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Evo Morales ha fatto una scelta obbligata, ma responsabile, dopo l’ammutinamento della polizia, capendo pur se in ritardo che anche l’esercito lo avrebbe abbandonato. Dispiace che sia dovuto riparare in Messico come un manigoldo, pur non essendosi mai macchiato di crimini né di ladrocinio. Però la fine del suo ministro degli Interni di due anni fa, che venne linciato dai minatori per non essere stato capace di mediare nel conflitto sindacale in corso allora, lo ha indotto a una fuga strategica. Una storia che abbiamo raccontato in passato.
Tuttavia dopo i primi disordini non ha dato corso alla repressione, fino a dare le dimissioni. Rafael Correa lo aveva anticipato, ancor prima delle elezioni 2017 in Ecuador. Il bilancio finale della rivolta postelettorale in Bolivia è stato di due morti, caduti durante gli scontri tra le opposte fazioni, non per mano di polizia o esercito.
Il fatto che anche la Bolivia ritorni nelle mani della deregulation liberista mi addolora profondamente. Dopo aver visitato i due paesi in più occasioni, la mia teoria riguardo alla possibile fine del socialismo andino dopo quella dei suoi creatori – senza dimenticare il vicepresidente Álvaro Linera, anche se la sua eventuale candidatura è improbabile essendo bianco in una nazione a maggioranza indigena e avendo proprio Morales scoraggiato tale eventualità – è che il nocciolo della questione stia nell’ingordigia del ceto medio locale, arricchitosi proprio grazie al fatto che i due leader non abbiano mai ostacolato l’iniziativa privata; le tasse innanzitutto, specie quelle di successione sui patrimoni dei ricchi, e le imposte sulle transazioni finanziarie, oltre ai paletti che hanno maldisposto i padroncini delle miniere nei confronti di Morales.
In Ecuador invece si sono mosse contro Correa le banche congiunte all’imprenditoria bianca, supportate dalla stampa di opposizione dei quotidiani El Universo y El Comercio dei fratelli Palacio, due potenti che calunniarono Correa ai tempi del tentato colpo di stato del 30 settembre 2010, quando il presidente venne sequestrato dalla polizia per 24 ore. Successivamente i due fratelli furono arrestati e condannati a un risarcimento di ingenti proporzioni, ma graziati dallo stesso Correa che evitò loro una pena detentiva.
Ricordo che il controllo fiscale in Bolivia era inflessibile, a fronte però di aliquote ragionevoli intorno al 25% per le società. Così come in Ecuador, dove per giunta il ministero delle Finanze aveva formato un’unità speciale che aveva il compito specifico di mettere i sigilli sulle attività che evadevano le tasse. Tutto ciò ha costituito a mio parere un fattore fondamentale nella battaglia che il ceto medio-alto ha intrapreso nei confronti dei due leader.
In Bolivia la minoranza bianca ha trovato un alleato inaspettato in quei membri della comunità Aymara – proprio quella a cui appartiene Morales – che avevano accumulato capitali con il commercio e l’estrazione mineraria. Non è un caso che costoro abbandonassero i quartieri poveri e gelati di El Alto a La Paz (la capitale) per trasferirsi nella roccaforte bianca di San Miguel all’interno della vallata dove il clima è più mite, laddove a suo tempo furono costruiti i quartieri residenziali, animati da locali alla moda e ristoranti di lusso. E proprio lì aspirarono con boccate voluttuose i vapori del neoliberismo.
In Ecuador, la comunità bianca mal sopportava un presidente che per la prima volta ficcava il naso nei suoi affari e nelle sue rendite, e tanto meno le banche che vedevano i prelievi fiscali finire nelle casse del Bono de Desarrollo Humano, un fondo statale che serviva a supportare le pensioni a basso reddito, le donne single con figli a carico, le casalinghe e gli emarginati in genere. Ceti poveri che non facevano parte della loro selezionata clientela, per i quali i banchieri non avevano il benché minimo interesse.
E questi trovarono proprio nel Conaie, il Comitato Indigenista Ecuadoriano, un insospettato alleato. Correa si era inimicato i dirigenti indios, quando aveva preteso di riscuotere un affitto per la loro sede che prima era stato concesso a titolo gratuito. Proprio gli indios, gli stessi che poche settimane fa hanno messo in ginocchio Lenin Moreno, costringendolo a rimangiarsi gli aumenti dei carburanti e il ritiro degli incentivi energetici che avevano messo a ferro e fuoco la capitale Quito.
In quel frangente Correa commise un errore capitale, compromettendo un’alleanza che forse lo avrebbe aiutato a mantenersi in sella. Così come il peccato di Morales è stato quello di proclamarsi vincitore invece di sciogliere subito il Comitato elettorale dopo le prime accuse di frode, e concedere un secondo turno di votazioni al suo rivale Carlos Mesa. Avrebbe potuto contare sullo zoccolo duro dei suoi sostenitori, e giocarsela al secondo turno.
“Follow the money”, tanto per cambiare. Segui il movente denaro, e capisci da dove è originato il crollo dei due ex capi di Stato. Niente dietrologia da scomodare in questa circostanza; Cia o Nuovo Ordine Mondiale hanno influito poco o nulla. Anche se ciò non toglie che Donald Trump tiri adesso un sospiro di sollievo, dopo lo smacco argentino della sconfitta di Mauricio Macri.
Se pensiamo all’assurdo che Maduro in Venezuela è ancora saldamente al potere, pur in un paese sfinito, con palesi violazioni dei diritti umani, e che lì gli Usa abbiano miseramente fallito puntando sul burattino Guaidó, emerge ancora più paradossale il contrasto con le nazioni andine, che i due leader lasciano con un bilancio decisamente all’attivo sia sotto il profilo economico che legalitario.
I nemici di Correa e Morales sono tutti venuti dall’interno, una volta che il loro sistema di governo ha osato mettere in discussione i vecchi privilegi. E poco importa che abbiano quasi dimezzato il tasso di povertà e contribuito a formare un ceto medio che prima non esisteva. Lo stesso che alla fine li ha traditi.
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