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05/07/2020

Quell’imprenditore vicentino che “non si poteva fermare”

Due sentite parole, la vicenda del manager vicentino della Laserjet, le merita.

La notizia è ripetuta da tutti i media, il governatore leghista Zaia la usa per rafforzare la sua pretesa immagine da “duro”, i ministri e i giornalisti si interrogano sulla legittimità di un eventuale Tso.

Non ci vogliamo mischiare con questo circo. Non ci interessa il giudizio sul comportamento di una singola persona, ma evidenziare una “cultura diffusa”.

Zaia, che ha fatto segnalare l’imprenditore alla procura, ha cambiato idea decine di volte su aperture e chiusure della “sua” Regione, ed ha la stessa attendibilità del collega lombardo Fontana. La sua unica fortuna è stata avere tra gli esperti consultati il prof. Crisanti e averne seguito – malvolentieri, dicono – le indicazioni. Che hanno di fatto impedito che il Nordest replicasse il disastro lumbard.

Stiamo al fatto. Un dirigente della Laserjet va in Serbia, ritorna in macchina insieme a tre colleghi (tutti positivi, ora), contrae inconsapevolmente il coronavirus, rientra a casa e riparte poi per la Bosnia.

Rientrato di nuovo in Italia comincia a manifestare i sintomi classici (febbre tosse, ecc.) ma continua a lavorare e girare. Fin quando la situazione non peggiora e solo allora va al pronto soccorso di Noventa Vicentina.

Fatto il tampone, saputo di essere positivo e contagioso, ha rifiutato il ricovero ed è tornato a casa.

Da qui le versioni divergono. C’è chi lo accusa di essere tornato a fare la solita vita, andando in azienda, facendo incontri di lavoro, ecc. Mentre il figlio, che pure lo critica, afferma sia rientrato in casa con l’ambulanza e di lì non si sia mosso fino al ricovero vero e proprio in ospedale. Ma solo per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Ammettiamo pure che sia vera quest’ultima, le cose cambiano di poco...

In questa storia di cronaca c’è infatti la sintesi del rapporto (contraddizione) tra logica capitalistica e vita. “Non ci possiamo fermare”, per nessuna ragione, è il vero spirito di questo modo di produrre e vivere.

Era la frase che veniva più spesso ripetuta, a fine febbraio-inizio marzo, nelle interviste fatte in Val Seriana, quando si stava preparando la “zona rossa” che poi non c’è stata per la feroce contrarietà degli imprenditori con attività in loco. Le conseguenze sono note (record mondiale di contagiati e morti in proporzione alla popolazione).

“Non mi posso fermare”, si è detto anche questo manager vicentino. Neanche quando la vita in gioco era la sua. Neanche se diventi potenzialmente un bomba umana contagiosa, un kamikaze del profitto.

Se c’è una cosa che è esplosa alla luce del sole in questa pandemia è proprio questa incompatibilità manifesta tra capitalismo e vita. Non un discorso astratto, non un’analisi scientifica che – per definizione – richiede qualche studio e capacità di guardare oltre le apparenze fenomeniche.

No. Questa incompatibilità si è presentata fisicamente, toccabile con mano.

Si è manifestata nel corpo malato di un uomo che “sentiva” crescere dentro di sé la malattia – e i polmoni che si vanno riempiendo di liquido non sono davvero la cosa più piacevole da sopportare – ma sentiva ancora più forte l’imperativo di andare avanti a qualunque costo.

Perché ci sono affari da concludere, contratti da firmare, contatti da sviluppare, dipendenti da disciplinare, ricavi da conteggiare e moltiplicare (o comunque da rimettere in direzione “positiva” dopo il lockdown).

In quel corpo, lo scontro tra il Pil e la vita si è concretizzato nel modo più solare. E finché le forze lo hanno sorretto, il Pil è stato sempre più importante della vita. Anche della propria.

Poi il gioco finisce. Per un individuo come per il sistema complessivo. Il capitalismo ormai produce autodistruzione, e si vede.

È ora di cambiare sistema, prima che sia troppo tardi.

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