati e consigli)?
Oppure occorreva ritentare l’operazione del patto di Roma, ossia la riunione delle tre componenti ideologiche del movimento operaio italiano, salvaguardando il diritto di espressione di ciasuna di esse?
Alla fine fu adottata questa soluzione e molti militanti rimasero profondamente delusi di fronte ad un arretramento così evidente rispetto agli impegni presi.
All’epoca delle scissioni avvenute subito dopo la Liberazione non erano mancate le pressioni esterne.
Non mancarono neppure in quest’occasione.
Fin dal marzo 1971 il segretario generale della CISL internazionale, M.Buiter, venne in Italia a chiedere spiegazioni e a mettere in guardia CISL e UIL contro il processo unitario in corso.
Nel maggio del 1971 una delegazione della Cgt-Fo aveva ricevuto, in Francia, una delegazione dell’AFL-CIO, e la stessa AFL-CIO, per bocca del suo rappresentante in Europa, Irvin Brown, aveva dichiarato di non aver mutato opinione rispetto alle posizioni espresse alla fine degli anni’40 sul tema del sindacalismo italiano.
Nella sostanza, pur essendo il quadro sindacale europeo non del tutto ostile al processo unitario, gli “antiunionisti” alla fine, presero il sopravvento, perché le loro “pressioni esterne” s’incontrarono ed intrecciarono all’interno nella situazione italiana.
A questo proposito è necessario rammentare due fatti molto importanti.
In primo luogo nel gennaio del 1972, la Confindustria fece pervenire alle confederazioni un documento sulla situazione economica e sociale italiana.
Questo documento prospettava una situazione economica assai grave (prevedendo tra l’altro un deficit commerciale di 2.000 miliardi di lire per l’anno seguente) e proponendo dei rimedi.
La manovra era astuta: scadevano alla fine dell’anno i contratti di circa 5 milioni e mezzo di lavoratori (metallurgici, chimici, tessili, ecc.) e l’apertura di negoziati al vertice mirava ad impedire l’elaborazione di piattaforme rivendicative alla base.
Le confederazioni si divisero sull’atteggiamento da assumere: la UIL e la CISL furono favorevoli al dialogo mentre la CGIL e le federazioni “unitarie” lo respinsero.
Nacque così una prima grossa divergenza proprio nel momento in cui si tentava di portare avanti l’unificazione.
Il secondo fatto rilevante fu rappresentato dalla svolta a destra nel paese, che fece seguito all’avviarsi della strategia della tensione con le bombe di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969.
L’elezione di Giovanni Leone alla presidenza della Repubblica, alla fine del 1971, richiese ben 23 votazioni (fu “bruciato” il candidato ufficiale della DC, Fanfani) e l’apporto determinante di una quota consistente dei voti del MSI.
Incombente il referendum sul divorzio (la legge Fortuna – Baslini era stata approvata qualche tempo prima) rese complessa la formazione del governo, Leone, quale suo primo atto del mandato presidenziale, sciolse le Camere ed indisse le elezioni anticipate (per la prima volta nella storia della Repubblica) per il 7 Maggio 1972.
Il risultato elettorale confermò la svolta a destra. Il PCI e la DC mantennero le posizioni ma lo PSIUP ed il “Manifesto” persero la loro rappresentanza parlamentare (a sinistra il mancato quorum di queste formazioni, oltre all’MPL e ad altre minori rese inefficace, al fine della divisione dei seggi, oltre un milione di voti).
Il MSI raddoppiò i parlamentari passando da 30 a 56 alla Camera e da 13 a 26 al Senato.
Il risultato elettorale e la strategia della tensione bloccarono definitivamente il processo di unificazione.
Bruno Storti, messo in minoranza in seno alla CISL, fu costretto ad aderire alla proposta dei suoi oppositori e della UIL, per il ripiegamento del progetto unitario su di un “patto federativo”.
Le federazioni della metallurgia, che si erano tutte e tre sciolte nel corso dei primi tre mesi del 1972 in attesa dell’approvazione confederale alla costituzione di un unico sindacato di categoria, dopo aspri dibattiti e nonostante l’avversità delle loro basi di fronte a questo “compromesso d’apparato” approvarono anche loro il progetto di “patto federativo”.
Il “patto” fu firmato a Roma il 3 Luglio 1972, e ratificato il 24 dello stesso mese dai tre consigli generali riuniti.
La struttura stabilita dal patto federativo presentava tre caratteristiche: non era rigida, non escludeva un suo possibile potenziamento, segnava però una battuta d’arresto riguardo alle esperienze unitarie di base, una battuta d’arresto che si sarebbe rivelata irreversibile e infine, per quel che riguardava la composizione degli organismi dirigenti, concedeva troppo ai partiti.
Nonostante l’aspetto transitorio ed evolutivo “il patto” segnò incontestabilmente un secco arretramento riguardo l’insieme dell’esperienza unitaria e delle prospettive che essa aveva aperto negli anni conclusivi del decennio ’60 e in quelli di apertura del decennio ’70.
Infatti, se il Consiglio dei delegati rimaneva l’istanza sindacale di base con poteri di contrattazione sui posti di lavoro, la sua formazione adesso era intesa come restrittiva perché vi era prevista, contrariamente al recentissimo passato, l’assicurazione delle rappresentanze dei tre sindacati nell’esecutivo.
La scelta del patto federativo al riguardo delle esperienze di unità organica progettate in particolare nella metallurgia non consentì forme unitarie organiche comunque denominate e articolate ai livelli verticali e orizzontali, che avrebbero reso di fatto non operante la stessa federazione.
Il passo indietro del progetto unitario era evidente: mutavano i dati di fondo della realtà sindacale di quegli anni, esisteva ormai un movimento operaio assai combattivo, difficile da circoscrivere, ma si operava per evidenziare un divario in seno alla struttura sindacale, tra la base e il vertice, tra una classe operaia non priva di elementi fuori sistema e uno strato di dirigenti, per volontà o per necessità, integrati nel sistema.
'68 studentesco, '69 operaio avevano ormai terminato il proprio ciclo: per dirla con una parafrasi celebre “avevano esaurito la loro spinta propulsiva”, anche se tante cose erano cambiate.
Il riflusso era nell’aria: crisi petrolifera del 1974, austerità, terrorismo, accompagnarono la seconda metà degli anni ’70 preparando il definitivo scenario di sconfitta segnato all’inizio degli anni ’80 dal decreto di San Valentino del 1984.
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