Partiamo dal principio. Di cosa parliamo quando discutiamo la manovra economica? La Legge di stabilità – la nuova denominazione che nel 2009 fu attribuita alla legge finanziaria – era la legge ordinaria che regolava la politica economica nazionale per il triennio successivo, coerentemente con gli obiettivi programmatici fissati nel Documento di Economia e Finanza (DEF). Insieme alla legge di bilancio, la legge di stabilità costituiva il principale strumento dell’intervento pubblico nell’economia. Parliamo al passato perché dal 2016 queste due componenti – la legge di stabilità e la legge di bilancio – sono confluite in un unico testo legislativo, la nuova legge di bilancio (!). Tanto per rendere le cose più semplici ai non addetti ai lavori, ancora oggi questo documento unico viene semplicemente chiamato finanziaria o manovra economica.
Ciò che importa, al di là dei tecnicismi, è che questo documento rappresenta l’orientamento complessivo della politica fiscale del governo, ovvero le sue decisioni in materia di tasse e spesa pubblica. Concentriamoci allora sulla manovra economica 2020 e sui suoi elementi essenziali. Se, come abbiamo detto, il linguaggio con cui si parla di finanza pubblica non è neutrale, quello proposto dai guardiani dell’austerità è particolarmente ingannevole. Cerchiamo di decostruirlo, punto per punto.
Le dimensioni contano? Sulle pagine del Sole24Ore e di Repubblica si è discusso spesso in queste settimane di una manovra da 29 miliardi. Verrebbe da dire: “Bene! 30 miliardi di spesa pubblica per stimolare l’economia, rilanciare i consumi, gli investimenti, l’occupazione!”. Niente di più sbagliato, in quanto questa cifra significa poco o nulla.
Cosa vuol dire, infatti, “manovra da 29 miliardi”? Da un lato, significa che, rispetto al cosiddetto quadro tendenziale, ovvero rispetto a quanto previsto nei precedenti documenti di bilancio, il Governo intende attuare un programma in cui la somma tra maggiori spese e minori entrate (“misure espansive”, si potrebbe dire), ammonta a 29 miliardi. Dall’altro, significa che, sempre rispetto al quadro tendenziale, il Governo intende trovare, per finanziare queste cosiddette “misure espansive”, 29 miliardi di risorse aggiuntive, date dalla somma di maggior deficit, minori spese e maggiori entrate. In altri termini:
maggiori spese + minori entrate = maggiori entrate + minori spese + maggior deficit = 29 miliardiLa cifra di 29 miliardi, in altre parole, non ci dice assolutamente niente sulla natura restrittiva o espansiva della manovra. Se tra maggiori spese e minori entrate immetto 29 miliardi nell’economia, ma contemporaneamente sottraggo 29 miliardi tra minori spese e maggiori entrate (le cosiddette “misure restrittive”), senza far ricorso al deficit, sostanzialmente non sto cambiando nulla rispetto alla precedente manovra. Sto solo redistribuendo queste risorse verso diversi utilizzi.
Quello che conta per stimolare l’economia è soprattutto il maggior deficit. Al tal proposito, la manovra per il 2020 prevede un maggiore indebitamento per lo 0,8% del Pil, corrispondenti a 14,4 miliardi circa. Allora, si dirà, questo Governo sta facendo bene, visto che fa maggiore deficit per lo 0,8% del Pil. La risposta, purtroppo per le classi popolari, è no. Con questo maggiore indebitamento, infatti, la manovra finirà per essere caratterizzata da un rapporto deficit/Pil pari al 2,2%. Il problema, però, è che praticamente tutto questo deficit sarà utilizzato per pagare gli interessi sul debito pubblico, con scarsi o nulli effetti espansivi sull’economia.
