L’ipermediatore Giuseppe Conte ha completato il suo giro delle sette chiese, in Europa, a caccia di alleanze e punti di caduta in vista del vertice europeo di venerdì e sabato. Lì ci dovrebbe essere il passaggio decisivo – anche se non conclusivo, molto probabilmente – per arrivare a definire dimensioni, struttura condizioni per il Recovery Fund.
Di certo, al momento, c’è soltanto che la cifra sarà di 500 miliardi – e non i 750 suggeriti dalla Commissione Europea, che restano solo della testa degli “europeisti a dispetto della realtà” (come la povera Milena Gabbanelli, pallida ombra della giornalista che dirigeva Report) –. Oltre alla perdurante ostilità assoluta dei cosiddetti “paesi frugali”, come quell’Olanda il cui attuale premier, Mark Rutte, ha suggerito al collega spagnolo Sanchez di “trovare una soluzione interna”. Insomma: un “vendetevi qualcosa e tagliate la spesa pubblica perché da noi non vi arriverà nulla”.
Questa opposizione è nota. Meno conosciuta è invece la principale ragione per cui i “frugali” (Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Finlandia, Austria, Svezia, Danimarca, ecc.) tengono questa posizione.
Anche qui una sola cosa è certa: la “frugalità”, ossia una motivazione morale o ideologica, non c’entra niente è solo una maschera per sostenere una narrazione falsaria in cui i “buoni” sono alcuni e quelli in difficoltà (maggiore) sarebbero “cattivi” o “spendaccioni”.
Un chiarimento numerico e legislativo arriva da uno studio compiuto da Thomas Tørsløv (Universittà di Copenhagen), Ludvig Wier (UC Berkeley) e Gabriel Zucman (UC Berkeley), e sintetizzato in un testo dal titolo illuminante: The Missing Profits of Nations.
Cosa hanno fatto i tre? Hanno calcolato quanto perdono in tasse i Paesi che vedono le aziende trasferire altrove la sede fiscale, e quanto ci guadagnano invece quelli che le attirano abbassando l’aliquota a livelli ridicoli.
Finché questo meccanismo riguarda “paradisi fiscali” caraibici, la cosa è sgradevole ma irrisolvibile legalmente in sede europea (qualcosa comunque si potrebbe pure fare, in termini di limiti alla circolazione dei capitali). Quando invece riguarda partner membri della stessa comunità economica, che fissano regole comuni stringenti sulle politiche di bilancio, bacchettando quelli che non le rispettano e imponendo quindi “politiche di austerità”, beh... la cosa diventa scabrosa.
Ma è quello che accade nell’Unione Europea.
A rimetterci di più sono Germania (55 miliardi di dollari di entrate fiscali perse nell’anno 2015), Francia (32 miliardi di dollari) e Italia (23 miliardi di dollari, in pratica una manovra finanziaria di fine anno). Queste cifre, beninteso, sono annuali e, soprattutto, sono in costante crescita, perché sono sempre più numerose le aziende che trovano conveniente farlo e quindi gonfiare profitti non troppo soddisfacenti.
Chi è che ci guadagna, invece? La classifica è guidata dall’Irlanda (106 miliardi di dollari l’anno), segue l’Olanda (57 miliardi di dollari), poi il Lussemburgo (47 miliardi di dollari). Togliete all’Irlanda quei 106 miliardi l’anno e vedrete crollare l’alleanza conservatrice, mentre già sale prepotente la marea del Sinn Fein...
Guarda caso, sono gli stessi paesi che non vogliono un Recovery Fund troppo “generoso” nei confronti dei paesi mediterranei, le aziende dei quali corrono a versare nelle loro casse statali aliquote fiscali basse, in percentuale, ma estremamente interessanti in cifra assoluta, specie per nazioni dalla popolazione limitata e con una economia messa già abbastanza bene (la più popolosa, l’Olanda, è intorno ai 17 milioni di abitanti; e le sue entrate fiscali derivano per il 40% da multinazionali straniere a caccia di sconti).
Una situazione che non sarebbe possibile se Francia e Germania non fossero consenzienti, anzi “motori immobili” di questa sceneggiata “frugale”, tramite la “regola” secondo cui si può limitare la libertà dei regimi fiscali europei... solo all’unanimità! Insomma solo se i “furbi frugali” votano contro se stessi.
