Alcuni giorni or sono, il quotidiano della Cei, “L’Avvenire”, titolava in apertura “Lavorare meno, tutti”. Un titolo certo non consueto per il giornale dei vescovi italiani. E difatti, non poca meraviglia – com’è facile immaginare – ha destato quella prima pagina, a tutti i livelli, ma in particolar modo tra i compagni.
Tanto che qualcuno si è spinto a commentare sardonicamente, sui social, “abbiamo conquistato la conferenza episcopale”, a sottintendere come quello slogan, risalente agli anni ’70, in auge nell’allora sinistra rivoluzionaria e in ampi strati della sinistra sindacale, venga ora rilanciato dal giornale della conferenza episcopale, ma abbia perso attrattiva all’interno di ambienti ed organizzazioni “di sinistra”; persino sedicenti comuniste.
Vale la pena ricordare, dunque, che in Italia, l’ultima volta che il tema della riduzione dell’orario di lavoro è entrato prepotentemente nel dibattito pubblico, risale alla fine degli anni ’90, quando l’allora segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, duellò, su questa materia, con l’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi. Senza risultati, naturalmente.
Da quel momento, “la sinistra” di casa nostra, sempre più liberal e compatibile con le logiche del Capitale, e sempre meno radicale, si è piegata ai voleri padronali; mentre i lavoratori, conseguentemente, non solo hanno continuato a sostenere gli stessi tempi massacranti ma hanno, a poco a poco, perso anche quei diritti conquistati durante anni di lotte dure: dall’art.18 alla tempistica per le pause, dalle rivendicazioni salariali fino al diritto di sciopero e manifestazione, messi a rischio dai decreti sicurezza di Salvini e Minniti.
Tutto ciò, sembra quasi superfluo ribadirlo, grazie soprattutto ai sindacati confederali – compresa la Cgil – che, in linea con il principio della “concertazione”, dagli anni ’90 in poi, hanno barattato l’abbandono del conflitto anti-padronale per i diritti dei lavoratori, con rendite di posizione all’interno delle aziende, o con il carrierismo politico di tanti quadri dirigenti.
È noto, ad esempio, l’accordo del Luglio 1992, che la Cgil, nella persona dell’allora suo Segretario Generale, Bruno Trentin, firmò col Governo per il superamento della scala mobile e per il blocco della contrattazione aziendale. Con Trentin che, in quell’occasione, si dimetteva subito dopo la firma.
Da pochissimi mesi, non per caso, il governo Andreotti – a Camere sciolte – aveva firmato gli accordi di Maastricht e le politiche di austerità per sempre, a partire dalla deflazione salariale. La contrattazione sindacale doveva adeguarsi al nuovo quadro, e lo fece con quell’accordo.
Dunque, all’interno del movimento comunista, almeno in Italia, solo alcune organizzazioni di classe hanno continuato ad insistere sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Triste segno dei tempi, in cui il conflitto sociale – che pure rappresentava, fino a qualche decennio fa, il sale della democrazia borghese – sembra essere diventato una bestemmia lanciata contro le nuove divinità contemporanee: Mercato, Aziende, Multinazionali, Banche e Unione Europea.
Eppure, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario rappresenta una battaglia che, rammentiamolo, fu bandiera del movimento comunista fin dalle sue origini. Soprattutto in Europa.
Nel 1848 le Trade Unions ottennero per la prima volta in Inghilterra le 10 ore di lavoro come tetto massimo, in un tempo in cui gli operai ne lavoravano anche 14-15 al giorno. Tra le due guerre mondiali, in quasi tutti i paesi europei, il movimento dei lavoratori ottenne le famose 8 ore come “normalità” contrattuale.
Bisognerà aspettare, invece, la seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, perché la discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro riprenda quota. Con scarsi risultati, purtroppo. E a causa proprio di Pci e Cgil che, nella seconda metà di quegli anni, sperando nella follia del “compromesso storico”, arrivarono a sostenere addirittura il rigore della “politica dei sacrifici”, varata dalle élite politico-economiche per contrastare gli effetti della crisi petrolifera.