In sostanza, una volta che si sia scorporata la spesa per interessi, la manovra è, in realtà, restrittiva. La differenza tra entrate e uscite, al netto della spesa per interessi, è detta saldo primario. Come abbiamo più volte evidenziato, solo il saldo primario fornisce una misura dell’impatto dell’intervento pubblico sull’economia e sulla domanda aggregata. Solo quando si ha un saldo negativo – ossia un deficit primario – lo Stato immette nell’economia, tramite la spesa pubblica, più risorse di quelle che sta drenando attraverso l’imposizione fiscale. L’esatto contrario di quanto previsto nella manovra 2020, che prevede un avanzo primario dell’1,1% del Pil e si pone in perfetta continuità con le politiche di austerità, che durano in Italia dal lontano 1992: al netto della spesa per interessi, si sottraggono risorse all’economia, facendo peggiorare la domanda aggregata e aggravando, quindi, la disoccupazione. Contro qualsiasi apparente contrapposizione, insomma, giallo-verdi e giallo-“rossi” sono due facce della stessa medaglia: l’austerità.
Naturalmente non contano solo le dimensioni, state tranquilli. Oltre al saldo primario, infatti, una legge di bilancio può essere giudicata in base alla sua composizione, in particolare guardando al modo in cui le risorse reperite, vengono utilizzate dal lato della spesa e delle minori entrate. La qualità, oltre alla quantità.
Ebbene, questo governo non sta facendo assolutamente nulla per far ripartire la domanda e l’occupazione: dei 29 miliardi da reperire dal lato delle misure restrittive o del maggior deficit, 23,1 miliardi andranno infatti a disinnescare le clausole di salvaguardia (79%), 2,7 miliardi per il taglio del cuneo fiscale (8%) 2,5 miliardi per le spese indifferibili (8%) e quello che resta per le spese obbligate sul fronte investimenti. Questi sono dati allucinanti, nel contesto stagnante dell’economia italiana.
La maggioranza schiacciante delle risorse è incanalata per la sterilizzazione delle clausole, cioè per evitare un aumento dell’IVA ordinaria dal 22% attuale al 25,2%. Tra l’altro, l’Italia registra già oggi un’aliquota IVA superiore alla media OCSE (19,3% nel 2019) e ai maggiori paesi dell’Eurozona (Germania 19%, Francia 20%, Spagna 21%). Il governo spaccia come un successo la sterilizzazione, poiché consente di evitare un ulteriore tracollo nei consumi, ma con più di 7 milioni di persone che vorrebbero un lavoro che non c’è – 2,5 milioni di disoccupati, 2,9 milioni part-time involontari e altri 2,7 milioni di scoraggiati, secondo i dati ISTAT sul II trimestre 2019, la politica italiana sceglie di utilizzare l’80% delle risorse individuate in manovra per non far scattare clausole vessatorie e auto-imposte.
È, dunque, il caso di approfondire il significato delle cosiddette clausole di salvaguardia. Che cos’è quest’oggetto misterioso, contro il quale tutti i Governi dicono di combattere in sede di legge di bilancio? Queste ultime ci vengono presentate come un meccanismo automatico che scatta nel caso in cui gli oneri in carico allo Stato eccedano le previsioni di spesa. Una sorta di assicurazione sulla correzione dei conti pubblici, che innesca un aumento delle entrate o una riduzione della spesa nel caso in cui il Governo non riesca a rispettare la disciplina fiscale.
Ma, praticamente, di cosa stiamo parlando? Le clausole di salvaguardia da disinnescare ogni anno sono, semplicemente, delle norme giuridiche contenute in un comma dell’articolone unico che normalmente costituisce la legge di bilancio. Tipicamente, con tali norme si prevede per l’anno a venire (in questo caso, il 2020) la permanenza dell’IVA e delle accise al loro livello attuale e per i due anni successivi (in questo caso, 2021 e 2022) un incremento dell’IVA e/o delle accise. Da nessuna parte c’è scritto che tali aumenti scatteranno solo in caso di mancata disciplina fiscale. Le clausole per il 2021 e il 2022 diventano legge: esse scatteranno automaticamente, a meno che, prima del 1° gennaio 2021, un altro provvedimento legislativo non intervenga a neutralizzarne l’effetto.