Da sottolineare, en passant, che il ministro delle finanze irlandese, Paschal Donohoe, è appena stato eletto – a sorpresa – presidente dell’Eurogruppo. In pratica l’organismo che “detta le regole”... Alla faccia del conflitto di interessi, si sarebbe detto se fosse alla guida di una società privata!
Il suo lavoro, è già dichiarato, sarà difendere la legittimità dei Paesi come il suo, quelli che praticano un dumping fiscale che impoverisce in prima istanza i Paesi partner, ma a ben guardare la capacità industriale e di innovazione di tutto il Vecchio Continente. Oltre – ma è una banalità che a loro non interessa affatto – ad impoverire rapidamente le popolazioni di quei Paesi che, avendo entrate fiscali minori (e un’evasione illegale già altissima), devono far quadrare i propri bilanci con le “regole europee”; scritte fra l’altro quando quel dumping non esisteva affatto o era marginale.
E infatti i tre ricercatori sottolineano che “ogni volta che scelgono aliquote molto basse, persino imposizioni praticamente vicine allo zero, i paradisi fiscali traggono chiari benefici dall’attirare profitti da altri Paesi. Vale la pena notare che l’aumento delle entrate fiscali non è l’unico modo in cui questi paradisi beneficiano” dalla concorrenza sleale.
Questi Paesi teoricamente partner, infatti, attirano per questo motivo aziende multinazionali ad alta intensità di capitale. Ossia imprese che rappresentano anche il vertice tecnologico nei loro settori, favorendo quindi non solo l’innalzamento dei salari e dei prezzi (anche immobiliari) nei Paesi ospitanti, ma anche una qualche ricaduta sul loro progresso tecnologico.
Questo in origine, almeno. Perché ormai la pratica dello spostamento della sede fiscale o legale – qualche anno fa appannaggio di grandi e anziani marpioni multinazionali come Fiat-Fca, Luxottica, Illy, Telecom Italia, Prysmian, Cementir, e persino colossi a partecipazione statale come Eni ed Enel – ormai è “normale amministrazione”. Tra le ultime società italiane “espatriate” a fini fiscali ci sono antichi marchi alimentari, fino a più modesti produttori di mozzarelle “bio” fatto con latte proveniente dall’estero.
Quando parliamo di “borghesia europea”, insomma, parliamo di una quota non piccola dell’”imprenditoria nazionale” che da tempo ha assunto un orizzonte di business che considera ancora questo Paese solo quando, e se, pratica politiche del lavoro deflazionistiche – in linea con il mercantilismo e le filiere produttive tedesche, peraltro – che le consentono di incrementare i profitti. Per il resto dei problemi sociali, ci sono le varie polizie, no?
Per concludere sul tema principale, ossia la curiosa situazione per cui alcuni Paesi della Ue si atteggiano a “frugali” con i soldi dei partner, anche un analista internazionale di Unicredit – primaria banca italiana, notoriamente – è costretto a registrare che “un’errata allocazione delle risorse distorce i mercati”, “riduce la potenziale crescita in tutta Europa e facilita una narrazione di prudenza fiscale da parte dei piccoli Paesi del Nord Europa in contrasto ai più grandi Paesi del Sud”.
Una “narrazione” cui naturalmente le grandi banche non possono credere, conoscendo benissimo le conseguenze di ogni trattato europeo.
Sarà un caso, ma nel coro scomposto degli “europeisti” che bollano come “ideologico” il rifiuto di ricorrere al Mes, gridando che ormai sarebbe “senza condizionalità e a interessi zero”, non si è alzata nemmeno una voce di banchiere.
Forse perché sono loro, in primo luogo, a comprare titoli di Stato italiani (e non solo). E sanno bene che anche solo un accenno di “sorveglianza rafforzata” da parte della Troika (pure se nessuno, a Bruxelles, vuole più coinvolgere gli yankees del Fmi) può far svalutare gli asset che hanno in cassaforte. Esponendole così al rischio di dover sottostare ad altre “regole europee” che impongo bail in, fallimenti, aumenti di capitale, svendite al primo offerente...
In Europa c’è da decenni una guerra, anche se non si spara troppo. È economica, viene fatta a colpi di trattati, codicilli, contratti e fregature. Il solo sangue che scorre è il nostro, quello degli ultimi che fanno da bottino per i predatori “più bravi”.
Quella tra “europeisti” e sovranisti” è perciò una finta rissa tra complici. Nessun lavoratore, disoccupato, precario, pensionato, giovane ancora studente o già neet ha amici da quelle parti.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento