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24/11/2019

La decrescita infelice del neoliberismo trionfante

La questione ambientale è una questione di sopravvivenza, anche sul piano economico. Trump (e i leghisti della Regione veneto) a parte, non c’è quasi nessuno che ormai contesti questa affermazione. Il problema, semmai, nasce quando si prova a immaginare concretamente cosa voglia dire in termini sistemici.

Detto altrimenti: è relativamente facile fare i conti dei danni di un’alluvione o di una frana, e stabilirne la relazione con il cambiamento climatico. Ma quanto incide, in generale, il cambiamento climatico sulla crescita economica del pianeta?

Un rapporto dell’Economist Intelligence Unit (centro studi della “bibbia” britannica The Economist), uscito nei giorni scorsi, ha provato a calcolarne l’impatto sul Pil da qui a 30 anni. Moltissimo, sul piano economico; un attimo su quello ambientale.

Queste stime vanno sempre prese con le molle, perché in genere vengono fuori da calcoli necessariamente ipotetici, in un cui una serie di variabili imprevedibili debbono essere considerate stabili o evolventi secondo una dinamica lineare. Il che è ovviamente impossibile; anche se aiuta a capire come si muove la tendenza che si vuole osservare, coeteris paribus.

Fatte le dovute premesse – in fondo l’economia è quella disciplina che prevede il passato – occupiamoci dei risultati dello studio.

Catastrofi naturali, come incendi e siccità, per esempio, continueranno a essere un freno per l’economia con il peggioramento delle condizioni climatiche. E l’impatto sarà più forte per le aree meno sviluppate, perché lì ci sono meno strumenti per combattere quelle sfide.

Le aree più ricche hanno risorse finanziarie più grandi, tecnologie migliori, istituzioni governative più esperte, reattive, preparate (non dappertutto allo stesso modo, ovviamente).

Al contrario, “Le istituzioni povere, pertanto, possono contemporaneamente danneggiare la crescita economica e aggravare gli impatti negativi dei cambiamenti climatici“, afferma il rapporto. Ciò potrebbe includere investimenti nella difesa dalle inondazioni, nello stoccaggio dell’acqua o nelle infrastrutture pubbliche.

Non si fa fatica a crederlo, se guardiamo a “grandi opere” come il Mose e la cementificazione del suolo in tutta Italia. In molti paesi ri-colonizzati, dove impera la corruzione e l’asservimento alle multinazionali, la situazione è anche peggiore.

Insomma, le aree avanzate sono considerate più resilienti, disponendo di strumenti di difesa migliori.

Ciò nonostante, da qui al 2050 l’economia Usa dovrebbe diminuire dell’1,1%, così come tutto il Nord America (Canada e Messico compresi).

Poco peggio dovrebbe andare per l’Europa, con una perdita di Pil intorno all’1,7%.

Dietro viene il diluvio. L’Africa è logicamente più vulnerabile a un impatto economico negativo. Qui l’economia del continente dovrebbe ridursi del 4,7%. Ma già ora parte molto svantaggiata, perché le temperature medie sono più alte e lo sviluppo economico è inferiore rispetto agli altri continenti.

L’America Latina e il Medio Oriente sono appena meno peggio, mentre l’Asia-Pacifico è a centro classifica, con un danno atteso del 2,6% sulla sua economia “grazie” ai cambiamenti climatici.

La media mondiale (ogni continente pesa per il contributo che attualmente sta dando al Pil globale) è presto fatta: - 3%.

Una precisazione è necessaria. Queste cifre negative, che potrebbero tutto sommato apparire non terrificanti, non sono relative a una “minore crescita rispetto al potenziale”. In altre parole, lo studio non dice che gli Usa in questi 30 anni potrebbero crescere del 30% però dovranno subire un 1,1% in meno. Fosse così, non sarebbe un problema. E nemmeno troppo interessante...

No. Ci sarà un arretramento secco. Una decrescita, al posto della crescita. E a dispetto di qualsiasi politica economica o monetaria “espansiva”.

La mente, a questo punto, torna ai tanto sbeffeggiati teorici della decrescita felice, i quali – sulla base della conoscenza di alcuni dei limiti fisici allo sviluppo economico suggerivano di reimpostare il modello industriale globale, puntando non più alla “crescita infinita” – logicamente e materialmente impossibile in un mondo finito, ossia limitato – ma su un equilibrio tra produzione, risorse, bisogni umani tale da consentire di produrre un po’ meno ricchezza, con un impatto ambientale minore (anzi, tendenzialmente “sostenibile” o addirittura “riparatore” dei danni ambientali già provocati) e con una soddisfazione di bisogni primari più giusta, meno diseguale.

Giustamente, a quei teorici veniva nel migliore dei casi obiettato che una simile decrescita, in un mondo capitalistico, era un’utopia. La “libera impresa” cerca il massimo guadagno, crescente nel tempo, senza riguardi né per i diritti umani di lavoratori e popolazioni e ancor meno per “l’ambiente”, considerato null’altro che una risorsa da mettere a valore (se la parola “sfruttare” vi sembra troppo cruda...).

Ma la Natura ha le sue leggi fisiche, i suoi limiti immodificabili. Puoi forzarli localmente, desertificando un’area per poi passare a un’altra. Ma alla fine, dopo aver girato tutto il mondo, torni al punto di partenza. Ed è un deserto che ricomincerà a fiorire con i suoi tempi, non con quelli dell’ansia di profitto.

Dunque nell’immediato futuro la decrescita va a sostituire la crescita, anche per la bibbia del neoliberismo. Restando sotto il tallone di ferro del capitale ciò vuol dire molte cose, e nessuna piacevole. La più immediata è la guerra di tutti (i capitali) contro tutti (i capitali). Perché se il profitto diminuisce, deve diminuire – e in proporzione maggiore – anche il numero di chi se ne appropria. Sulla nostra pelle, ovviamente…

Benvenuti del Terzo Millennio!

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