Ma a cosa servono? Perché – domanda fondamentale – capita che lo stesso Governo metta le clausole IVA e le tolga l’anno dopo? Questo stratagemma serve a prevedere un aumento delle entrate per poter presentare alle istituzioni europee dei valori del rapporto deficit/Pil in linea con le previsioni dei trattati. Non avrebbe senso, d’altronde, programmare dettagliatamente tagli di spesa o maggiori entrate (diverse da quelle derivanti dall’aumento dell’IVA) per periodi così remoti. In sostanza, si sta dicendo: nel 2021 e nel 2022 intendiamo ottenere maggiori entrate e minori spese per un valore pari X per accontentare l’Europa. Poiché, però, andare nel dettaglio di queste maggiori entrate e minori spese già ora comporterebbe un lavoro mastodontico in capo ai ministeri e renderebbe ancora più complicato il percorso parlamentare, per ora vi diciamo che questi X miliardi li reperiremo facendo aumentare l’IVA. In pratica, però, questi X miliardi saranno reperiti non attraverso l’aumento dell’IVA, ma attraverso la diminuzione della spesa o l’aumento e/o l’introduzione di nuove tasse e imposte.
Ogni anno, questo sistema consente ai governi in carica di raggiungere due obiettivi: giustificare con largo anticipo tagli alla spesa e aumenti delle tasse e sbandierare ai quattro venti che “abbiamo trovato i soldi per disinnescare le clausole IVA”. Spogliato dalla retorica, però, questo meccanismo ci mostra in piena luce la natura recessiva delle regole di finanza pubblica imposte dai trattati.
I 23 miliardi che, con la scusa delle clausole IVA, abbiamo sottratto all’economia avrebbero potuto essere utilizzati, per esempio, per la creazione diretta di quasi un milione di posti di lavoro, qualificati e dignitosamente retribuiti (25.000 lordi annui) nella PA. E non è tutto: il problema si riproporrà identico in sede di bilancio 2021 e 2022. Nello specifico, le clausole valgono ad oggi 18,4 miliardi per il 2021 e 25 miliardi per il 2022. Ciò significa che anche le prossime leggi di bilancio saranno sostanzialmente finalizzate a sterilizzare le clausole, a salvaguardare l’austerità. Quanto a lungo potremo sopportare questo drenaggio di risorse?
In conclusione, si pongono con chiarezza alcune questioni fondamentali. Come è stato possibile e di chi è la responsabilità di questa situazione? Le clausole sono figlie di deliberate scelte politiche, riconducibili in parte a una classe dirigente sciagurata e servile e in parte alle istituzioni europee, che dal 2011 – governo Berlusconi IV – hanno preteso l’introduzione delle clausole, qualora l’esecutivo non fosse stato in grado di raggiungere determinati “obiettivi di bilancio”. Se il governo Monti e quello Renzi decisero anch’essi di sterilizzare le clausole, Letta le fece scattare, portando l’IVA dal 21% al 22%. La cosa buffa è che la riforma del 2016 delle norme in materia di finanza pubblica si muoveva nel solco di superare il ricorso alle clausole! Lo ha sostenuto persino l’attuale Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie Francesco Boccia, promotore di quella riforma ed ex Presidente della Commissione Bilancio, che quando era all’opposizione del governo gialloverde si è spinto ad affermare
Se scrivono che l’Iva aumenta significa che questa è una scelta politica del governo. Se […] poi tornano indietro significa che stanno raggirando gli italiani e si stanno ammanettando a Bruxelles, violando anche le regole che ci siamo dati nella legge di bilancio che salvaguardavano gli interessi italiani.Peccato che, nuovamente al governo, il PD stia facendo esattamente la stessa cosa.
Quale ruolo rimane alla politica fiscale se gran parte delle risorse presenti e future della legge di bilancio sono destinate alla sterilizzazione? Nessuno, purtroppo. Le politiche per la piena occupazione o per la necessaria transizione ecologica hanno bisogno di uno shock fiscale consistente, impossibile se continuiamo a rispettare la logica delle clausole a salvaguardia dell’austerità. L’unica soluzione ragionevole e perseguibile passa dal rifiuto dei vincoli di bilancio europei che una classe politica complice di profittatori e portaborse degli interessi dominanti ha deciso di sottoscrivere.
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