Solo in Francia, nel 1998, durante il governo Jospin, fu approvata una Legge per la riduzione del lavoro settimanale, da 40 a 35 ore. Normativa che suscitò grandi polemiche e una guerra mediatica della Confindustria francese, con il risultato di un rientro di fatto alle 40 ore settimanali.
Anche in Germania c’è stato un accordo per le 36 ore settimanali, o la “settimana breve”, in qualche grande industria automobilistica, che è rimasto, però, eccezione separata dal resto dell’apparato produttivo.
In breve, per quasi un secolo, l’orario di lavoro è rimasto pressoché invariato nei paesi industrializzati, malgrado gli enormi aumenti di produttività che, come aveva previsto anche Keynes, hanno ridotto drasticamente la fatica umana impiegata per unità di prodotto.
In realtà però, nel nostro Paese e negli ultimi tempi, non è la prima volta che settori della borghesia rilanciano questa parola d’ordine, cara ai movimenti comunisti e marxisti. Un anno fa, fu il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, a proporre la riduzione dell’orario di lavoro. Ora, la mozione trova spazio sul quotidiano della Cei e addirittura la rilancia la Ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo.
Quando però “Lavorare tutti lavorare meno a parità di salario” diventa uno slogan sbandierato dal giornale della Conferenza Episcopale Italiana e dal Ministro del Lavoro di un governo non certo orientato “al socialismo” ma neanche alla bassa socialdemocrazia, bisogna drizzare orecchie e antenne, perché la fregatura è dietro l’angolo. In questo caso, per esempio, si chiama contrattazione di secondo livello.
Fanno sapere infatti fonti ministeriali: «poiché si dovrà aprire la partita dei rinnovi contrattuali per oltre dieci milioni di lavoratori, il tema della riduzione dell’orario insieme a quello della rimodulazione dell’organizzazione del lavoro potranno essere affrontati in quella sede, in modo più strutturato. Ovviamente, la loro concreta attuazione – precisano – dovrà essere demandata alla contrattazione di secondo livello».
Ma cos’è la contrattazione di secondo livello? È una contrattazione siglata tra singolo datore di lavoro e organizzazioni sindacali, a livello aziendale, che permette di derogare ai CCNL. Consente, tra le altre cose, di gestire più flessibilmente gli orari di lavoro, derogare al limite legale sui contratti a tempo determinato, ampliare la stagionalità, detassare i premi di produzione. Era in realtà nata per “derogare in meglio” rispetto ai contratti nazionali, ma si sa come va con le “deroghe”...
La contrattazione di secondo livello, inoltre, è alla base del welfare aziendale che permette ulteriori risparmi fiscali e previdenziali per le aziende. In pratica, questa tipologia di contratti, definiti appunto contratti aziendali, permette di modificare, a tutto vantaggio delle aziende, con la collaborazione dei sindacati confederali complici, alcuni istituti economici e normativi disciplinati dai Contratti Collettivi Nazionali, quali: Retribuzione, Inquadramento, Tempo determinato, Orario di lavoro, Welfare Integrativo, Formazione Professionale, Ambiente di Lavoro, Salute e Sicurezza, Organizzazione del lavoro, Pari Opportunità, Bilateralità.
Si capisce, allora, come la stipula di questi accordi, sotto la guida del Consulente del Lavoro, permetta all’azienda di potersi “cucire addosso” il proprio contratto secondo le proprie peculiarità. Una contrattazione che assume persino, in taluni casi, carattere territoriale.
In parole povere, la contrattazione di secondo livello potrebbe sancire – in linea con quanto richiesto oggi da Bonomi e Confindustria – la fine del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, approfittando del Coronavirus. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria nominato ma non ancora insediato, ha infatti chiesto, nei giorni scorsi, che: «Il Governo agevoli quel confronto leale e necessario in ogni impresa per ridefinire dal basso turni, orari di lavoro, numero di giorni di lavoro settimanale e di settimane lavorative in questo 2020, da definire in ogni impresa e settore al di là delle norme contrattuali». Sollecitando, di fatto, che i contratti nazionali vengano sospesi e si proceda ad una rinegoziazione totale dei diritti su base aziendale.
La Confindustria, dunque, ha alzato subito toni e barricate contro l’ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. E si è messa di traverso anche rispetto ad un maggiore ruolo dello Stato nell’economia.
Bonomi, in una intervista rilasciata il 4 maggio al Corriere della Sera, ha affermato che: «Lo Stato faccia il regolatore, stimoli gli investimenti, rilanci con più risorse il piano Industria 4.0. Ma si fermi lì. Non abbiamo bisogno di uno Stato imprenditore, ne conosciamo fin troppo bene i difetti». Ma non fa per niente schifo l’intervento dello Stato a sostegno delle imprese.
La verità è che, in seguito al disastro economico e alla drammatica flessione del Pil, provocati dalla pandemia, sarà inevitabile un intervento dello Stato in economia, un po’ in tutti i settori produttivi, devastati da delocalizzazioni, “spezzatini” e svendite. Soprattutto considerando che le politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni hanno smantellato quel Welfare il quale, specialmente a livello sanitario, oggi sarebbe tornato utile, almeno in termini di vite da salvare.
E considerando, ancora, che lo stesso Stato avrebbe il compito, quasi imprescindibile, di incentivare la domanda aggregata facendo, all’occorrenza, spesa in deficit. Cosa però complicatissima, non solo a causa della strenua opposizione confindustriale ma, soprattutto, qualora l’Italia dovesse aprire nuove linee di debito attraverso il Mes. Quel cosiddetto Fondo Salva Stati che, malgrado quanto si affermi circa l’assenza di condizionalità, sottoporrà l’Italia ad un futuro regime di controllo strettissimo da parte dell’Unione Europea e della Bce.
Insomma, la tagliola giuridica del Fiscal Compact in Costituzione è sempre lì; ma si aggiunge l’ombra fatale della Trojka sul piano operativo.
Appare dunque evidente, stando così le cose, che i padroni si preparino a “concertare”, dopo la pandemia da Covid, senza troppi rischi per i propri interessi, una nuova fase di quella che lorsignori considerano, a tutti gli effetti, un’ingerenza pubblica in affari privati. Un new New Deal, da intendersi come una sorta di keynesismo post bellico, dove l’intervento dello Stato nell’economia, seppur indispensabile, sia a forte trazione aziendalista e neoliberale.
In pratica, un ordoliberismo mitigato e leggermente più spinto sul versante di quella protezione sociale che è da considerarsi improcrastinabile, almeno se si vogliono evitare, nell’immediato, insurrezioni popolari, vista la situazione – alquanto funesta per le tasche di ceti medi e subalterni – che si prospetta quando si andranno a fare i conti effettivi del lockdown e delle sue conseguenze sull’economia reale.
Insomma, è fuori discussione che lo Stato, per far ripartire l’azienda Italia dovrà intervenire. Il problema è come lo farà.
I comunisti e la riduzione dell’orario di lavoro
Una domanda, a questo punto, s’impone però con tutta la sua drastica impellenza. Come rispondono a tutto ciò i comunisti? Quali sono le prospettive di lotta e le strategie che la sinistra, quella che ancora si percepisce radicale, malgrado le tante deviazioni di percorso, e quella sinceramente rivoluzionaria, mettono in campo?
Riteniamo che, facendo tesoro delle esperienze passate, e anche guardando alle disastrose condizioni in cui versa l’ecosistema planetario, il movimento comunista debba necessariamente tornare a mettere al centro del suo programma il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
La riduzione dell’orario, in funzione di controllo sul comando dell’organizzazione del lavoro, potrebbe ricomporre, infatti, la classe lavoratrice e, perfino, riuscire ad interrompere a monte i meccanismi di esternalizzazione e la formazione fuori controllo delle filiere produttive precarizzate.
Insomma, il Capitalismo va aggredito, oggi più che mai, fin dentro la sua radice malata. Il suo Modello Produttivo va completamente sovvertito. Bisogna mettere dunque fine, innanzitutto, alla schiavitù del lavoro salariato, a ritmi di produzione sempre più “flessibili” ed alla diseguale divisione del lavoro. Non è più possibile, inoltre, affidarsi ad una crescita sconsiderata e illimitata. Al Pil e ad altri parametri neoliberisti.
Lo sviluppo incessante delle forze produttive è in stallo, perché oggi, come non mai, bloccato in rapporti di produzione paralizzanti e fluidi ad un tempo, in quanto volatili, mobili e delocalizzabili, come la merce e lo stesso capitale.
Scrive Gianfranco Pala, in “Lo Zibaldone del tempo di lavoro”, che gli strumenti della controffensiva padronale degli ultimi due decenni sono il cottimo (nella forma di salario di partecipazione et similia), l’ esternalizzazione e la dislocazione progressiva di fasi della lavorazione, attraverso gli anelli della catena collegati tramite i subfornitori in appalto, e il lavoro autonomo “etero diretto”, fino al lavoro a domicilio.
In questo modo l’erogazione della forza-lavoro viene sganciata dal tempo e legata alla quantità di merce prodotta. Così viene tolto addirittura l’oggetto del contendere e il tema intorno al quale discutere: il “tempo” stesso.
Tutto ciò ha provocato, come logica conseguenza, una polverizzazione dei vecchi assetti di classe con una frattura evidente all’interno degli stessi ceti subalterni, e una composizione sociale completamente sovvertita rispetto al passato, anche nelle relazioni. Per questo motivo, c’è bisogno di una totale inversione di tendenza. Anche organizzativa e nella forma di Governo.
La produzione dovrebbe rispondere, ad esempio, ad esigenze territoriali, culturali e antropologiche. Esigenze che rispondano ad effettive necessità, non a meri criteri produttivistici. Questo presupporrebbe, pertanto, anche un’autogestione degli stessi paradigmi produttivi, dei tempi di produzione e una riconsiderazione delle forme di organizzazione sociale, secondo le logiche, quanto più possibile, dell’autogoverno popolare.
Ci sono esperienze, in tal senso, che andrebbero studiate e valutate attentamente. Come, ad esempio, l’esperienza delle fabbriche recuperate in Argentina (e non solo) nella crisi del 2001. Aldo Marchetti, in Fabbriche aperte, elenca alcuni punti essenziali:
1) una risposta creativa all’assenza di proprietà e del sapere manageriale, amministrativo e tecnico;
2) collaborazione e non concorrenza tra imprese;
3) democrazia di base nella conduzione aziendale e nella redistribuzione equa dei guadagni;
4) destrutturazione dell’organizzazione scientifica del lavoro e demistificazione dell’impresa come organizzazione dominata dagli ordini;
5) minimizzazione dell’accumulazione del plusvalore: è il lavoro che impiega il capitale e non il contrario;
6) aperture delle imprese al territorio: ospitalità a centri culturali, ambulatori comunitari, luoghi di formazione;
7) solidarismo e reciproco aiuto tra imprese e tra imprese, territorio e movimenti.
In sintesi, dice Marchetti, i numerosi aspetti critici e le difficoltà delle diverse esperienze di autogestione non smentiscono la loro importanza nella storia del movimento operaio.
La classe lavoratrice internazionale deve dunque rompere l’ingranaggio che ne determina l’essenza di anello fondamentale nella valorizzazione del Capitale, diventando soggetto rivoluzionario, quanto più possibile autogovernato.
I concetti di fabbrica e di azienda sono, qui ed ora, il terreno di scontro a livello globale. Uno scontro che dev’essere principalmente culturale. Dall’Azienda-Mondo, dal Sistema-Mondo bisogna necessariamente collocarsi fuori, come sostengono Hosea Jaffe, Samir Amin, Immanuel Wallerstein. Pena, l’eterna iniquità dello sfruttamento di classe. Per questo, è necessario gettare, al più presto, un cacciavite nel sistema. Per incepparne gli ingranaggi. Un gesto rivoluzionario, la cui essenza sovversiva risiede nella riappropriazione dell’umano Tempo vitale!
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